17 gennaio 2004


Pontificia Università Lateranense - XV Giornata per
 l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano:
 «Serviranno il Signore appoggiandosi spalla a spalla» (Sof 3.9)

 


Resoconto dell'incontro, svoltosi il 15 gennaio:
Hanno partecipato: Rav Riccardo Di Segni, Prof. Giovanni Odasso
Interventi di Mons. Rino Fisichella: apertura - dopo l'intervento del Rav - chiusura

 



S.E. Mons. Rino Fisichella:       torna su

“Porgo il saluto di benvenuto a nome della Diocesi di Roma.

Anche quest’anno abbiamo il piacere di celebrare la XV Giornata di Amicizia e di Dialogo tra Ebrei e Cristiani. Il mio più sincero e cordiale benvenuto a S. E. il Rav. Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, che ormai è diventato ospite abituale a queste nostre giornate. Il mio benvenuto anche a P. Giovanni Odasso, Professore nell’Università Lateranense.

Questa XV Giornata è per ricordare non solo che siamo amici e fratelli, perché questa è una realtà che è permanente. Gli amici non sono tali solo per un giorno: quando l’amicizia è vera, sincera e profonda, quando è radicata su una fede comune, perdura nei secoli e va oltre lo spazio ed il tempo.

Ma ci sono alcuni momenti in cui è importante e anche necessario che questo rapporto di amicizia venga esplicitato e sia reso visibile. Lo abbiamo fatto anche in diversi momenti, lo scorso anno, come Diocesi abbiamo partecipato all’invito ad essere presenti in Sinagoga per dare la nostra solidarietà, in un momento particolare in cui la Comunità Ebraica nel mondo era colpita dalla violenza e ribadiamo oggi, qui alla presenza del Rabbino Capo, il nostro desiderio e la nostra volontà di approfondire sempre di più il nostro rapporto di amicizia.

Quest’anno la Conferenza episcopale ci ha indicato un versetto, citato tra virgolette, e sono sicuro che ci sarà una presentazione critica di questa espressione: “Serviranno il Signore appoggiandosi spalla a spalla”, ispirato al testo di Sofonia 3, 9.

Memore di quello che era stata la lezione del Rav Di Segni l’anno scorso quando aveva dichiarato di non aver trovato nella Bibbia il testo proposto per la XIV Giornata, sono andato ad aprire la Bibbia e anch’io non ho trovato quello indicato per quest’anno! Ascolteremo, pertanto, in particolar modo dal Rav Di Segni, il significato più preciso del versetto.

Quello che a me preme è esprimere il richiamo del profeta Sofonia, cioè “il Signore protegge”.

Questo testo è nato in un momento molto difficile della vita e della storia di Israele, momento che ha delle affinità con quello che noi stiamo vivendo: quanto più si accresce il benessere, quanto più si ha tutto nella vita, tanto più sembra venire meno il senso del rapporto con Dio. Questo mi sembra il richiamo più forte che emerge dal profeta Sofonia, un richiamo critico al momento storico che viene vissuto, ma alla luce di una profonda libertà: il profeta è sempre un uomo profondamente libero davanti al potere civile, al potere regale, al potere economico, davanti ad ogni potere. Questa sua libertà proviene da una certezza: Dio si fa conoscere, il Signore si manifesta, si rivela. Questa è la bellezza della nostra fede: Dio rivelandosi ci consente di raggiungere una novità talmente radicale che la sola nostra riflessione umana non consentirebbe mai di raggiungere. E’ necessario che sia Lui a farsi conoscere e a rivelarsi. Vogliamo accogliere l’invito del profeta Sofonia: la certezza del Giorno del Signore, di questa presenza di Dio nella nostra vita che al di là, o attraverso quello che gli uomini costruiscono, porta a relativizzare ogni assoluto che noi facciamo, costruiamo, per mettere davanti ai nostri occhi sempre e soltanto la sua presenza salvifica. Con questa brevissima introduzione, con la quale rinnovo il mio ringraziamento ai due relatori per essere qui con noi e per aiutarci a riflettere, do subito la parola al Rav Riccardo Di Segni”.

Rav Riccardo Di Segni:        torna su

“Sento non solo il dovere ma anche il piacere di ringraziare Mons. Fisichella per l’invito che ha voluto ripetermi quest’anno a essere qui con voi questa sera. Da parte di Mons. Fisichella è un ennesimo gesto di amicizia. Lui stesso lo ha ricordato e ci ha fatto particolarmente piacere la sua presenza in Sinagoga nelle scorse settimane quando c’era stato un allarme terroristico di un attentato in una Sinagoga europea. La sua presenza mi ha particolarmente confortato.

Vorrei affrontare il tema in due modi. In un primo momento, per un chiarimento scritturale, leggere il brano di cui stiamo parlando con una breve analisi di tipo rabbinico e, in un secondo momento, cercare di vedere alla luce di ciò che emerge da questo brano, quale possa essere il senso, ma soprattutto la difficoltà attuale di comprensione, di misurarsi con questo messaggio che viene da un profeta chiamato Sofonia, terribile trascrizione greca e poi latina del nome Tsefaniah che può significare “Dio protegge” ma indica anche “tsafùn” (nascosto), l’aspetto nascosto di Dio. Pensate che nell’ebraico moderno “matspùn” diventa “coscienza”, quindi in qualche modo la coscienza di Dio che si rivela. Questo profeta parla molto brevemente, abbiamo solo tre capitoli, in cui dice delle cose molto dure, e anche il brano che stiamo considerando è un momento di respiro in una profezia estremamente dura perché al verso precedente ( Sof 3,8) il Signore si rivela con l’ira, con il fuoco della sua gelosia che divora l’intera terra e mette alla prova i popoli. Solo a questo punto compare il verso 9 che traduco letteralmente perché è importante l’analisi letterale per comprendere la sfumatura che il testo ci dà e tutto ciò che nasconde. “Perché allora - dice il profeta - riverserò sui popoli una lingua chiara (safah berurah), in modo che tutti chiamino o invochino il Nome del Signore per servirlo appoggiandosi spalla a spalla”. Letteralmente significa “una spalla”. In realtà, la parola “shechem” non significa la spalla anatomicamente, ma qualcosa che sta dietro la spalla, molto più precisamente, il dorso. Quindi letteralmente: servilo come se fosse un’unica spalla. Questa spalla è la parte anatomica del corpo che sostiene i pesi. Il giogo di cui si parla in questo caso è la cosa che carica la persona, quindi, servire Dio nel senso positivo di sopportare il peso di questo servizio tutti quanti insieme. Perché è così importante questo verso? Esso ha avuto un importante riscontro nell’esegesi ebraica, prova ne sia il fatto che il più grande commentatore della storia ebraica, Rashì, quando parla del verso “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Unico” (Dt 6), che è il testo che anche Gesù citava come testo fondamentale e che per noi è la preghiera che recitiamo due volte al giorno, al mattino e alla sera, prima di coricarci. Questa frase fondamentale che esprime l’identità della fede ebraica viene spiegata da Rashì nel senso che il Signore è il nostro Dio, oggi è il Dio del nostro popolo, ma il Signore sarà in futuro uno per tutti quanti i popoli della terra, come dice appunto il verso di Tzefaniah: “riverserò su tutti i popoli un’unica lingua…”. Quindi la centralità di quest’immagine è nel senso che essa viene presa come il simbolo di tutti i popoli che confluiranno nella fede del Dio unico che, al momento, è la fede di Israele.

Questo verso, per poter essere compreso nella sua dinamica, richiede approfondimenti. L’immagine che credo sia dietro a questa profezia è quella della torre di Babele. Nella torre di Babele abbiamo una storia di popoli tutti quanti uniti che pretendono di costruire una città con una torre la cui cima arrivi al cielo, di farsi un nome “venaaseh-llanu shèm”, una fama perenne, per non disperdersi sulla faccia della terra. Il Signore viene e confonde le lingue della terra e disperde l’umanità che si raccoglie intorno a questo progetto. Secondo il racconto della Genesi evidentemente esiste un progetto iniquo da parte dell’umanità, un progetto di falsa unione. L’unità di per sé non è un valore positivo, bisogna vedere intorno a quale tema ci si unisce. L’unità degli uomini della torre di Babele era una unità di sfida nella quale ci si vuole fare un nome che è mondano, non è un nome spirituale, e contro questa unità che sfida il cielo si scatena la punizione della confusione della lingua. Contro questa unità di sfida esiste invece il progetto dell’unità desiderata che ha valore intellettuale e spirituale. Allora noi abbiamo due profezie che insistono su questo tema, una è quella di Isaia cap. 2 che prefigura l’immagine dell’umanità che confluisce tutta quanta su un’altura che è la casa di Dio, Gerusalemme, e tutti quanti confluiscono verso Adonaj. L’altro corrispettivo di questo racconto è l’idea che prima gli uomini volevano farsi un nome, e adesso è il Nome in cui l’umanità si deve riunire, è il Nome di Dio, come dice Tsefaniah e tutti quanti avranno una “safah berurah”. Ed ecco che la lingua che prima era confusa, adesso diventa “lingua chiara”. C’è anche un gioco di parole perché confondere (bilbel) levalbel, da cui Babele - secondo un’interpretazione mitica del racconto della Genesi - invece qui “balal” diventa “barar”, “confondere” diventa “chiarire”. Abbiamo così una corrispondenza chiara del passaggio delle profezie. Il modello di Tsefaniah è quello di ricomporre la crisi della torre di Babele, ricreare l’unità dei popoli intorno a un valore spirituale superiore.

Soffermiamoci sul valore simbolico di questa misteriosa “spalla” o “dorso” o “schiena”: l’idea è quella delle forze unite, infatti nelle concordanze di Mandelchern la traduzione dell’espressione “shechem echad” è appunto “viribus unitis”, “le forze unite”. Una riflessione rabbinica non può fare a meno del significato di questa parola: ci sono dei riferimenti simbolici estremamente forti. I sostantivi in ebraico sono formati da tre radici - che sono tre consonanti - da cui derivano i sostantivi e i verbi, variando le vocali. Le tre consonanti che formano la parola “shechem “sono le stesse del verbo che ha il significato di ‘alzarsi presto al mattino’. Perché ci sia questa corrispondenza è veramente misterioso! Ma chi è che si alza presto al mattino? L’esempio di colui che si alza presto al mattino è Abramo : “vajjashchem Abraham babboker”. Abramo si alza presto al mattino due volte per ripetere lo stesso tipo di sacrificio che riguarda i due suoi figli (sacrificio per lui e per i suoi figli): la prima volta quando si tratta di cacciare via Agar con Ismaele e, subito dopo, al capitolo successivo, quando si tratta di andare a fare il sacrificio di Isacco. Questa “spalla” in realtà indica “alzarsi presto al mattino” per fare qualcosa di terribile. A cosa serve quella spalla? Se guardiamo al brano del sacrificio di Isacco e al brano di Agar, ce l’abbiamo la spalla perché nella coppia Agar - Ismaele che viene cacciata via, Abramo carica sulle spalle di Agar le provviste per la traversata del deserto. Così anche Isacco porta la legna per il sacrificio ed è evidente che non possa portare questo carico altro che sulla spalla. Quindi, questa spalla che viene evocata ha un riferimento molto suggestivo a questi due tipi di sacrificio. Anche voi avete un modello di sacrificio nel quale il peso viene portato sulla spalla! Ci sono analogie ma ci sono anche differenze: che significa il sacrificio di Isacco e che cosa significa il sacrificio di Gesù? Sono uno la prefigurazione dell’altro, come credono i cristiani, oppure sono uno l’opposizione dell’altro, come credono gli ebrei? C’è una radicalità di differenza che non possiamo ignorare. Il problema della nostra seduta è proprio che cosa fare di questa unica spalla quando c’è questa radicalità di differenza?

C’è un’altra strada interpretativa che riguarda questa spalla, e la troviamo nella benedizione che Giacobbe dà al figlio Josèph (Giuseppe) in Genesi 48,22. Alla fine della benedizione usa l’espressione “shechem echad” : “ecco io ti ho dato “uno shechem” in più rispetto ai tuoi fratelli”. Che cosa significa? Che rapporto c’è tra la benedizione di Giacobbe e l’espressione di Tsefaniah? Su quello che dice Giacobbe atteniamoci al contesto: la parola shechèm può indicare il nome di una persona, nel caso particolare il figlio del re Amòr (che significa “asino”) della città di Shechem (Sichem). Il figlio del re si chiama Shechem e violenta la figlia di Giacobbe. A seguito di questa violenza c’è l’episodio terribile della distruzione della città da parte di due figli di Giacobbe. Atto di violenza terribile che viene condannato dal patriarca, il quale però a questo punto dice: “Ecco io ti do questa “shechem echad che io ho preso dall’Amorreo con la mia spada e il mio arco”. Allora Giacobbe era complice dei figli? Su questo la tradizione si è divisa e ha suggerito due interpretazioni, una di tipo pratico e una di tipo spirituale. La spiegazione pratica è che effettivamente Giacobbe dà a Giuseppe la città di Shechem (Sichem) e Giuseppe sarà sepolto a Shechem (Sichem). L’episodio potrebbe riferirsi alla conquista successiva oppure al fatto che effettivamente di quel pezzo di terra dove Giuseppe è stato sepolto, la Bibbia documenta che Giacobbe ne aveva preso possesso materialmente.

L’altra possibilità che la tradizione sottolinea è che questa spada e questo arco sono le forze spirituali di Giacobbe e sono la sua preghiera: la preghiera di Giacobbe con la quale conquista una parte spirituale in più, la primogenitura spirituale conquistata con la preghiera e sottratta a Esaù.

Allora questo “shechem” di Tsefaniah evoca un passaggio di spiritualità, di primogenitura e anche, forse, di possesso materiale che unisce tutti quanti.

Vediamo come sia ricca questa visione e come apra tutta una serie di prospettive. Cercando di riassumere quello che l’esegesi rabbinica ha tirato fuori: cosa significa questo verso? Che tutti gli uomini della terra lo serviranno oppure che saranno uniti in un unico fascio?

Ma quando tutti i popoli serviranno Dio? Una soluzione possibile è che adesso tutti i popoli dissentono da Dio, ma nel mondo futuro - che non è questa realtà - saranno tutti uguali a servirlo. Qualcuno invece dice: non sono tutti i popoli, ma è una cosa che si riferisce alla frase in cui le persone giuste e corrette dei popoli del mondo dicono al popolo di Israele: “Procediamo insieme a voi”. E ancora qualcuno dice: “Nel mondo futuro non ci sarà più distinzione nei precetti, nell’osservanza, tra noi e gli altri. Secondo Maimonide sarà il Messia che, dopo essersi imposto al popolo ebraico e aver realizzato tutte le promesse, “ittanchèn”, correggerà tutti i popoli della terra in modo che tutti quanti si possa servire Dio insieme. (Mondo futuro? Il Messia? Tutti i popoli? Non tutti i popoli? I precetti...?).

Secondo lo Zohar - la tradizione mistica - si parla di altre cose, cioè che i morti saranno insieme ai vivi, risorgeranno e serviranno Dio.

C’è un altro imput dello Zohar notevole, che la parola “lingua” (safah) di cui si parla ha lo stesso valore numerico di “Shechinah”, “Immanenza divina”, per cui questa lingua è il contatto con la presenza divina e tutti quanti arriveranno al contatto con la presenza divina.

Queste sono le prospettive di lettura.

Spostandoci sul senso del nostro incontro, dobbiamo chiederci: il verso di Tzefaniah si è realizzato? È in corso? Si deve realizzare? Se ammettiamo che il verso di Tzefaniah si sia realizzato, una cosa del genere la possono sostenere non gli ebrei, forse alcuni cristiani, dicendo che l’umanità si trova nelle sue centinaia di milioni, unita intorno al messaggio cristiano. Questa è una soluzione che possono prospettare alcuni cristiani, ma non è una soluzione che possono prospettare gli ebrei. Questa profezia è in corso e, magari, è proprio il dialogo che la sta realizzando? Sarebbe forse un po’ presuntuoso pensare una cosa del genere. Se si realizza in questo senso è soltanto una cosa che riguarda pochi. Si deve realizzare? Ma in che modo? C’è uno spazio in questa profezia per il pluralismo? Oppure non è semplicemente altro che una profezia che dice: tutti quanti arriveranno ad un unico modo di servire Dio, tutti quanti insieme?

Che cosa significa “unica spalla”? Ciascuno con le sue differenze così radicali, oppure qualcuno dovrà rinunciare a queste differenze radicali e diventeranno tutti quanti la stessa cosa? Non possiamo nasconderci che sia la teologia ebraica sia la teologia cristiana ammettono soltanto il modello di “tutti quanti”. Paolo, nella lettera ai Romani, dice che capisce il fatto che in qualche modo gli ebrei rimangano lontani dal messaggio di Gesù, ma alla fine tutti quanti dovranno convenire su questo. E dall’altro punto di vista, Maimonide dice la stessa cosa al contrario: il cristianesimo ha un ruolo fondamentale nella storia perché porta certe conoscenze, certe dottrine fondamentali all’umanità, ma dovrà correggersi e arrivare alla perfezione dell’idea del Dio unico, nel futuro. Abbiamo un’idea che per ciascuno dei mondi religiosi è un’idea che considera positivamente lo sforzo dell’altro, ma - se lo mette nella prospettiva escatologica - alla fine dei tempi, dovremo essere o tutti da una parte o tutti dall’altra. Allora, il tema fondamentale, la provocazione che abbiamo in questo momento è che dobbiamo cercare di capire a che cosa serva e in che modo possa essere fatto il dialogo. Perché fino a poco tempo fa, malgrado le enormi difficoltà che esistevano, il dialogo ebraico - cristiano era semplicissimo: gli ebrei chiedevano rispetto, chiedevano di farla finita con l’insegnamento del disprezzo, ecc… Questi obiettivi non sono stati ancora realizzati, ma sono stati fatti enormi progressi; siamo entrati in una nuova fase nella quale il punto interrogativo, il tema fondamentale, è quello di capire a che cosa possa servire il dialogo. Certamente il dialogo deve servire per evitare di mostrare al mondo il pessimo spettacolo rappresentato fino a qualche decennio fa, dove coloro che ritenevano di essere rappresentanti dello spirito della crescita dell’uomo facevano il possibile per disprezzare l’altro. Non possiamo più permetterci di mostrare al mondo questo spettacolo terribile, dobbiamo essere, insieme, uno spettacolo edificante. Ma che cos’è che possiamo fare? Perché nel dialogo stiamo arrivando - ed è molto positivo - a forme di rispetto sostanziale dell’altro che ci fanno conoscere i mondi, ma al di là del rispetto esiste la teologia e la teologia può essere cambiata? Abbiamo notato che ci sono stati progressi teologici significativi nella visione dell’ebraismo da parte della teologia cristiana. Il documento sulle Scritture ebraiche dà importanza all’esegesi rabbinica, cosa che non era mai stata fatta in precedenza, quasi a dire che l’esegesi rabbinica della Bibbia ha acquistato un valore teologico, entro certi limiti. Ci si può aspettare una reciprocità sul piano teologico? Come a dire: noi abbiamo concesso questo, voi adesso concedete qualcos’altro? Questo è uno dei nodi più terribili e probabilmente la reciprocità sul piano teologico non esiste perché ciascuna teologia procede con il suo modo di ragionare e la discussione teologica non è quella dei politici che stanno intorno a un tavolo e dicono: “ io ti do dieci Km di terra” o “metto la mia ambasciata qua piuttosto che là”. Tra politici si può discutere e si deve arrivare ad una soluzione, tra teologi è già qualche cosa se non ci si ammazza! Ma le concessioni sono cose molto difficili e questa reciprocità mancata è in qualche modo il prodotto del fatto che il legame che unisce ebraismo e cristianesimo, un legame esclusivo che non esiste tra altre fedi, è un legame assolutamente asimmetrico, dovuto proprio dal tipo di evoluzione storica - il cristianesimo nasce dall’ebraismo e non viceversa - il cristianesimo con notevoli sforzi può introiettare dentro di sé e considerare parte della sua spiritualità la concezione del mondo ebraico, ma non è altrettanto così per l’ebraismo. Quindi il nostro rapporto è differente. Oggi le domande che sto facendo sono in realtà più verso l’ebraismo che verso il cristianesimo, ma il tema di questa ‘spalla a spalla’, di questa ‘unica spalla’, è veramente un enorme punto interrogativo, per il quale trovare una risposta è estremamente difficile e nel quale bisogna sforzarsi con molta determinazione a capire qual è il limite da porre a questo ideale e in che modo questo ideale possa essere veramente interpretato oggi”.

S. E. Mons. Rino Fisichella:       torna su

“Ringrazio il Rav Di Segni per questa non soltanto profonda esegesi del testo di Sofonia, ma anche per le suggestive provocazioni che nascono dalle domande poste alla fine. Domande poste a tutti. Una domanda la si pone perché si vuole un’intelligenza ulteriore. È anche vero che le domande richiedono delle risposte, quelle che insieme permettono di poter tendere verso un’unità o verso una verità ancora più profonda che sarà sempre, nella storia di tutti, una tappa per poter andare oltre. In questo clima di domanda, di tentativo di andare sempre più in profondità nella Parola di Dio, do la parola al Prof. Odasso perché c’è anche una lettura diversa. Giustamente il Rav Di Segni diceva che quando si fa l’esegesi ci sono punti di partenza che sono differenti e l’esegeta cattolico legge la Scrittura con le pre-comprensioni della fede che lo fanno riportare tutto a Gesù di Nazareth. Quindi in ogni caso c’è un punto di partenza che può essere complementare per noi, per andare ancora più in profondità al testo di Sofonia”.

Prof. Giovanni Odasso:       torna su

“Ringrazio di cuore S. E. Mons. Rino Fisichella per l’invito rivoltomi, che mi concede di riflettere insieme con voi, in questa XV Giornata di Amicizia e di Dialogo fra Ebrei e Cristiani. L’intervento del Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma ha permesso a noi tutti di avvicinarci alla ricchezza della tradizione ebraica e, in particolare, alla suggestiva profondità dell’esegesi rabbinica. Insieme alle domande finali, che costituiscono un motivo di comune riflessione, le parole di Rav Di Segni mostrano che i testi della Scrittura, lungi dall’essere aridi documenti di un museo inaccessibile, possono essere parola viva che irrompe, con la sua energia vitale, nell’attualità della nostra fede e illumina il cammino della nostra speranza.

Il mio intervento si svolge in tre momenti. Nel primo si richiama l’indole dei detti profetici contenuti nel libro di Sofonia, come premessa necessaria per comprendere il versetto che costituisce il tema di questa Giornata. Successivamente si analizza il versetto di Sof 3,9. Infine si delineano alcune possibili conseguenze. La riflessione, qui sviluppata, intende muoversi nell’orizzonte di una comprensione esegetico-scientifica del testo biblico, pur essendo evidente che, nella luce del NT, il cristiano può cogliere delle correlazioni cristologiche che, come già rilevava Rav di Segni, non possono essere condivise da chi ha la fede ebraica.

Il libro di Sofonia è costituito solo da 53 versetti, distribuiti in tre capitoli. Tuttavia, questo “microcosmo profetico” (W. Dietrich) contiene gli elementi fondamentali sviluppati nella profezia biblica. In concreto vi si incontrano detti di sventura contro il popolo del Signore, detti di sventura contro gli altri popoli, infine detti di salvezza per Israele.

Già nel primo capitolo risuona un detto di sventura che annuncia il giudizio del Signore contro il suo popolo:

“Stenderò la mano su Giuda, su tutti gli abitanti di Gerusalemme,
sterminerò da questo luogo gli avanzi di Baal
e il nome stesso dei suoi falsi sacerdoti […]
quelli che si allontanano dal seguire il Signore,
che non cercano né si curano di lui” (cf. 1,4-6).

Segue, poco dopo, la celebre descrizione del giorno del Signore che delinea l’intervento escatologico di Dio contro tutte le genti:

«Giorno d’ira quel giorno
Giorno di angoscia e di afflizione,
giorno di rovina e di sterminio,
giorno di tenebre e di caligine
giorno di nubi e di oscurità» (1,15)

La descrizione, alla quale si ispirò l’autore della sequenza “Dies irae dies illa”, si conclude prospettando una catastrofe dalle dimensioni universali e cosmiche:

«Nel giorno dell’ira del Signore,
e al fuoco della sua gelosia,
tutta la terra sarà consumata,
poiché farà improvvisa distruzione
di tutti gli abitanti della terra (1,18).

Quest’ultima descrizione si connette a quella iniziale dei vv. 2-3 e forma con essa una cornice letteraria all’intero capitolo. Il giudizio di Israele si trova al centro dell’intervento divino e si comprende nell’orizzonte cosmico del giudizio escatologico.

Ai detti di giudizio, contro il popolo del Signore e contro le genti, si contrappone la raccolta dei detti di salvezza. Tra questi spicca la promessa che si incontra nel capitolo 3:

«Farò restare in mezzo a te
un popolo umile e povero;
si rifugerà nel Nome di JHWH
il resto di Israele» (vv. 12-13a).

È noto che questa promessa, attraverso la versione della LXX (“popolo mite e umile”), è richiamata nel Vangelo di Matteo per presentare Gesù che, realizza la spiritualità degli “anawim” in modo esemplare per i suoi discepoli: “imparate da me che sono mite e umile di cuore” (cf. Mt 11,29). La portata salvifica del detto appare nell’invito alla gioia escatologica che caratterizzerà l’esistenza del popolo rinnovato dall’amore di JHWH che, con la sua presenza vittoriosa, si manifesta Re e Salvatore:

«Rallegrati, figlia di Sion, esulta Israele,
gioisci con tutto il cuore figlia di Gerusalemme!
ha revocato la tua condanna,
ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è in mezzo a te,
tu non vedrai più la sventura» (vv. 14-15).

I tre tipi di detti (annuncio della sventura per Israele, per le genti; annuncio della salvezza per il popolo del Signore) svolgono un ruolo importante anche nella struttura redazionale del libro di Isaia, di Geremia (secondo il testo greco) e di Ezechiele. In questi libri profetici i detti di giudizio contro Israele sono posti all’inizio dell’opera; seguono i detti contro le genti e, infine, i detti di salvezza del popolo del Signore. Gli studiosi hanno visto in una simile struttura l’espressione di una concezione escatologica che si andò sviluppando dopo l’esilio, in particolare sotto l’impulso della teologia deuteronomistica. Le sventure, che la Parola divina minacciava a Israele per la sua infedeltà all’alleanza, si sono realizzate con l’esilio. Esse ora riguardano soltanto le potenze che hanno oppresso o opprimeranno il popolo di JHWH. Il futuro, che il Signore dischiude al suo popolo, è ormai quello della benedizione nell’alleanza rinnovata (cf. Dt 30,1-14).

Questi rilievi preliminari, necessari per comprendere il contesto generale nel quale si situa il versetto di Sofonia, offrono una testimonianza preziosa della profondità raggiunta dalla fede di Israele. Una domanda, però, si impone: l’annuncio della sventura che incombe sulle genti è forse l’unica prospettiva presente nella tradizione biblica? Non è possibile un futuro di salvezza anche per le genti? Il testo sul quale riflettiamo offre una risposta positiva a questo interrogativo.

È utile anzitutto presentare il testo di Sof 3,9 con una traduzione che si richiama direttamente al testo originale:

«Allora io trasformerò i popoli con un labbro puro (1)
perché tutti proclamino il nome di JHWH
e lo servano con un’unica spalla».

L’indicazione temporale (“allora”) connette questo detto di salvezza delle genti al versetto che precede, nel quale si annuncia il giudizio di Dio che riversa la sua ira non solo su Gerusalemme, ma su tutte le genti e su tutti i regni, come risulta dall’espressione “dal fuoco della gelosia del Signore sarà consumata tutta la terra” (cf.1,18). Mediante il giudizio delle genti, il testo lo insinua chiaramente, JHWH persegue un solo obiettivo: che Israele tema il suo Dio. Il giudizio delle genti appare, dunque, come una tappa orientata all’irruzione della salvezza escatologica, quando il popolo di JHWH non dovrà più arrossire per le sue precedenti infedeltà e vivrà nella gioia della presenza salvifica del suo Dio (cf. Sof 3,11).

Il fatto che, mediante l’avverbio “allora” del v. 9, la promessa della salvezza delle genti sia connessa esplicitamente all’annuncio del loro giudizio ha un’importanza decisiva. In questo modo, infatti, si afferma che il giudizio delle genti è orientato alla salvezza escatologica non solo del popolo del Signore, ma di tutti i popoli.

La condizione salvifica futura è indicata con un’espressione che è difficile tradurre proprio per la densità della sua formulazione. Solitamente il testo è reso in questo modo: “allora io darò ai popoli un labbro puro”. Il verbo ebraico, però, non è natan, dare, ma haphak. Si tratta di un verbo che significa voltare, rovesciare, trasformare. Esso ricorre, p. es., per descrivere plasticamente la distruzione di Sodoma e Gomorra, indicandone la loro completa rovina. In altri casi il verbo connota la trasformazione totale che segna la fine di una situazione presente e l’ingresso in una futura, radicalmente nuova. Con questo significato il verbo può presentarsi con un valore salvifico, come avviene nella promessa di Ger 31,13:

«Allora si allieterà la vergine danzando,
i giovani e gli anziani gioiranno.
Io trasformerò il loro lutto in gioia,
li consolerò e li renderò felici senza afflizioni».

In questa linea occorre comprendere il verbo haphak nel testo di Sofonia. JHWH stesso compie la totale trasformazione dei popoli. L’orizzonte della salvezza escatologica, che qui si intravede, è luminoso e ricco. In anni passati una simile concezione appariva così diversa dall’idea dell’AT, quale si era sviluppata nella cristianità occidentale, da indurre alcuni critici a ritenere il testo corrotto e a suggerire di leggere, invece del plurale “ammim” (popoli), la forma singolare “ammi” (mio popolo). Ne risultava il seguente testo: «io darò al mio popolo (non: ai popoli!) un labbro puro». Si tratta ovviamente di un’ipotesi destituita di qualsiasi fondamento scientifico. In questa sede meritava di essere richiamata unicamente perché il suo ricordo è una prova di quanto gli orizzonti culturali e teologici possano condizionare l’uomo e impedirgli di cogliere, in tutta la sua energia profetica, il messaggio della Parola di Dio.

La trasformazione salvifica, operata da Dio per tutti i popoli, è qui indicata con il dono di un labbro “puro” (o “chiaro”). Il termine ebraico, tradotto con “puro”, è “berurah”. Si tratta di un vocabolo che appartiene allo stesso campo semantico di “tahar”, vocabolo che, nella sua accezione letterale, denota la purità rituale. “Puro”, secondo il significato letterale, rituale, del termine, è il fedele che può legittimamente partecipare alle azioni cultuali e quindi esprimere, mediante l’offerta del sacrificio, la certezza di essere innalzato alla comunione con JHWH. In senso traslato il vocabolo tahar, puro, indica la condizione del singolo e di tutto il popolo che, essendo fedele all’alleanza, vive nella comunione con il suo Dio, comunione che è simbolicamente significata nel culto. Proprio questo significato salvifico risuona nella nota pagina di Ez 36,16-28, dove JHWH annuncia di radunare il suo popolo, di purificarlo, donandogli un cuore nuovo e uno spirito nuovo, ponendo in lui il suo stesso Spirito. Questo senso teologico illumina il libro del Levitico che mira a portare il popolo ad essere purificato e quindi nella condizione di diventare ciò che il Signore stesso richiede: «Siate santi, perché io JHWH, vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2).

Il testo di Sofonia, l’abbiamo detto, non usa il termine che contiene la radice tahar, ma un sinonimo, formato con la radice barar. Il significato specifico di questo termine è di indicare la condizione di chi è “puro” non tanto secondo la denotazione rituale, ma più specificamente secondo la connotazione esistenziale, teologica. Così il Salmo 24, alla domanda di chi salirà il monte del Signore risponde con la seguente indicazione:

Chi ha mani innocenti e il cuore puro,
chi non pronunzia menzogna,
chi non giura a danno del suo popolo”.

Una conseguenza si va delineando chiaramente: Dio trasformerà i popoli donando loro un labbro “puro”. L’affermazione di Sof 3,9 è simile, nel suo significato, a quella di 3,13, dove si descrive il popolo escatologico di Sion, che si rifugerà nel Nome del Signore, affermando: “Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna, non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta”. La trasformazione, prospettata dal testo che esaminiamo, orienta quindi a un futuro nel quale non solo Israele, ma anche i popoli saranno liberati dall’iniquità e dalla menzogna, dalla violenza e dall’inganno.

La seconda parte del versetto 9 conferma questa interpretazione. Trasformati dall’intervento salvifico divino, i popoli proclameranno il Nome di e lo serviranno “con una sola spalla”. Il sintagma “proclamare il Nome di” traduce l’espressione ebraica qara’ beshem. L’espressione ricorre talvolta in un contesto di supplica e questo fatto ha favorito la traduzione “invocare il Nome del Signore”, che risulta appropriata solo in un contesto specifico di supplica. Il più delle volte, infatti, il sintagma significa proclamare il nome del Signore, riconoscerlo, come Dio e salvatore, nella lode e nel ringraziamento.

A questo riguardo sono illuminanti i testi della Genesi. In Gn 4,26 si afferma che a Set nacque un figlio che egli chiamò Enos. Allora si cominciò a proclamare il Nome di JHWH. L’espressione qui denota la fede che porta l’uomo a vivere in relazione con JHWH mediante la confessione, la lode il ringraziamento e la proclamazione del suo Nome.

In Gn 12,8 si incontra Abramo. Dopo la vocazione, che lo rende strumento della benedizione divina a tutte le famiglie della terra, il patriarca costruisce un altare e proclama il Nome di JHWH. Come risulta da Gn 13,8 non si tratta di un’azione passeggera, ma di una realtà permanente: la fondazione del culto a JHWH in quel luogo.

Lo stesso evento si verifica a Bersabea come risulta da Gn 21,33, il versetto che precede immediatamente il racconto dell’Aqedah di Isacco. La confessione del Nome di JHWH, che ha la sua espressione visibile nel culto, guida il credente ad ascoltare la voce del Signore in tutte le dimensioni dell’esistenza umana, perché questa sia “sacrificio” gradito a Dio e quindi sia innalzata alla comunione con il Signore.

La ricchezza semantica di questa espressione appare, in modo speciale, in Gn 26. A Bersabea Isacco costruisce l’altare e proclama il Nome di JHWH, dopo che questi gli si è manifestato assicurandogli la sua presenza salvifica e l’adempimento della promessa della benedizione e della discendenza:

Io sono il Dio di Abramo tuo padre
Non temere perché io sono con te
Ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza

Dall’insieme dei testi risulta che l’espressione è connessa con la confessione del Signore in quanto è il Dio che si manifesta con la potenza della sua promessa (discendenza, vita, benedizione) e con la sicurezza della sua fedeltà. In definitiva, la proclamazione del Nome del Signore si fonda sulla manifestazione del Signore che dischiude un futuro di vita per il suo popolo e per l’intera umanità.

Questa prospettiva è confermata e approfondita dai testi di Es 33,19 e 34,5. Il popolo liberato dall’Egitto si è prostrato davanti al vitello d’oro, ponendosi in questo modo nell’ambito della non salvezza: “Lascia che distrugga questo popolo di te farò una grande nazione” (Es 32,10). L’intercessione di Mosè, narrata con un profondo intento teologico ottiene dal Signore il perdono e con esso il dono della vita per il popolo, che sarà nuovamente guidato dal suo Dio verso il futuro della libertà promessa. In questo contesto, la pagina di Es 34, che narra il rinnovamento dell’alleanza, pone la proclamazione del Nome del Signore in bocca al Signore stesso:

«,
Dio pieno di tenerezza e propizio
Lento all’ira
E immenso nell’amore e nella fedeltà» (Es 34,6)

Questo testo, fondamentale all’interno del libro dell’Esodo e di tutta la Torah, mostra che il popolo, proclamando il Nome di JHWH, si pone in profonda sintonia con la stessa automanifestazione del Signore, con la sua Parola, con la sua salvezza. La proclamazione del Nome del Signore, che avviene nell’esperienza del perdono, implica la liberazione dalla maledizione e dalla morte e confessa il dono della benedizione e della vita.

Nell’orizzonte teologico appena delineato si comprende che la proclamazione del Nome di JHWH costituisce la caratteristica propria del sacrificio della “todah”, nel quale il fedele, liberato da un grave pericolo di morte, ringrazia JHWH che ha esaudito la sua preghiera e gli concede nuovamente di camminare “nella terra dei viventi”. L’orante, liberato dalla morte, alla domanda «Che cosa renderò al Signore per tutto quello che mi ha dato?» risponde: «Alzerò il calice della salvezza e proclamerò il Nome del Signore». (Sal 117,13). Nel sacrificio todah proclamare il Nome di JHWH significa confessare che egli è il Dio che libera dalla morte. Quando, nella tradizione di Israele, si sviluppò la fede nella risurrezione, si comprese che la vera todah non è quella celebrata in questo mondo, ma quella che si celebrerà nel mondo che deve venire, quando Dio, con la risurrezione di “coloro che scendono nella polvere”, avrà realizzato la definitiva liberazione dalla morte. Questa prospettiva si trova affermata esplicitamente nella tradizione rabbinica: «Nell’età ventura cesseranno tutti i sacrifici, ma il sacrificio todah non cesserà in eterno; anche tutti i canti cesseranno, ma i canti todah non cesseranno in eterno» (Pesiqta 79a)

La conoscenza del ricco significato dell’espressione “qara’ beshem JHWH” è indispensabile alla comprensione di Sof 3,9. Dio trasforma i popoli così che essi possano proclamare il suo Nome. Nel futuro, delineato dall’orizzonte escatologico di questo testo, tutti i popoli confesseranno, insieme a Israele, JHWH, il Dio fedele, che libera dalla morte e dischiude il sentiero della vita. Questa interpretazione è confermata dal fatto che il sintagma «perché proclamino il Nome di JHWH» è parallela all’espressione «e lo servano “con una sola spalla”».

La locuzione “servire il Signore” è una formulazione del comandamento fondamentale. Il significato esistenziale di questa espressione appare nella pagina teologica di Gs 24, dove Israele rinuncia a servire gli dei per vivere perennemente nell’alleanza con JHWH. In particolare, il verbo “servire” sottolinea che l’orientamento totale, esclusivo e permanente al Signore pone il popolo nella condizione di realizzare il disegno salvifico del suo Dio e di testimoniare questo disegno in mezzo alle genti. E’ noto che l’espressione “i servi del Faraone” non indica i suoi schiavi, ma connota i suoi ministri, coloro che più direttamente sono coinvolti nell’attuazione del programma del suo governo. Analogamente il titolo “servo del Signore” sottolinea che Israele vive nella salvezza divina ed è testimone del disegno salvifico di JHWH in mezzo alle genti. La connessione tra “servire” e “testimoniare” appare esplicitamente in Is 43,10: «Voi siete miei testimoni - detto di JHWH - miei servi che io mi sono scelto perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate che sono proprio io». Questo testo mette in luce che l’essere servo di JHWH significa non solo conoscerlo, credere in lui comprendendo profeticamente il suo disegno e la sua Parola, ma anche essere testimoni di lui, del suo disegno, della sua salvezza.

In questo contesto la ricca portata del detto profetico di Sofonia si delinea con sempre maggiore chiarezza e al tempo stesso lascia intuire le sue inesauribili virtualità. Nel futuro, descritto dal testo profetico, Dio trasformerà i popoli in modo che proclamino il suo Nome e lo servano: lo conoscano, credano in lui e siano suoi testimoni.

In Sof 3,9 il sintagma “servire il Signore” è specificato dalla locuzione “con una sola spalla”. Si tratta di un’espressione che ricorre unicamente in questo testo (il testo di Gn 48,22 non è pertinente) e che alcuni traducono, piuttosto liberamente, “appoggiandosi spalla a spalla”. Il linguaggio simbolico richiama l’immagine dei portatori che trasportano un determinato carico sulle proprie spalle. Nella Bibbia può essere illuminante la frase di Nm 7,9 dove si presenta una famiglia di leviti, i figli di Keat, che erano incaricati del servizio degli oggetti sacri. I Keatiti non potevano trasportare questi oggetti su carri, ma dovevano portarli sulle loro spalle.

La peculiarità di Sof 3,9 è che i popoli portano concordemente, unendo insieme le loro forze, l’unico carico del servizio di JHWH. Nell’orizzonte simbolico teologico di questo versetto ciò significa che tutti i popoli, insieme a Israele, saranno nella condizione salvifica di “servire JHWH” e assumeranno questa missione in una sincera e concorde comunione di vita nella fedeltà all’alleanza con il Signore. Essi, quindi, porteranno insieme a Israele, popolo santo, il servizio di JHWH, la fede in Lui, la testimonianza del suo disegno, la proclamazione del suo Nome. Essi porteranno i doni propri della celebrazione cultuale (cf. Sof 3,10; Is 18,7; 19,21), il dono di celebrare la Todah nella proclamazione del Dio che ha fatto trionfare la potenza della vita sulla forze sterminatrice della morte, ha fatto trionfare la vita nella giustizia, nel diritto, nell’amore e nella tenerezza sulle opere dell’ingiustizia della violenza, dell’odio e dell’insensibilità.

In sintesi, Israele e le genti porteranno insieme la Parola di JHWH. Proprio questo aspetto, ci sembra, è sottolineato dalla traduzione della LXX: «e lo servano tutti sotto lo stesso giogo», espressione che, alla luce di Ger 2,20 indica l’accoglienza della Parola e, attraverso essa, la comunione con JHWH, sviluppata in un itinerario di costante ricerca nella fede.

Questo messaggio nella Scrittura non è una voce isolata. L’orizzonte di Sof 3,9 si percepisce con forza nella pericope di Is 2,2-5 che è presente con leggere varianti anche nel libro dei Dodici profeti (Mic 4,1-5): la moltitudine dei popoli sale pellegrinante al monte di JHWH perché da Sion uscirà la Torah, la Parola di JHWH. Analoga prospettiva si incontra nella pagina teologica di Is 19,16-25, dove l’Egiziano e l’Assiro sono raggiunti, insieme a Israele, dalla benedizione divina, e nel messaggio escatologico di Is 25,6-8 dove si. presenta JHWH che prepara per tutti i popoli il banchetto dell’alleanza nell’esperienza della piena liberazione. L’espressione “JHWH eliminerà la morte per sempre” ci testimonia che questa pagina è stata riletta come annuncio del banchetto nel mondo della risurrezione ed è quindi una preziosa testimonianza che gli annunci escatologici furono compresi nell’orizzonte proprio della fede nella risurrezione (cf. Sal 22,28).

La visione dischiusa da Sof 3,9, con la ricchezza del messaggio escatologico che contiene, offre dei preziosi orientamenti che interpellano anche la Chiesa.

Il testo di Sofonia, in sintonia con la tradizione biblica, orienta a vedere tutta l’umanità inclusa nel disegno salvifico di Dio. Questo orizzonte illumina, con la ricchezza delle Sante Scritture, la connessione “teologica” che unisce in modo speciale la Chiesa a Israele. Questo rapporto è chiamato ad esprimersi, a livello storico-esistenziale, in un cammino concorde nella realtà di un rispetto reciproco e nel coraggio di un dialogo autentico. La Chiesa del NT ha nutrito, mediante le Scritture, la propria fede nel Dio che ha adempiuto le sue promesse con la risurrezione del Cristo. Il cammino del dialogo autentico si percorre quando si lavora insieme nella conoscenza e nella comprensione delle Sante Scritture.

In una prospettiva cristiana i testi come quelli di Sof 3,9 richiedono che sia tenuta sempre viva la consapevolezza del rapporto dialettico tra il “già” e il “non ancora”. La concretezza del “non ancora” libera da ogni illusione trionfalistica e rende la comunità cristiana pellegrina nella storia insieme a tutta l’umanità. Senza dubbio la fede nel Cristo risorto assicura i cristiani della loro trasformazione che li abilita a proclamare il Nome del Signore e ad essere suoi servi e testimoni. Tuttavia la nostra confessione del Signore e il nostro essere suoi servi non sono ancora realizzati in quella pienezza definitiva, che è propria del Regno eterno, e non lo saranno mai all’interno della storia umana. Nel pellegrinaggio noi, come cristiani, abbiamo molto da imparare da ogni uomo, in particolare molto possiamo imparare dall’esperienza di fede dei nostri “fratelli maggiori”, dalla loro conoscenza vitale delle Sante Scritture. Sotto questo profilo le loro domande sono anche le nostre.

Una luce particolare, in questo contesto, ci è data da Is 25,9. Nel giorno in cui il Signore eliminerà la morte per sempre, si proclamerà: «Ecco il nostro Dio: in lui abbiamo sperato, perché ci salvasse; questi è JHWH, nel quale abbiamo sperato: rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza». La speranza nel Dio “pieno di tenerezza e propizio, lento all’ira e immenso nell’amore e nella fedeltà” (cf. Es 34,6) non potrebbe diventare l’energia profonda del nostro “servire il Signore con un’unica spalla”? La speranza, anzitutto, implica la consapevolezza che il “già” della salvezza non ha ancora raggiunto la sua pienezza definitiva in Dio. Nel contempo, però, essa, pur guardando al “non ancora” come al limite che è realmente presente nell’uomo, rende sempre possibile, nell’orizzonte della fede, la certezza che esso sarà definitivamente superato dalla vittoria del Dio fedele, dalla sua salvezza. In ogni itinerario di dialogo autentico si anticipa qualcosa del canto futuro, si anticipa la confessione della fede che matura profeticamente nella speranza: “Ecco il nostro Dio”.

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(1) O anche "con un labbro chiaro"

S. E. Mons. Rino Fisichella:       torna su

“Ringraziamo il prof. Odasso. Abbiamo avuto, direi, una lettura complementare con delle accentuazioni differenti. Abbiamo sempre piacere che questi momenti siano di riflessione culturale, ma anche di provocazione e di spiritualità. Quando si è davanti alla Parola di Dio, due specialisti riescono sempre ex abundantia cordis a far parlare il testo secondo le diverse tradizioni e penso che abbiamo imparato ancora tanto questa sera. Da parte mia un ringraziamento al Rav Di Segni, al Prof. Odasso e a tutti coloro che hanno partecipato a questo momento.

Gli interrogativi che ci hanno lasciato i relatori rimangono tali, ma a noi rimane l’impegno, giorno dopo giorno, di costruire sempre di più la nostra fraternità, la nostra amicizia e di guardare a quel Signore che si è rivelato e ci ha donato la sua salvezza”.

Roma, 15 gennaio 2004

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