|                         
                        
                        
                           
                         
                         
                        S.E.
                        Mons. Rino Fisichella:      
                        torna
                        su 
                        “Porgo
                        il saluto di benvenuto a nome della Diocesi di Roma. 
                        Anche
                        quest’anno abbiamo il piacere di celebrare la XV
                        Giornata di Amicizia e di Dialogo tra Ebrei e Cristiani.
                        Il mio più sincero e cordiale benvenuto a S. E. il Rav.
                        Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica
                        di Roma, che ormai è diventato ospite abituale a queste
                        nostre giornate. Il mio benvenuto anche a P. Giovanni
                        Odasso, Professore nell’Università Lateranense. 
                        Questa XV
                        Giornata è per ricordare non solo che siamo amici e
                        fratelli, perché questa è una realtà che è
                        permanente. Gli amici non sono tali solo per un giorno:
                        quando l’amicizia è vera, sincera e profonda, quando
                        è radicata su una fede comune, perdura nei secoli e va
                        oltre lo spazio ed il tempo. 
                        Ma ci
                        sono alcuni momenti in cui è importante e anche
                        necessario che questo rapporto di amicizia venga
                        esplicitato e sia reso visibile. Lo abbiamo fatto anche
                        in diversi momenti, lo scorso anno, come Diocesi abbiamo
                        partecipato all’invito ad essere presenti in Sinagoga
                        per dare la nostra solidarietà, in un momento
                        particolare in cui la Comunità Ebraica nel mondo era
                        colpita dalla violenza e ribadiamo oggi, qui alla
                        presenza del Rabbino Capo, il nostro desiderio e la
                        nostra volontà di approfondire sempre di più il nostro
                        rapporto di amicizia. 
                        Quest’anno
                        la Conferenza episcopale ci ha indicato un versetto,
                        citato tra virgolette, e sono sicuro che ci sarà una
                        presentazione critica di questa espressione: “Serviranno
                        il Signore appoggiandosi spalla a spalla”, ispirato al
                        testo di Sofonia 3, 9. 
                        Memore di
                        quello che era stata la lezione del Rav Di Segni l’anno
                        scorso quando aveva dichiarato di non aver trovato nella
                        Bibbia il testo proposto per la XIV Giornata, sono
                        andato ad aprire la Bibbia e anch’io non ho trovato
                        quello indicato per quest’anno! Ascolteremo, pertanto,
                        in particolar modo dal Rav Di Segni, il significato più
                        preciso del versetto. 
                        Quello
                        che a me preme è esprimere il richiamo del profeta
                        Sofonia, cioè “il Signore protegge”. 
                        Questo
                        testo è nato in un momento molto difficile della vita e
                        della storia di Israele, momento che ha delle affinità
                        con quello che noi stiamo vivendo: quanto più si
                        accresce il benessere, quanto più si ha tutto nella
                        vita, tanto più sembra venire meno il senso del
                        rapporto con Dio. Questo mi sembra il richiamo più
                        forte che emerge dal profeta Sofonia, un richiamo
                        critico al momento storico che viene vissuto, ma alla
                        luce di una profonda libertà: il profeta è sempre un
                        uomo profondamente libero davanti al potere civile, al
                        potere regale, al potere economico, davanti ad ogni
                        potere. Questa sua libertà proviene da una certezza:
                        Dio si fa conoscere, il Signore si manifesta, si rivela.
                        Questa è la bellezza della nostra fede: Dio rivelandosi
                        ci consente di raggiungere una novità talmente radicale
                        che la sola nostra riflessione umana non consentirebbe
                        mai di raggiungere. E’ necessario che sia Lui a farsi
                        conoscere e a rivelarsi. Vogliamo accogliere l’invito
                        del profeta Sofonia: la certezza del Giorno del Signore,
                        di questa presenza di Dio nella nostra vita che al di
                        là, o attraverso quello che gli uomini costruiscono,
                        porta a relativizzare ogni assoluto che noi facciamo,
                        costruiamo, per mettere davanti ai nostri occhi sempre e
                        soltanto la sua presenza salvifica. Con questa
                        brevissima introduzione, con la quale rinnovo il mio
                        ringraziamento ai due relatori per essere qui con noi e
                        per aiutarci a riflettere, do subito la parola al Rav
                        Riccardo Di Segni”. 
                          
                         
                        Rav
                        Riccardo Di Segni:        torna
                        su 
                        “Sento
                        non solo il dovere ma anche il piacere di ringraziare
                        Mons. Fisichella per l’invito che ha voluto ripetermi
                        quest’anno a essere qui con voi questa sera. Da parte
                        di Mons. Fisichella è un ennesimo gesto di amicizia.
                        Lui stesso lo ha ricordato e ci ha fatto particolarmente
                        piacere la sua presenza in Sinagoga nelle scorse
                        settimane quando c’era stato un allarme terroristico
                        di un attentato in una Sinagoga europea. La sua presenza
                        mi ha particolarmente confortato. 
                        Vorrei
                        affrontare il tema in due modi. In un primo momento, per
                        un chiarimento scritturale, leggere il brano di cui
                        stiamo parlando con una breve analisi di tipo rabbinico
                        e, in un secondo momento, cercare di vedere alla luce di
                        ciò che emerge da questo brano, quale possa essere il
                        senso, ma soprattutto la difficoltà attuale di
                        comprensione, di misurarsi con questo messaggio che
                        viene da un profeta chiamato Sofonia, terribile
                        trascrizione greca e poi latina del nome Tsefaniah
                        che può significare “Dio protegge” ma indica anche
                        “tsafùn” (nascosto), l’aspetto nascosto di
                        Dio. Pensate che nell’ebraico moderno “matspùn”
                        diventa “coscienza”, quindi in qualche modo la
                        coscienza di Dio che si rivela. Questo profeta parla
                        molto brevemente, abbiamo solo tre capitoli, in cui dice
                        delle cose molto dure, e anche il brano che stiamo
                        considerando è un momento di respiro in una profezia
                        estremamente dura perché al verso precedente ( Sof 3,8)
                        il Signore si rivela con l’ira, con il fuoco della sua
                        gelosia che divora l’intera terra e mette alla prova i
                        popoli. Solo a questo punto compare il verso 9 che
                        traduco letteralmente perché è importante l’analisi
                        letterale per comprendere la sfumatura che il testo ci
                        dà e tutto ciò che nasconde. “Perché allora
                        - dice il profeta - riverserò sui popoli una lingua
                        chiara (safah berurah), in modo che tutti chiamino o
                        invochino il Nome del Signore per servirlo appoggiandosi
                        spalla a spalla”. Letteralmente significa “una
                        spalla”. In realtà, la parola “shechem”
                        non significa la spalla anatomicamente, ma qualcosa che
                        sta dietro la spalla, molto più precisamente, il dorso.
                        Quindi letteralmente: servilo come se fosse un’unica
                        spalla. Questa spalla è la parte anatomica del corpo
                        che sostiene i pesi. Il giogo di cui si parla in questo
                        caso è la cosa che carica la persona, quindi, servire
                        Dio nel senso positivo di sopportare il peso di questo
                        servizio tutti quanti insieme. Perché è così
                        importante questo verso? Esso ha avuto un importante
                        riscontro nell’esegesi ebraica, prova ne sia il fatto
                        che il più grande commentatore della storia ebraica,
                        Rashì, quando parla del verso “Ascolta Israele, il
                        Signore è il nostro Dio, il Signore è Unico” (Dt
                        6), che è il testo che anche Gesù citava come testo
                        fondamentale e che per noi è la preghiera che recitiamo
                        due volte al giorno, al mattino e alla sera, prima di
                        coricarci. Questa frase fondamentale che esprime l’identità
                        della fede ebraica viene spiegata da Rashì nel senso
                        che il Signore è il nostro Dio, oggi è il Dio del
                        nostro popolo, ma il Signore sarà in futuro uno per
                        tutti quanti i popoli della terra, come dice appunto il
                        verso di Tzefaniah: “riverserò su tutti i
                        popoli un’unica lingua…”. Quindi la
                        centralità di quest’immagine è nel senso che essa
                        viene presa come il simbolo di tutti i popoli che
                        confluiranno nella fede del Dio unico che, al momento,
                        è la fede di Israele. 
                        Questo
                        verso, per poter essere compreso nella sua dinamica,
                        richiede approfondimenti. L’immagine che credo sia
                        dietro a questa profezia è quella della torre di
                        Babele. Nella torre di Babele abbiamo una storia di
                        popoli tutti quanti uniti che pretendono di costruire
                        una città con una torre la cui cima arrivi al cielo, di
                        farsi un nome “venaaseh-llanu shèm”, una
                        fama perenne, per non disperdersi sulla faccia della
                        terra. Il Signore viene e confonde le lingue della terra
                        e disperde l’umanità che si raccoglie intorno a
                        questo progetto. Secondo il racconto della Genesi
                        evidentemente esiste un progetto iniquo da parte dell’umanità,
                        un progetto di falsa unione. L’unità di per sé non
                        è un valore positivo, bisogna vedere intorno a quale
                        tema ci si unisce. L’unità degli uomini della torre
                        di Babele era una unità di sfida nella quale ci si
                        vuole fare un nome che è mondano, non è un nome
                        spirituale, e contro questa unità che sfida il cielo si
                        scatena la punizione della confusione della lingua.
                        Contro questa unità di sfida esiste invece il progetto
                        dell’unità desiderata che ha valore intellettuale e
                        spirituale. Allora noi abbiamo due profezie che
                        insistono su questo tema, una è quella di Isaia cap. 2
                        che prefigura l’immagine dell’umanità che
                        confluisce tutta quanta su un’altura che è la casa di
                        Dio, Gerusalemme, e tutti quanti confluiscono verso
                        Adonaj. L’altro corrispettivo di questo racconto è l’idea
                        che prima gli uomini volevano farsi un nome, e adesso è
                        il Nome in cui l’umanità si deve riunire, è il Nome
                        di Dio, come dice Tsefaniah e tutti quanti
                        avranno una “safah berurah”. Ed ecco che la
                        lingua che prima era confusa, adesso diventa “lingua
                        chiara”. C’è anche un gioco di parole perché
                        confondere (bilbel) levalbel, da cui Babele -
                        secondo un’interpretazione mitica del racconto della
                        Genesi - invece qui “balal” diventa “barar”,
                        “confondere” diventa “chiarire”. Abbiamo così
                        una corrispondenza chiara del passaggio delle profezie.
                        Il modello di Tsefaniah è quello di ricomporre
                        la crisi della torre di Babele, ricreare l’unità dei
                        popoli intorno a un valore spirituale superiore. 
                        Soffermiamoci
                        sul valore simbolico di questa misteriosa “spalla” o
                        “dorso” o “schiena”: l’idea è quella delle
                        forze unite, infatti nelle concordanze di Mandelchern
                        la traduzione dell’espressione “shechem echad”
                        è appunto “viribus unitis”, “le forze unite”.
                        Una riflessione rabbinica non può fare a meno del
                        significato di questa parola: ci sono dei riferimenti
                        simbolici estremamente forti. I sostantivi in ebraico
                        sono formati da tre radici - che sono tre consonanti -
                        da cui derivano i sostantivi e i verbi, variando le
                        vocali. Le tre consonanti che formano la parola “shechem
                        “sono le stesse del verbo che ha il significato di ‘alzarsi
                        presto al mattino’. Perché ci sia questa
                        corrispondenza è veramente misterioso! Ma chi è che si
                        alza presto al mattino? L’esempio di colui che si alza
                        presto al mattino è Abramo : “vajjashchem Abraham
                        babboker”. Abramo si alza presto al mattino due
                        volte per ripetere lo stesso tipo di sacrificio che
                        riguarda i due suoi figli (sacrificio per lui e per i
                        suoi figli): la prima volta quando si tratta di cacciare
                        via Agar con Ismaele e, subito dopo, al capitolo
                        successivo, quando si tratta di andare a fare il
                        sacrificio di Isacco. Questa “spalla” in realtà
                        indica “alzarsi presto al mattino” per fare qualcosa
                        di terribile. A cosa serve quella spalla? Se guardiamo
                        al brano del sacrificio di Isacco e al brano di Agar, ce
                        l’abbiamo la spalla perché nella coppia Agar -
                        Ismaele che viene cacciata via, Abramo carica sulle
                        spalle di Agar le provviste per la traversata del
                        deserto. Così anche Isacco porta la legna per il
                        sacrificio ed è evidente che non possa portare questo
                        carico altro che sulla spalla. Quindi, questa spalla che
                        viene evocata ha un riferimento molto suggestivo a
                        questi due tipi di sacrificio. Anche voi avete un
                        modello di sacrificio nel quale il peso viene portato
                        sulla spalla! Ci sono analogie ma ci sono anche
                        differenze: che significa il sacrificio di Isacco e che
                        cosa significa il sacrificio di Gesù? Sono uno la
                        prefigurazione dell’altro, come credono i cristiani,
                        oppure sono uno l’opposizione dell’altro, come
                        credono gli ebrei? C’è una radicalità di differenza
                        che non possiamo ignorare. Il problema della nostra
                        seduta è proprio che cosa fare di questa unica spalla
                        quando c’è questa radicalità di differenza? 
                        C’è un’altra
                        strada interpretativa che riguarda questa spalla, e la
                        troviamo nella benedizione che Giacobbe dà al figlio
                        Josèph (Giuseppe) in Genesi 48,22. Alla fine della
                        benedizione usa l’espressione “shechem echad”
                        : “ecco io ti ho dato “uno shechem” in
                        più rispetto ai tuoi fratelli”. Che cosa
                        significa? Che rapporto c’è tra la benedizione di
                        Giacobbe e l’espressione di Tsefaniah? Su
                        quello che dice Giacobbe atteniamoci al contesto: la
                        parola shechèm può indicare il nome di una
                        persona, nel caso particolare il figlio del re Amòr
                        (che significa “asino”) della città di Shechem (Sichem).
                        Il figlio del re si chiama Shechem e violenta la
                        figlia di Giacobbe. A seguito di questa violenza c’è
                        l’episodio terribile della distruzione della città da
                        parte di due figli di Giacobbe. Atto di violenza
                        terribile che viene condannato dal patriarca, il quale
                        però a questo punto dice: “Ecco io ti do questa “shechem
                        echad” che io ho preso dall’Amorreo con
                        la mia spada e il mio arco”. Allora Giacobbe era
                        complice dei figli? Su questo la tradizione si è divisa
                        e ha suggerito due interpretazioni, una di tipo pratico
                        e una di tipo spirituale. La spiegazione pratica è che
                        effettivamente Giacobbe dà a Giuseppe la città di Shechem
                        (Sichem) e Giuseppe sarà sepolto a Shechem (Sichem).
                        L’episodio potrebbe riferirsi alla conquista
                        successiva oppure al fatto che effettivamente di quel
                        pezzo di terra dove Giuseppe è stato sepolto, la Bibbia
                        documenta che Giacobbe ne aveva preso possesso
                        materialmente. 
                        L’altra
                        possibilità che la tradizione sottolinea è che questa
                        spada e questo arco sono le forze spirituali di Giacobbe
                        e sono la sua preghiera: la preghiera di Giacobbe con la
                        quale conquista una parte spirituale in più, la
                        primogenitura spirituale conquistata con la preghiera e
                        sottratta a Esaù. 
                        Allora
                        questo “shechem” di Tsefaniah evoca un
                        passaggio di spiritualità, di primogenitura e anche,
                        forse, di possesso materiale che unisce tutti quanti. 
                        Vediamo
                        come sia ricca questa visione e come apra tutta una
                        serie di prospettive. Cercando di riassumere quello che
                        l’esegesi rabbinica ha tirato fuori: cosa significa
                        questo verso? Che tutti gli uomini della terra lo
                        serviranno oppure che saranno uniti in un unico fascio? 
                        Ma quando
                        tutti i popoli serviranno Dio? Una soluzione possibile
                        è che adesso tutti i popoli dissentono da Dio, ma nel
                        mondo futuro - che non è questa realtà - saranno tutti
                        uguali a servirlo. Qualcuno invece dice: non sono tutti
                        i popoli, ma è una cosa che si riferisce alla frase in
                        cui le persone giuste e corrette dei popoli del mondo
                        dicono al popolo di Israele: “Procediamo insieme a voi”.
                        E ancora qualcuno dice: “Nel mondo futuro non ci sarà
                        più distinzione nei precetti, nell’osservanza, tra
                        noi e gli altri. Secondo Maimonide sarà il Messia che,
                        dopo essersi imposto al popolo ebraico e aver realizzato
                        tutte le promesse, “ittanchèn”, correggerà
                        tutti i popoli della terra in modo che tutti quanti si
                        possa servire Dio insieme. (Mondo futuro? Il Messia?
                        Tutti i popoli? Non tutti i popoli? I precetti...?). 
                        Secondo
                        lo Zohar - la tradizione mistica - si parla di
                        altre cose, cioè che i morti saranno insieme ai vivi,
                        risorgeranno e serviranno Dio. 
                        C’è un
                        altro imput dello Zohar notevole, che la
                        parola “lingua” (safah) di cui si parla ha lo
                        stesso valore numerico di “Shechinah”, “Immanenza
                        divina”, per cui questa lingua è il contatto con la
                        presenza divina e tutti quanti arriveranno al contatto
                        con la presenza divina. 
                        Queste
                        sono le prospettive di lettura. 
                        Spostandoci
                        sul senso del nostro incontro, dobbiamo chiederci: il
                        verso di Tzefaniah si è realizzato? È in
                        corso? Si deve realizzare? Se ammettiamo che il verso di
                        Tzefaniah si sia realizzato, una cosa del genere
                        la possono sostenere non gli ebrei, forse alcuni
                        cristiani, dicendo che l’umanità si trova nelle sue
                        centinaia di milioni, unita intorno al messaggio
                        cristiano. Questa è una soluzione che possono
                        prospettare alcuni cristiani, ma non è una soluzione
                        che possono prospettare gli ebrei. Questa profezia è in
                        corso e, magari, è proprio il dialogo che la sta
                        realizzando? Sarebbe forse un po’ presuntuoso pensare
                        una cosa del genere. Se si realizza in questo senso è
                        soltanto una cosa che riguarda pochi. Si deve
                        realizzare? Ma in che modo? C’è uno spazio in questa
                        profezia per il pluralismo? Oppure non è semplicemente
                        altro che una profezia che dice: tutti quanti
                        arriveranno ad un unico modo di servire Dio, tutti
                        quanti insieme? 
                        Che cosa
                        significa “unica spalla”? Ciascuno con le sue
                        differenze così radicali, oppure qualcuno dovrà
                        rinunciare a queste differenze radicali e diventeranno
                        tutti quanti la stessa cosa? Non possiamo nasconderci
                        che sia la teologia ebraica sia la teologia cristiana
                        ammettono soltanto il modello di “tutti quanti”.
                        Paolo, nella lettera ai Romani, dice che capisce il
                        fatto che in qualche modo gli ebrei rimangano lontani
                        dal messaggio di Gesù, ma alla fine tutti quanti
                        dovranno convenire su questo. E dall’altro punto di
                        vista, Maimonide dice la stessa cosa al contrario: il
                        cristianesimo ha un ruolo fondamentale nella storia
                        perché porta certe conoscenze, certe dottrine
                        fondamentali all’umanità, ma dovrà correggersi e
                        arrivare alla perfezione dell’idea del Dio unico, nel
                        futuro. Abbiamo un’idea che per ciascuno dei mondi
                        religiosi è un’idea che considera positivamente lo
                        sforzo dell’altro, ma - se lo mette nella prospettiva
                        escatologica - alla fine dei tempi, dovremo essere o
                        tutti da una parte o tutti dall’altra. Allora, il tema
                        fondamentale, la provocazione che abbiamo in questo
                        momento è che dobbiamo cercare di capire a che cosa
                        serva e in che modo possa essere fatto il dialogo.
                        Perché fino a poco tempo fa, malgrado le enormi
                        difficoltà che esistevano, il dialogo ebraico -
                        cristiano era semplicissimo: gli ebrei chiedevano
                        rispetto, chiedevano di farla finita con l’insegnamento
                        del disprezzo, ecc… Questi obiettivi non sono stati
                        ancora realizzati, ma sono stati fatti enormi progressi;
                        siamo entrati in una nuova fase nella quale il punto
                        interrogativo, il tema fondamentale, è quello di capire
                        a che cosa possa servire il dialogo. Certamente il
                        dialogo deve servire per evitare di mostrare al mondo il
                        pessimo spettacolo rappresentato fino a qualche decennio
                        fa, dove coloro che ritenevano di essere rappresentanti
                        dello spirito della crescita dell’uomo facevano il
                        possibile per disprezzare l’altro. Non possiamo più
                        permetterci di mostrare al mondo questo spettacolo
                        terribile, dobbiamo essere, insieme, uno spettacolo
                        edificante. Ma che cos’è che possiamo fare? Perché
                        nel dialogo stiamo arrivando - ed è molto positivo - a
                        forme di rispetto sostanziale dell’altro che ci fanno
                        conoscere i mondi, ma al di là del rispetto esiste la
                        teologia e la teologia può essere cambiata? Abbiamo
                        notato che ci sono stati progressi teologici
                        significativi nella visione dell’ebraismo da parte
                        della teologia cristiana. Il documento sulle Scritture
                        ebraiche dà importanza all’esegesi rabbinica, cosa
                        che non era mai stata fatta in precedenza, quasi a dire
                        che l’esegesi rabbinica della Bibbia ha acquistato un
                        valore teologico, entro certi limiti. Ci si può
                        aspettare una reciprocità sul piano teologico? Come a
                        dire: noi abbiamo concesso questo, voi adesso concedete
                        qualcos’altro? Questo è uno dei nodi più terribili e
                        probabilmente la reciprocità sul piano teologico non
                        esiste perché ciascuna teologia procede con il suo modo
                        di ragionare e la discussione teologica non è quella
                        dei politici che stanno intorno a un tavolo e dicono:
                        “ io ti do dieci Km di terra” o “metto la mia
                        ambasciata qua piuttosto che là”. Tra politici si
                        può discutere e si deve arrivare ad una soluzione, tra
                        teologi è già qualche cosa se non ci si ammazza! Ma le
                        concessioni sono cose molto difficili e questa
                        reciprocità mancata è in qualche modo il prodotto del
                        fatto che il legame che unisce ebraismo e cristianesimo,
                        un legame esclusivo che non esiste tra altre fedi, è un
                        legame assolutamente asimmetrico, dovuto proprio dal
                        tipo di evoluzione storica - il cristianesimo nasce dall’ebraismo
                        e non viceversa - il cristianesimo con notevoli sforzi
                        può introiettare dentro di sé e considerare parte
                        della sua spiritualità la concezione del mondo ebraico,
                        ma non è altrettanto così per l’ebraismo. Quindi il
                        nostro rapporto è differente. Oggi le domande che sto
                        facendo sono in realtà più verso l’ebraismo che
                        verso il cristianesimo, ma il tema di questa ‘spalla a
                        spalla’, di questa ‘unica spalla’, è veramente un
                        enorme punto interrogativo, per il quale trovare una
                        risposta è estremamente difficile e nel quale bisogna
                        sforzarsi con molta determinazione a capire qual è il
                        limite da porre a questo ideale e in che modo questo
                        ideale possa essere veramente interpretato oggi”. 
                          
                         
                        S.
                        E. Mons. Rino Fisichella:      
                        torna
                        su 
                        “Ringrazio
                        il Rav Di Segni per questa non soltanto profonda esegesi
                        del testo di Sofonia, ma anche per le suggestive
                        provocazioni che nascono dalle domande poste alla fine.
                        Domande poste a tutti. Una domanda la si pone perché si
                        vuole un’intelligenza ulteriore. È anche vero che
                        le domande richiedono delle risposte, quelle che insieme
                        permettono di poter tendere verso un’unità o verso
                        una verità ancora più profonda che sarà sempre, nella
                        storia di tutti, una tappa per poter andare oltre. In
                        questo clima di domanda, di tentativo di andare sempre
                        più in profondità nella Parola di Dio, do la parola al
                        Prof. Odasso perché c’è anche una lettura diversa.
                        Giustamente il Rav Di Segni diceva che quando si fa l’esegesi
                        ci sono punti di partenza che sono differenti e l’esegeta
                        cattolico legge la Scrittura con le pre-comprensioni
                        della fede che lo fanno riportare tutto a Gesù di
                        Nazareth. Quindi in ogni caso c’è un punto di
                        partenza che può essere complementare per noi, per
                        andare ancora più in profondità al testo di Sofonia”. 
                          
                        
                         
                        
                        Prof.
                        Giovanni Odasso:       torna
                        su 
                        “Ringrazio
                        di cuore S. E. Mons. Rino Fisichella per l’invito
                        rivoltomi, che mi concede di riflettere insieme con voi,
                        in questa XV Giornata di Amicizia e di Dialogo fra Ebrei
                        e Cristiani. L’intervento del Rabbino Capo della
                        Comunità Ebraica di Roma ha permesso a noi tutti di
                        avvicinarci alla ricchezza della tradizione ebraica e,
                        in particolare, alla suggestiva profondità dell’esegesi
                        rabbinica. Insieme alle domande finali, che
                        costituiscono un motivo di comune riflessione, le parole
                        di Rav Di Segni mostrano che i testi della Scrittura,
                        lungi dall’essere aridi documenti di un museo
                        inaccessibile, possono essere parola viva che irrompe,
                        con la sua energia vitale, nell’attualità della
                        nostra fede e illumina il cammino della nostra speranza. 
                        Il mio
                        intervento si svolge in tre momenti. Nel primo si
                        richiama l’indole dei detti profetici contenuti nel
                        libro di Sofonia, come premessa necessaria per
                        comprendere il versetto che costituisce il tema di
                        questa Giornata. Successivamente si analizza il versetto
                        di Sof 3,9. Infine si delineano alcune possibili
                        conseguenze. La riflessione, qui sviluppata, intende
                        muoversi nell’orizzonte di una comprensione
                        esegetico-scientifica del testo biblico, pur essendo
                        evidente che, nella luce del NT, il cristiano può
                        cogliere delle correlazioni cristologiche che, come già
                        rilevava Rav di Segni, non possono essere condivise da
                        chi ha la fede ebraica. 
                        Il libro
                        di Sofonia è costituito solo da 53 versetti,
                        distribuiti in tre capitoli. Tuttavia, questo “microcosmo
                        profetico” (W. Dietrich) contiene gli elementi
                        fondamentali sviluppati nella profezia biblica. In
                        concreto vi si incontrano detti di sventura contro il
                        popolo del Signore, detti di sventura contro gli altri
                        popoli, infine detti di salvezza per Israele. 
                        Già nel
                        primo capitolo risuona un detto di sventura che annuncia
                        il giudizio del Signore contro il suo popolo: 
                        
                          
                            “Stenderò
                            la mano su Giuda, su tutti gli abitanti di
                            Gerusalemme, 
                            sterminerò da questo luogo gli avanzi di Baal 
                            e il nome stesso dei suoi falsi sacerdoti […] 
                            quelli che si allontanano dal seguire il Signore, 
                            che non cercano né si curano di lui” (cf. 1,4-6). 
                           
                         
                        Segue,
                        poco dopo, la celebre descrizione del giorno del Signore
                        che delinea l’intervento escatologico di Dio contro
                        tutte le genti: 
                        
                          
                            «Giorno
                            d’ira quel giorno 
                            Giorno di angoscia e di afflizione, 
                            giorno di rovina e di sterminio, 
                            giorno di tenebre e di caligine 
                            giorno di nubi e di oscurità» (1,15) 
                           
                         
                        La
                        descrizione, alla quale si ispirò l’autore della
                        sequenza “Dies irae dies illa”, si conclude
                        prospettando una catastrofe dalle dimensioni universali
                        e cosmiche: 
                        
                          
                            «Nel
                            giorno dell’ira del Signore, 
                            e al fuoco della sua gelosia, 
                            tutta la terra sarà consumata, 
                            poiché farà improvvisa distruzione 
                            di tutti gli abitanti della terra (1,18). 
                           
                         
                        Quest’ultima
                        descrizione si connette a quella iniziale dei vv. 2-3 e
                        forma con essa una cornice letteraria all’intero
                        capitolo. Il giudizio di Israele si trova al centro dell’intervento
                        divino e si comprende nell’orizzonte cosmico del
                        giudizio escatologico. 
                        Ai detti
                        di giudizio, contro il popolo del Signore e contro le
                        genti, si contrappone la raccolta dei detti di salvezza.
                        Tra questi spicca la promessa che si incontra nel
                        capitolo 3: 
                        
                          
                            «Farò
                            restare in mezzo a te 
                            un popolo umile e povero; 
                            si rifugerà nel Nome di JHWH 
                            il resto di Israele» (vv. 12-13a). 
                           
                         
                        È noto
                        che questa promessa, attraverso la versione della LXX (“popolo
                        mite e umile”), è richiamata nel Vangelo di Matteo
                        per presentare Gesù che, realizza la spiritualità
                        degli “anawim” in modo esemplare per i suoi
                        discepoli: “imparate da me che sono mite e umile di
                        cuore” (cf. Mt 11,29). La portata salvifica del detto
                        appare nell’invito alla gioia escatologica che
                        caratterizzerà l’esistenza del popolo rinnovato dall’amore
                        di JHWH che, con la sua presenza vittoriosa, si
                        manifesta Re e Salvatore: 
                        
                          
                            «Rallegrati,
                            figlia di Sion, esulta Israele, 
                            gioisci con tutto il cuore figlia di Gerusalemme! 
                             
                            ha revocato la tua condanna, 
                            ha disperso il tuo nemico. 
                            Re d’Israele è  
                            in mezzo a te, 
                            tu non vedrai più la sventura» (vv. 14-15). 
                           
                         
                        I tre
                        tipi di detti (annuncio della sventura per Israele, per
                        le genti; annuncio della salvezza per il popolo del
                        Signore) svolgono un ruolo importante anche nella
                        struttura redazionale del libro di Isaia, di Geremia
                        (secondo il testo greco) e di Ezechiele. In questi libri
                        profetici i detti di giudizio contro Israele sono posti
                        all’inizio dell’opera; seguono i detti contro le
                        genti e, infine, i detti di salvezza del popolo del
                        Signore. Gli studiosi hanno visto in una simile
                        struttura l’espressione di una concezione escatologica
                        che si andò sviluppando dopo l’esilio, in particolare
                        sotto l’impulso della teologia deuteronomistica. Le
                        sventure, che la Parola divina minacciava a Israele per
                        la sua infedeltà all’alleanza, si sono realizzate con
                        l’esilio. Esse ora riguardano soltanto le potenze che
                        hanno oppresso o opprimeranno il popolo di JHWH. Il
                        futuro, che il Signore dischiude al suo popolo, è ormai
                        quello della benedizione nell’alleanza rinnovata (cf.
                        Dt 30,1-14). 
                        Questi
                        rilievi preliminari, necessari per comprendere il
                        contesto generale nel quale si situa il versetto di
                        Sofonia, offrono una testimonianza preziosa della
                        profondità raggiunta dalla fede di Israele. Una
                        domanda, però, si impone: l’annuncio della sventura
                        che incombe sulle genti è forse l’unica prospettiva
                        presente nella tradizione biblica? Non è possibile un
                        futuro di salvezza anche per le genti? Il testo sul
                        quale riflettiamo offre una risposta positiva a questo
                        interrogativo. 
                        È utile
                        anzitutto presentare il testo di Sof 3,9 con una
                        traduzione che si richiama direttamente al testo
                        originale: 
                        
                          
                            «Allora
                            io trasformerò i popoli con un labbro puro (1) 
                            perché tutti proclamino il nome di JHWH 
                            e lo servano con un’unica spalla». 
                           
                         
                        L’indicazione
                        temporale (“allora”) connette questo detto di
                        salvezza delle genti al versetto che precede, nel quale
                        si annuncia il giudizio di Dio che riversa la sua ira
                        non solo su Gerusalemme, ma su tutte le genti e su tutti
                        i regni, come risulta dall’espressione “dal fuoco
                        della gelosia del Signore sarà consumata tutta la terra”
                        (cf.1,18). Mediante il giudizio delle genti, il testo lo
                        insinua chiaramente, JHWH persegue un solo obiettivo:
                        che Israele tema il suo Dio. Il giudizio delle genti
                        appare, dunque, come una tappa orientata all’irruzione
                        della salvezza escatologica, quando il popolo di JHWH
                        non dovrà più arrossire per le sue precedenti
                        infedeltà e vivrà nella gioia della presenza salvifica
                        del suo Dio (cf. Sof 3,11). 
                        Il fatto
                        che, mediante l’avverbio “allora” del v. 9, la
                        promessa della salvezza delle genti sia connessa
                        esplicitamente all’annuncio del loro giudizio ha un’importanza
                        decisiva. In questo modo, infatti, si afferma che il
                        giudizio delle genti è orientato alla salvezza
                        escatologica non solo del popolo del Signore, ma di
                        tutti i popoli. 
                        La
                        condizione salvifica futura è indicata con un’espressione
                        che è difficile tradurre proprio per la densità della
                        sua formulazione. Solitamente il testo è reso in questo
                        modo: “allora io darò ai popoli un labbro puro”. Il
                        verbo ebraico, però, non è natan, dare, ma haphak.
                        Si tratta di un verbo che significa voltare, rovesciare,
                        trasformare. Esso ricorre, p. es., per descrivere
                        plasticamente la distruzione di Sodoma e Gomorra,
                        indicandone la loro completa rovina. In altri casi il
                        verbo connota la trasformazione totale che segna la fine
                        di una situazione presente e l’ingresso in una futura,
                        radicalmente nuova. Con questo significato il verbo può
                        presentarsi con un valore salvifico, come avviene nella
                        promessa di Ger 31,13: 
                        
                          
                            «Allora
                            si allieterà la vergine danzando, 
                            i giovani e gli anziani gioiranno. 
                            Io trasformerò il loro lutto in gioia, 
                            li consolerò e li renderò felici senza
                            afflizioni». 
                           
                         
                        In questa
                        linea occorre comprendere il verbo haphak nel
                        testo di Sofonia. JHWH stesso compie la totale
                        trasformazione dei popoli. L’orizzonte della salvezza
                        escatologica, che qui si intravede, è luminoso e ricco.
                        In anni passati una simile concezione appariva così
                        diversa dall’idea dell’AT, quale si era sviluppata
                        nella cristianità occidentale, da indurre alcuni
                        critici a ritenere il testo corrotto e a suggerire di
                        leggere, invece del plurale “ammim” (popoli), la
                        forma singolare “ammi” (mio popolo). Ne risultava il
                        seguente testo: «io darò al mio popolo (non: ai
                        popoli!) un labbro puro». Si tratta ovviamente di un’ipotesi
                        destituita di qualsiasi fondamento scientifico. In
                        questa sede meritava di essere richiamata unicamente
                        perché il suo ricordo è una prova di quanto gli
                        orizzonti culturali e teologici possano condizionare l’uomo
                        e impedirgli di cogliere, in tutta la sua energia
                        profetica, il messaggio della Parola di Dio. 
                        La
                        trasformazione salvifica, operata da Dio per tutti i
                        popoli, è qui indicata con il dono di un labbro “puro”
                        (o “chiaro”). Il termine ebraico, tradotto con “puro”,
                        è “berurah”. Si tratta di un vocabolo che
                        appartiene allo stesso campo semantico di “tahar”,
                        vocabolo che, nella sua accezione letterale, denota la
                        purità rituale. “Puro”, secondo il significato
                        letterale, rituale, del termine, è il fedele che può
                        legittimamente partecipare alle azioni cultuali e quindi
                        esprimere, mediante l’offerta del sacrificio, la
                        certezza di essere innalzato alla comunione con JHWH. In
                        senso traslato il vocabolo tahar, puro, indica la
                        condizione del singolo e di tutto il popolo che, essendo
                        fedele all’alleanza, vive nella comunione con il suo
                        Dio, comunione che è simbolicamente significata nel
                        culto. Proprio questo significato salvifico risuona
                        nella nota pagina di Ez 36,16-28, dove JHWH annuncia di
                        radunare il suo popolo, di purificarlo, donandogli un
                        cuore nuovo e uno spirito nuovo, ponendo in lui il suo
                        stesso Spirito. Questo senso teologico illumina il libro
                        del Levitico che mira a portare il popolo ad essere
                        purificato e quindi nella condizione di diventare ciò
                        che il Signore stesso richiede: «Siate santi, perché
                        io JHWH, vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2). 
                        Il testo
                        di Sofonia, l’abbiamo detto, non usa il termine che
                        contiene la radice tahar, ma un sinonimo, formato
                        con la radice barar. Il significato specifico di
                        questo termine è di indicare la condizione di chi è
                        “puro” non tanto secondo la denotazione rituale, ma
                        più specificamente secondo la connotazione
                        esistenziale, teologica. Così il Salmo 24, alla domanda
                        di chi salirà il monte del Signore risponde con la
                        seguente indicazione: 
                        
                          
                            Chi
                            ha mani innocenti e il cuore puro, 
                            chi non pronunzia menzogna, 
                            chi non giura a danno del suo popolo”. 
                           
                         
                        Una
                        conseguenza si va delineando chiaramente: Dio
                        trasformerà i popoli donando loro un labbro “puro”.
                        L’affermazione di Sof 3,9 è simile, nel suo
                        significato, a quella di 3,13, dove si descrive il
                        popolo escatologico di Sion, che si rifugerà nel Nome
                        del Signore, affermando: “Non commetteranno più
                        iniquità e non proferiranno menzogna, non si troverà
                        più nella loro bocca una lingua fraudolenta”. La
                        trasformazione, prospettata dal testo che esaminiamo,
                        orienta quindi a un futuro nel quale non solo Israele,
                        ma anche i popoli saranno liberati dall’iniquità e
                        dalla menzogna, dalla violenza e dall’inganno. 
                        La
                        seconda parte del versetto 9 conferma questa interpretazione.
                        Trasformati dall’intervento salvifico divino, i popoli
                        proclameranno il Nome di 
                        e lo serviranno “con una sola spalla”. Il sintagma “proclamare il Nome di ” traduce l’espressione ebraica qara’
                        beshem. L’espressione ricorre talvolta in un
                        contesto di supplica e questo fatto ha favorito la
                        traduzione “invocare il Nome del Signore”, che
                        risulta appropriata solo in un contesto specifico di
                        supplica. Il più delle volte, infatti, il sintagma
                        significa proclamare il nome del Signore, riconoscerlo,
                        come Dio e salvatore, nella lode e nel ringraziamento. 
                        A questo
                        riguardo sono illuminanti i testi della Genesi. In Gn
                        4,26 si afferma che a Set nacque un figlio che egli
                        chiamò Enos. Allora si cominciò a proclamare il Nome
                        di JHWH. L’espressione qui denota la fede che porta l’uomo
                        a vivere in relazione con JHWH mediante la confessione,
                        la lode il ringraziamento e la proclamazione del suo
                        Nome. 
                        In Gn
                        12,8 si incontra Abramo. Dopo la vocazione, che lo rende
                        strumento della benedizione divina a tutte le famiglie
                        della terra, il patriarca costruisce un altare e
                        proclama il Nome di JHWH. Come risulta da Gn 13,8 non si
                        tratta di un’azione passeggera, ma di una realtà
                        permanente: la fondazione del culto a JHWH in quel
                        luogo. 
                        Lo stesso
                        evento si verifica a Bersabea come risulta da Gn 21,33,
                        il versetto che precede immediatamente il racconto dell’Aqedah
                        di Isacco. La confessione del Nome di JHWH, che ha la
                        sua espressione visibile nel culto, guida il credente ad
                        ascoltare la voce del Signore in tutte le dimensioni
                        dell’esistenza umana, perché questa sia “sacrificio”
                        gradito a Dio e quindi sia innalzata alla comunione con
                        il Signore. 
                        La
                        ricchezza semantica di questa espressione appare, in
                        modo speciale, in Gn 26. A Bersabea Isacco costruisce l’altare
                        e proclama il Nome di JHWH, dopo che questi gli si è
                        manifestato assicurandogli la sua presenza salvifica e l’adempimento
                        della promessa della benedizione e della discendenza: 
                        
                          
                            Io
                            sono il Dio di Abramo tuo padre 
                            Non temere perché io sono con te 
                            Ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza 
                           
                         
                        Dall’insieme
                        dei testi risulta che l’espressione è connessa con la
                        confessione del Signore in quanto è il Dio che si
                        manifesta con la potenza della sua promessa
                        (discendenza, vita, benedizione) e con la sicurezza
                        della sua fedeltà. In definitiva, la proclamazione del
                        Nome del Signore si fonda sulla manifestazione del
                        Signore che dischiude un futuro di vita per il suo
                        popolo e per l’intera umanità. 
                        Questa
                        prospettiva è confermata e approfondita dai testi di Es
                        33,19 e 34,5. Il popolo liberato dall’Egitto si è
                        prostrato davanti al vitello d’oro, ponendosi in
                        questo modo nell’ambito della non salvezza: “Lascia
                        che distrugga questo popolo di te farò una grande
                        nazione” (Es 32,10). L’intercessione di Mosè,
                        narrata con un profondo intento teologico ottiene dal
                        Signore il perdono e con esso il dono della vita per il
                        popolo, che sarà nuovamente guidato dal suo Dio verso
                        il futuro della libertà promessa. In questo contesto,
                        la pagina di Es 34, che narra il rinnovamento dell’alleanza,
                        pone la proclamazione del Nome del Signore in bocca al
                        Signore stesso: 
                        
                          
                            « ,
                              
                            Dio pieno di tenerezza e propizio 
                            Lento all’ira 
                            E immenso nell’amore e nella fedeltà» (Es 34,6) 
                           
                         
                        Questo
                        testo, fondamentale all’interno del libro dell’Esodo
                        e di tutta la Torah, mostra che il popolo, proclamando
                        il Nome di JHWH, si pone in profonda sintonia con la
                        stessa automanifestazione del Signore, con la sua
                        Parola, con la sua salvezza. La proclamazione del Nome
                        del Signore, che avviene nell’esperienza del perdono,
                        implica la liberazione dalla maledizione e dalla morte e
                        confessa il dono della benedizione e della vita. 
                        Nell’orizzonte
                        teologico appena delineato si comprende che la
                        proclamazione del Nome di JHWH costituisce la
                        caratteristica propria del sacrificio della “todah”,
                        nel quale il fedele, liberato da un grave pericolo di
                        morte, ringrazia JHWH che ha esaudito la sua preghiera e
                        gli concede nuovamente di camminare “nella terra dei
                        viventi”. L’orante, liberato dalla morte, alla
                        domanda «Che cosa renderò al Signore per tutto quello
                        che mi ha dato?» risponde: «Alzerò il calice della
                        salvezza e proclamerò il Nome del Signore». (Sal
                        117,13). Nel sacrificio todah proclamare il Nome
                        di JHWH significa confessare che egli è il Dio che
                        libera dalla morte. Quando, nella tradizione di Israele,
                        si sviluppò la fede nella risurrezione, si comprese che
                        la vera todah non è quella celebrata in questo
                        mondo, ma quella che si celebrerà nel mondo che deve
                        venire, quando Dio, con la risurrezione di “coloro che
                        scendono nella polvere”, avrà realizzato la
                        definitiva liberazione dalla morte. Questa prospettiva
                        si trova affermata esplicitamente nella tradizione
                        rabbinica: «Nell’età ventura cesseranno tutti i
                        sacrifici, ma il sacrificio todah non cesserà in
                        eterno; anche tutti i canti cesseranno, ma i canti todah
                        non cesseranno in eterno» (Pesiqta 79a) 
                        La
                        conoscenza del ricco significato dell’espressione “qara’
                        beshem JHWH” è indispensabile alla comprensione
                        di Sof 3,9. Dio trasforma i popoli così che essi
                        possano proclamare il suo Nome. Nel futuro, delineato
                        dall’orizzonte escatologico di questo testo, tutti i
                        popoli confesseranno, insieme a Israele, JHWH, il Dio
                        fedele, che libera dalla morte e dischiude il sentiero
                        della vita. Questa interpretazione è confermata dal
                        fatto che il sintagma «perché proclamino il Nome di
                        JHWH» è parallela all’espressione «e lo servano “con
                        una sola spalla”». 
                        La
                        locuzione “servire il Signore” è una formulazione
                        del comandamento fondamentale. Il significato
                        esistenziale di questa espressione appare nella pagina
                        teologica di Gs 24, dove Israele rinuncia a servire gli
                        dei per vivere perennemente nell’alleanza con JHWH. In
                        particolare, il verbo “servire” sottolinea che l’orientamento
                        totale, esclusivo e permanente al Signore pone il popolo
                        nella condizione di realizzare il disegno salvifico del
                        suo Dio e di testimoniare questo disegno in mezzo alle
                        genti. E’ noto che l’espressione “i servi del
                        Faraone” non indica i suoi schiavi, ma connota i suoi
                        ministri, coloro che più direttamente sono coinvolti
                        nell’attuazione del programma del suo governo.
                        Analogamente il titolo “servo del Signore”
                        sottolinea che Israele vive nella salvezza divina ed è
                        testimone del disegno salvifico di JHWH in mezzo alle
                        genti. La connessione tra “servire” e “testimoniare”
                        appare esplicitamente in Is 43,10: «Voi siete miei
                        testimoni - detto di JHWH - miei servi che io mi sono
                        scelto perché mi conosciate e crediate in me e
                        comprendiate che sono proprio io». Questo testo mette
                        in luce che l’essere servo di JHWH significa non solo
                        conoscerlo, credere in lui comprendendo profeticamente
                        il suo disegno e la sua Parola, ma anche essere
                        testimoni di lui, del suo disegno, della sua salvezza. 
                        In questo
                        contesto la ricca portata del detto profetico di Sofonia
                        si delinea con sempre maggiore chiarezza e al tempo
                        stesso lascia intuire le sue inesauribili virtualità.
                        Nel futuro, descritto dal testo profetico, Dio
                        trasformerà i popoli in modo che proclamino il suo Nome
                        e lo servano: lo conoscano, credano in lui e siano suoi
                        testimoni. 
                        In Sof
                        3,9 il sintagma “servire il Signore” è specificato
                        dalla locuzione “con una sola spalla”. Si tratta di
                        un’espressione che ricorre unicamente in questo testo
                        (il testo di Gn 48,22 non è pertinente) e che alcuni
                        traducono, piuttosto liberamente, “appoggiandosi
                        spalla a spalla”. Il linguaggio simbolico richiama l’immagine
                        dei portatori che trasportano un determinato carico
                        sulle proprie spalle. Nella Bibbia può essere
                        illuminante la frase di Nm 7,9 dove si presenta una
                        famiglia di leviti, i figli di Keat, che erano
                        incaricati del servizio degli oggetti sacri. I Keatiti
                        non potevano trasportare questi oggetti su carri, ma
                        dovevano portarli sulle loro spalle. 
                        La
                        peculiarità di Sof 3,9 è che i popoli portano
                        concordemente, unendo insieme le loro forze, l’unico
                        carico del servizio di JHWH. Nell’orizzonte simbolico
                        teologico di questo versetto ciò significa che tutti i
                        popoli, insieme a Israele, saranno nella condizione
                        salvifica di “servire JHWH” e assumeranno questa
                        missione in una sincera e concorde comunione di vita
                        nella fedeltà all’alleanza con il Signore. Essi,
                        quindi, porteranno insieme a Israele, popolo santo, il
                        servizio di JHWH, la fede in Lui, la testimonianza del
                        suo disegno, la proclamazione del suo Nome. Essi
                        porteranno i doni propri della celebrazione cultuale (cf.
                        Sof 3,10; Is 18,7; 19,21), il dono di celebrare la Todah
                        nella proclamazione del Dio che ha fatto trionfare la
                        potenza della vita sulla forze sterminatrice della
                        morte, ha fatto trionfare la vita nella giustizia, nel
                        diritto, nell’amore e nella tenerezza sulle opere dell’ingiustizia
                        della violenza, dell’odio e dell’insensibilità. 
                        In
                        sintesi, Israele e le genti porteranno insieme la Parola
                        di JHWH. Proprio questo aspetto, ci sembra, è
                        sottolineato dalla traduzione della LXX: «e lo servano
                        tutti sotto lo stesso giogo», espressione che, alla
                        luce di Ger 2,20 indica l’accoglienza della Parola e,
                        attraverso essa, la comunione con JHWH, sviluppata in un
                        itinerario di costante ricerca nella fede. 
                        Questo
                        messaggio nella Scrittura non è una voce isolata. L’orizzonte
                        di Sof 3,9 si percepisce con forza nella pericope di Is
                        2,2-5 che è presente con leggere varianti anche nel
                        libro dei Dodici profeti (Mic 4,1-5): la moltitudine dei
                        popoli sale pellegrinante al monte di JHWH perché da
                        Sion uscirà la Torah, la Parola di JHWH. Analoga
                        prospettiva si incontra nella pagina teologica di Is
                        19,16-25, dove l’Egiziano e l’Assiro sono raggiunti,
                        insieme a Israele, dalla benedizione divina, e nel
                        messaggio escatologico di Is 25,6-8 dove si. presenta
                        JHWH che prepara per tutti i popoli il banchetto dell’alleanza
                        nell’esperienza della piena liberazione. L’espressione
                        “JHWH eliminerà la morte per sempre” ci testimonia
                        che questa pagina è stata riletta come annuncio del
                        banchetto nel mondo della risurrezione ed è quindi una
                        preziosa testimonianza che gli annunci escatologici
                        furono compresi nell’orizzonte proprio della fede
                        nella risurrezione (cf. Sal 22,28). 
                        La
                        visione dischiusa da Sof 3,9, con la ricchezza del
                        messaggio escatologico che contiene, offre dei preziosi
                        orientamenti che interpellano anche la Chiesa. 
                        Il testo
                        di Sofonia, in sintonia con la tradizione biblica,
                        orienta a vedere tutta l’umanità inclusa nel disegno
                        salvifico di Dio. Questo orizzonte illumina, con la
                        ricchezza delle Sante Scritture, la connessione “teologica”
                        che unisce in modo speciale la Chiesa a Israele. Questo
                        rapporto è chiamato ad esprimersi, a livello
                        storico-esistenziale, in un cammino concorde nella
                        realtà di un rispetto reciproco e nel coraggio di un
                        dialogo autentico. La Chiesa del NT ha nutrito, mediante
                        le Scritture, la propria fede nel Dio che ha adempiuto
                        le sue promesse con la risurrezione del Cristo. Il
                        cammino del dialogo autentico si percorre quando si
                        lavora insieme nella conoscenza e nella comprensione
                        delle Sante Scritture. 
                        In una
                        prospettiva cristiana i testi come quelli di Sof 3,9
                        richiedono che sia tenuta sempre viva la consapevolezza
                        del rapporto dialettico tra il “già” e il “non
                        ancora”. La concretezza del “non ancora” libera da
                        ogni illusione trionfalistica e rende la comunità
                        cristiana pellegrina nella storia insieme a tutta l’umanità.
                        Senza dubbio la fede nel Cristo risorto assicura i
                        cristiani della loro trasformazione che li abilita a
                        proclamare il Nome del Signore e ad essere suoi servi e
                        testimoni. Tuttavia la nostra confessione del Signore e
                        il nostro essere suoi servi non sono ancora realizzati
                        in quella pienezza definitiva, che è propria del Regno
                        eterno, e non lo saranno mai all’interno della storia
                        umana. Nel pellegrinaggio noi, come cristiani, abbiamo
                        molto da imparare da ogni uomo, in particolare molto
                        possiamo imparare dall’esperienza di fede dei nostri
                        “fratelli maggiori”, dalla loro conoscenza vitale
                        delle Sante Scritture. Sotto questo profilo le loro
                        domande sono anche le nostre. 
                        Una luce
                        particolare, in questo contesto, ci è data da Is 25,9.
                        Nel giorno in cui il Signore eliminerà la morte per
                        sempre, si proclamerà: «Ecco il nostro Dio: in lui
                        abbiamo sperato, perché ci salvasse; questi è JHWH,
                        nel quale abbiamo sperato: rallegriamoci, esultiamo per
                        la sua salvezza». La speranza nel Dio “pieno di
                        tenerezza e propizio, lento all’ira e immenso nell’amore
                        e nella fedeltà” (cf. Es 34,6) non potrebbe diventare
                        l’energia profonda del nostro “servire il Signore
                        con un’unica spalla”? La speranza, anzitutto,
                        implica la consapevolezza che il “già” della
                        salvezza non ha ancora raggiunto la sua pienezza
                        definitiva in Dio. Nel contempo, però, essa, pur
                        guardando al “non ancora” come al limite che è
                        realmente presente nell’uomo, rende sempre possibile,
                        nell’orizzonte della fede, la certezza che esso sarà
                        definitivamente superato dalla vittoria del Dio fedele,
                        dalla sua salvezza. In ogni itinerario di dialogo
                        autentico si anticipa qualcosa del canto futuro, si
                        anticipa la confessione della fede che matura
                        profeticamente nella speranza: “Ecco il nostro Dio”. 
                         
                        ___________________ 
                        (1)
                        O anche "con un labbro chiaro" 
                          
                         
                        S.
                        E. Mons. Rino Fisichella:      
                        torna
                        su 
                        “Ringraziamo
                        il prof. Odasso. Abbiamo avuto, direi, una lettura
                        complementare con delle accentuazioni differenti.
                        Abbiamo sempre piacere che questi momenti siano di
                        riflessione culturale, ma anche di provocazione e di
                        spiritualità. Quando si è davanti alla Parola di Dio,
                        due specialisti riescono sempre ex abundantia cordis a
                        far parlare il testo secondo le diverse tradizioni e
                        penso che abbiamo imparato ancora tanto questa sera. Da
                        parte mia un ringraziamento al Rav Di Segni, al Prof.
                        Odasso e a tutti coloro che hanno partecipato a questo
                        momento. 
                        Gli
                        interrogativi che ci hanno lasciato i relatori rimangono
                        tali, ma a noi rimane l’impegno, giorno dopo giorno,
                        di costruire sempre di più la nostra fraternità, la
                        nostra amicizia e di guardare a quel Signore che si è
                        rivelato e ci ha donato la sua salvezza”. 
                        Roma, 15 gennaio 2004 
                          
                        
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