Non si può parlare di dialogo in senso stretto tra religioni.
Urge un dialogo tra le culture che da esse scaturiscono

Benedetto XVI torna sul dialogo, un tema a lui particolarmente caro ma fa chiarezza: no al sincretismo religioso, perché la Fede non può essere messa fra parentesi e costituisce un'identità; sì invece al dialogo fra leader religiosi quando sono in ballo valori universali, promozione dei diritti umani, lotta al terrorismo. Ne coglie l'occasione nella Prefazione ad un saggio di Marcello Pera sul Cristianesimo "Perché dobbiamo dirci cristiani"

 
 «Prefazione di Benedetto XVI» al saggio «Perché dobbiamo dirci cristiani»
 Marcello Pera «Il cristianesimo chance dell'Europa» (Corriere della Sera)
 Commenti leader ebrei e musulmani
 Magdi Allam, Lettera aperta a Benedetto XVI
 Khaled Fouad Allam, Le religioni e il destino del mondo (Osservatore Romano)
 Lucetta Scaraffia, Il dialogo secondo Benedetto XVI (Osservatore Romano)
 Nota di InternEtica



Caro Senatore Pera,

in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.

Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismo ma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.
Benedetto XVI

© Copyright Corriere della sera, 23 novembre 2008


Non c’è liberalismo senza Dio                                                           torna su

Il saggio di Marcello Pera con un testo del Papa. «Il cristianesimo, chance dell’Europa»

Maria Antonietta Calabrò

«La mia posizione è quella del laico e liberale che si rivolge al cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza», di una «speranza» possibile per la nostra società, per la politica, per il mondo delle istituzioni, ed in particolare per la vecchia Europa, «la terra più scristianizzata dell'Occidente e se ne fa un vanto». Dove vivere come se nessun Dio esistesse «non sta dando i frutti promessi». Europa che al cristianesimo deve ritornare «se vuole davvero unificarsi in qualcosa che assomigli ad una nazione, una comunità morale». Nel suo nuovo libro (Mondadori), Marcello Pera si mette sulle orme di Kant, (che nella Critica della ragion pratica affermava: «La speranza comincia soltanto con la religione»), e di Benedetto Croce («Non possiamo non dirci cristiani»). Ma ancora di più segue la lezione «scientifica» dell'empirismo inglese di Locke (che scrisse La ragionevolezza del cristianesimo), dei Padri fondatori della nazione americana e di Tocqueville. E proprio a partire dallo studio dei problemi drammatici di ordine morale, politico, religioso posti dalla convivenza umana contemporanea (da quelli bioetici a quelli dell'integrazione) giunge a spingersi più in là: dal «non possiamo non dirci» al «dobbiamo dirci cristiani».

I cambiamenti dell'ultimo scorcio del XX secolo richiedono, secondo Pera, per logica interna, questo ulteriore sviluppo, rispetto ai tempi in cui la società era ancora per larga parte permeata dal cristianesimo e dal suo spirito religioso. Perciò arriva a sostenere, dimostrandolo, che «alzare la bandiera cristiana» [vedi intervento Assisi 2004] è l'unica occasione affinché non solo l'Occidente, ma anche ogni singolo essere umano (il liberalismo è per sua natura non etnocentrico, ma universalista) possa ancora avere una prospettiva positiva, una chance. «Non si tratta — annota Pera — di conversioni o illuminazioni o ravvedimenti». Sono queste «tutte cose importanti, delicate e rispettabili ma che attengono alla sfera della coscienza personale». «Si tratta di coltivare una fede (altra espressione appropriata non c'è) in valori e principi che caratterizzano la nostra civiltà, e di riaffermare i capisaldi di una tradizione della quale siamo figli». E ancora: «I grandi Padri del liberalismo classico, questo problema lo avevano chiaro (...). Oggi che è diventato anticristiano, il liberalismo è senza fondamenti e le sue libertà sono appese nel vuoto». Si potrebbe dire che le «equazioni laiche» di Pera — ordinario di Filosofia della scienza a Pisa, studioso di Karl Popper, già coautore insieme all'allora cardinale Ratzinger del bestseller Senza radici — a livello della «ragion pratica» o della phronesis aristotelica, fanno il paio con quello che sul piano della metafisica è il teorema di Gödel, che dimostra matematicamente la necessità dell'esistenza di Dio.

Da una parte: «Dio esiste necessariamente, come volevasi dimostrare ». Dall'altra: «Per ciò e per concludere, dobbiamo dirci cristiani». Pera scrive: «Liberalismo e cristianesimo sono congeneri. Togliete al primo la fede del secondo, e anch'esso scomparirà». Il liberale è «cristiano per cultura». Per lui il «dono di Dio» è solo «un patrimonio di virtù, costumi, civiltà: la nostra». Differente dal «cristiano per fede» in Gesù Cristo, personalmente incontrato, seguito, amato. Ma essere solo «cristiano per cultura», giunti ormai alla fine del primo decennio del XXI secolo, non basta nemmeno più, secondo Pera: «Colui che si limita o si sente limitato, a sentirsi cristiano per cultura» non deve negarsi alla possibilità anche di credere in Cristo. «È necessario che la ricchezza dell'esperienza umana non sia amputata della presenza nella nostra vita del senso del divino, del sacro, del mistero, dell'infinito». Naturalmente questo è «un appello, motivato e drammatico, non ancora (se mai lo sarà) una soluzione teoreticamente già disponibile». Sono ragionamenti che hanno delle conseguenze «politiche» che faranno molto discutere. Pera, ad esempio, confuta quelli che negli ultimi anni sono diventati dei veri e propri tabù del dibattito pubblico italiano e internazionale. E cioè che possa esistere il cosiddetto «dialogo interreligioso». In questo, lo stesso Benedetto XVI, nella lettera che introduce al volume (un evento eccezionale, se non unico) e che qui pubblichiamo integralmente, gli dà apertamente ragione. Si deve piuttosto parlare di «dialogo tra culture ».

Allo stesso modo Pera dimostra la contraddittorietà intrinseca del concetto di «multiculturalità». Affinché quello che la ragione riconosce come necessario possa accadere nella vita di ciascuno e nella storia di nazioni e popoli, ci vuole una decisione. «Alla fine, sta a noi scegliere. (...) La scelta cristiana, di darsi a Dio (credente in Cristo, ndr) o di agire velut si Christus daretur (cristiano per cultura, ndr) ha prodotto i migliori risultati. Quella scelta ha grandi vantaggi, anche nel campo dell'etica pubblica. (...) Non separeremo la moralità dalla verità, non confonderemo l'autonomia morale con la libera scelta individuale, non tratteremo gli individui, nascenti o morenti, come cose, non acconsentiremo a tutti i desideri di trasformarsi in diritti, non confineremo la ragione nei soli limiti della scienza, non ci sentiremo più soli in una società di estranei o più oppressi in uno Stato che si appropria di noi perché noi non sappiamo più orientarci da soli». Ma una simile decisione, nessuno può nasconderselo, può essere generata solo dall'incontro con un fatto che susciti una fiducia e un'attesa.

Di Ratzinger, «Papa della speranza cristiana», Pera scrive: «Posso solo dire che, nonostante tutte le mie sollecitazioni interiori, questo lavoro non ci sarebbe stato se Benedetto XVI non avesse scritto e parlato e non testimoniasse ciò di cui scrive e parla». Un fatto, insomma, che mantenga «aperta» la ragione a quella possibilità che tutto (il relativismo, l'aggressività del fondamentalismo religioso, la reificazione dell'uomo) «invoca » come necessaria.

Solo la speranza, di cui scrive Paolo nella Lettera agli Ebrei, colma lo iato tra la condizione percepita dalla ragione come necessaria e la realtà. È per questo che Charles Péguy, nel Portico del Mistero della seconda virtù, fa dire a Dio: «La fede che più amo è la speranza».

(© Copyright Corriere della sera, 23 novembre 2008)


Commenti leader ebrei e musulmani                                              torna su

Espressione, quella dell'impossibilità di un dialogo interreligioso, che viene accolta positivamente dalla comunità ebraica romana.

"Credo che bisogna essere molto grati al Papa per questa precisazione e per la giusta chiarezza", dice ad Apcom il rabbino Riccardo Di Segni, a capo della Comunità ebraica di Roma, commentando la lettera che Benedetto XVI ha scritto al senatore Marcello Pera, come prefazione al suo libro 'Perché dobbiamo dirci cristiani', in cui sostiene che "un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo".

Da parte sua, l'Ucoii (Unione delle Comunità e organizzazioni islamiche in Italia), sottolinea come "occorre precisare cosa il Papa intende dire con dialogo interreligioso in senso stretto. "Il dialogo fra credenti esiste - dice Izzeddin Elzir, portavoce dell'Ucoii - certamente non dialoghiamo sulle nostre fedi, perché ognuno crede in ciò che crede, ma dialoghiamo su come possiamo convivere insieme, ciascuno nelle proprie diversità".
(© Copyright Apcom)


Lettera aperta a Benedetto XVI                                                   
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di Magdi Allam

A Sua Santità il Papa Benedetto XVI,

Mi rivolgo direttamente a Lei, Vicario di Cristo e Capo della Chiesa Cattolica, con deferenza da sincero credente nella fede in Gesù e da strenuo protagonista, testimone e costruttore della Civiltà cristiana, per manifestarLe la mia massima preoccupazione per la grave deriva religiosa ed etica che si è infiltrata e diffusa in seno alla Chiesa. Al punto che mentre al vertice della Chiesa taluni alti prelati e persino dei suoi stretti collaboratori sostengono apertamente e pubblicamente la legittimità dell’islam quale religione e accreditano Maometto come un profeta, alla base della Chiesa altri sacerdoti e parroci trasformano le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e da raduno degli integralisti ed estremisti islamici che perseguono lucidamente e indefessamente la strategia di conquista del territorio e delle menti di un Occidente cristiano che, come Lei stesso l’ha definito, “odia se stesso”, ideologicamente ammalato di nichilismo, materialismo, consumismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo, laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo, indifferentismo, multiculturalismo.

Si tratta di una guerra di conquista islamica che ha trasformato l’Occidente cristiano in una roccaforte dell’estremismo islamico al punto da “produrre” terroristi suicidi islamici con cittadinanza occidentale, dove la minaccia più seria non è tanto quella degli efferati tagliatori di teste che impugnano le armi, quanto quella dei subdoli tagliatori di lingue che hanno eretto la dissimulazione a precetto di fede islamica, dando vita a uno stato islamico in seno allo stato di diritto, basato su un’ampia rete di moschee e di scuole coraniche dove si predica l’odio, si inculca la fede nel cosiddetto “martirio” islamico, si pratica il lavaggio di cervello per trasformare le persone in combattenti della guerra santa islamica; di enti caritatevoli e assistenziali islamici che in cambio di aiuti materiali plagiano e sottomettono le menti; di banche islamiche che controllano fette sempre più ampie della finanza e dell’economia mondiale accreditando il diritto islamico; di veri e propri tribunali islamici che in Gran Bretagna sono già riusciti a imporre la sharia, la legge islamica, equiparata al diritto civile su questioni attinenti allo statuto personale e familiare, anche se assumono delle sentenze che violano i diritti fondamentali dell’uomo, quale la legittimazione della poligamia e la discriminazione della donna. Questi sono fatti: ci si creda o meno, piacciano o meno, ma sono fatti reali, oggettivi, innegabili.

Questa conquista islamica delle menti e del territorio si è resa possibile per l’estrema fragilità interiore dell’Occidente cristiano: sono due facce della stessa medaglia. Il nostro Occidente emerge sempre più come un colosso di materialità dai piedi d’argilla perché senz’anima, in profonda crisi di valori, che tradisce la propria identità non volendo riconoscere la verità storica ed oggettiva delle radici giudaico-cristiane della propria civiltà. E’ un Occidente ideologicamente e concretamente colluso con l’avanguardia dell’esercito di conquista islamico che mira a riesumare il mito e l’utopia della “Umma”, la Nazione islamica, invocando il Corano che legittima l’odio, la violenza e la morte, ed evocando il pensiero e l’azione di Maometto che ha dato l’esempio commettendo efferati crimini, come quello che lo vide personalmente partecipe della strage e della decapitazione di oltre 700 ebrei della tribù dei Banu Quraizah nel 627 alle porte di Medina.

Ebbene, Sua Santità, come non ci si può rendere conto che la disponibilità, o peggio ancora la collusione con l’islam come religione, che a dispetto delle apparenze mette a repentaglio l’amore cristiano per i musulmani come persone, culmina nel rinnegare la fede nel Dio che si è fatto Uomo e nel cristianesimo che è testimonianza di Verità, Vita, Amore, Libertà e Pace? Ecco perché oggi è vitale per il bene comune della Chiesa cattolica, per l’interesse generale della Cristianità e della stessa Civiltà occidentale che Lei si pronunci in modo chiaro e vincolante per l’insieme dei fedeli sul quesito di fondo alla base di questa deleteria deriva religiosa ed etica che sta screditando la Chiesa, scardinando le certezze valoriali e identitarie dell’Occidente cristiano, trascinando al suicidio della nostra civiltà: è concepibile che la Chiesa legittimi sostanzialmente l’islam come religione spingendosi fino al punto da considerare Maometto come un profeta?

Sua Santità, mi limiterò a indicarLe due recenti episodi di cui sono stato testimone. Mercoledì scorso, 15 ottobre 2008, l’arcivescovo di Brindisi, monsignor Rocco Talucci, mi ha fatto l’onore prima di accogliermi nella sede della Curia Arcivescovile verso le 17 e, mezz’ora dopo, di partecipare alla presentazione dell’autobiografia della mia conversione dall’islam al cattolicesimo “Grazie Gesù” nella Sala della Camera di Commercio di Brindisi. Ad organizzare il tutto è stata la mia cara amica Mimma Piliego, medico di base, volontaria presso il Seminario Papa Benedetto XVI e la Comunità Emmanuel, dedita al recupero dei tossicodipendenti. L’ho citata in “Grazie Gesù” come una delle testimoni di fede che mi hanno affascinato per la sua spiritualità.

L’arcivescovo mi è subito parso un fine diplomatico, attento a valutare sempre i pro e i contro di ogni situazione, cercando di accontentare tutti e di non irritare nessuno. Non è esattamente il tipo di Pastore della Chiesa o più semplicemente di persona che prediligo, anche se mi sforzo di immedesimarmi nella condizione altrui per comprendere le ragioni profonde di chi trasforma l’equilibrismo esistenziale in prassi quotidiana, finendo per condizionare e determinare la stessa scelta di vita. Senonché la mia disponibilità alla comprensione delle ragioni altrui è venuta meno quando, intervenendo dopo la mia presentazione del libro, l’arcivescovo Talucci ha qualificato Maometto come “un profeta” e ha sostanzialmente legittimato l’islam come religione in quanto “espressione dell’aspirazione dell’uomo ad elevarsi a Dio”. Non è assolutamente mia intenzione sollevare un caso personale nei confronti dell’arcivescovo Talucci. Perché non è affatto un caso isolato. Magari fosse così! Purtroppo è un atteggiamento diffuso in seno alla Chiesa cattolica odierna.

Il secondo episodio concerne il cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Intervenendo al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini il 25 agosto 2008, nel corso di una conferenza stampa che ha preceduto l’incontro pubblico dal titolo “Le condizioni della pace”, ha ripetuto la tesi da lui già sostenuta in passato, secondo cui le religioni sarebbero di per sé “fattori di pace”, ma che farebbero paura a causa di “alcuni credenti” che hanno “tradito la loro fede”, mentre in realtà tutte le fedi sarebbero “portatrici di un messaggio di pace e fraternità”.

La tesi del cardinale Tauran è che le religioni sarebbero intrinsecamente buone e che quindi lo sarebbe anche l’islam. Ne consegue che se oggi l’estremismo e il terrorismo islamico sono diventati la principale emergenza per la sicurezza e stabilità internazionale, ciò si dovrebbe imputare a una minoranza “cattiva” che interpreterebbe in modo distorto il “vero islam”, mentre la maggioranza dei musulmani sarebbe “buona” nel senso di rispettosa dei diritti fondamentali e dei valori non negoziabili che sono alla base della comune civiltà dell’uomo.

La realtà oggettiva, lo dico con serenità e animato da un intento costruttivo, è esattamente il contrario di ciò che immagina il cardinale Tauran. L’estremismo e il terrorismo islamico sono il frutto maturo di chi, a partire dalla sconfitta degli eserciti arabi nella guerra contro Israele del 5 giugno 1967 che ha segnato il tramonto dell’ideologia laica, socialista e guerrafondaia del panarabismo, innalzando il vessillo del panislamismo ha voluto essere sempre più aderente al dettame del Corano e al pensiero e all’azione di Maometto. La verità, dunque, è che l’estremismo e il terrorismo islamico corrispondono genuinamente al “vero islam” che è un tutt’uno con il Corano che a sua volta è considerato un tutt’uno con Allah, opera increata al pari di Dio, così come corrispondono al pensiero e all’azione di Maometto.

Alla radice del male non vi è dunque una minoranza di uomini “cattivi”, responsabili del degrado generale, mentre le religioni sarebbero tutte ugualmente “buone”. La verità è che le religioni sono diverse, mentre gli uomini – al di là della fede e della cultura di riferimento - potrebbero essere accomunati dal rispetto di regole e di valori comuni. La verità è che il cristianesimo e l’islam sono totalmente differenti: il Dio che si è fatto uomo incarnato in Gesù, che ha condiviso la vita, la verità, l’amore e la libertà con altri uomini fino al sacrificio della propria vita, non ha nulla in comune con Allah che si è fatto testo incartato nel Corano, che s’impone sugli uomini in modo arbitrario, che ha legittimato un’ideologia e una prassi di odio, violenza e morte perseguita da Maometto e dai suoi seguaci per diffondere l’islam.

La verità, lo dico sulla base dell’oggettività della realtà manifesta e della consapevolezza legata all’esperienza diretta, è che non esiste un “islam moderato”, così come invece ha sostenuto lo stesso cardinale Tauran, mentre certamente ci sono dei “musulmani moderati”. Sono tutti quei musulmani che, al pari di qualsiasi altra persona, rispettano i diritti fondamentali dell’uomo e quei valori che non sono negoziabili in quanto sostanziano l’essenza della nostra umanità: la sacralità della vita, la dignità della persona, la libertà di scelta.

L’amara verità è che quella parte della Chiesa ammalata di relativismo e di islamicamente corretto rischia di diventare più islamica degli stessi islamici. Mi domando se la Chiesa si rende conto dell’arbitrio commesso nell’assumere la tesi del Corano creato anziché increato, al fine di consentire l’interpretazione e la contestualizzazione storica dei versetti, quindi la rappresentazione di un islam dove fede e ragione sarebbero del tutto compatibili, quando storicamente e a tutt’oggi la stragrande maggioranza dei musulmani crede in un Corano increato al pari di Allah, dove i versetti hanno un valore assoluto, universale, eterno, immodificabili? Come può la Chiesa prestarsi al gioco di chi strumentalmente e ideologicamente decontestualizza, scorpora, seleziona arbitrariamente il contenuto e il messaggio coranico, al fine di evidenziare quei versetti che estrapolati da ciò che precede e ciò che segue, consentirebbero di affermare l’esistenza di un “islam moderato”? Come può la Chiesa legittimare sostanzialmente un sedicente “islam moderato”, finendo per accreditare un personaggio abietto e criminale, che non ha avuto alcuna remora a ricorrere a tutti i mezzi, compreso lo sterminio di chi non aderiva all’islam, per sottometterli alla sua mercé?

Mi domando se la Chiesa si rende conto che se non afferma e non si erge a testimone dell’unicità, assolutezza, universalità ed eternità della Verità in Cristo, finisce per rendersi complice nella costruzione di un pantheon mondiale delle religioni, dove tutti ritengono che ciascuna religione sia depositaria di una parte della verità, anche se ciascuna religione si auto-attribuisce il monopolio della verità? Perché stupirsi poi del fatto che il cristianesimo, posto sullo stesso piano di una miriade di fedi e ideologie che danno le risposte più disparate ai bisogni spirituali, cessi di affascinare, persuadere e conquistare la mente e i cuori degli stessi cristiani, che disertano sempre più le chiese, che rifuggono dalla vocazione sacerdotale e più in generale che escludono la dimensione religiosa dalla propria vita?

Per me il cristianesimo non è una religione “migliore” dell’islam, o la religione “completa” dal messaggio “compiuto” rispetto ad un islam considerato come una religione “incompleta” dal messaggio “incompiuto”. Per me il cristianesimo è l’unica religione vera, perché è vero Gesù, il Dio che si fa uomo e che ha testimoniato in mezzo a noi uomini tramite le opere buone la verità, il fascino, la ragionevolezza e la bontà del cristianesimo. Per me l’islam che riconosce un Gesù solo umano, che pertanto condanna il cristianesimo come eresia perché crede nella divinità di Gesù e come idolatria perché crede nel dogma della Santissima Trinità, è una falsa religione, ispirata non da Dio ma dal demonio. Per me l’islam che ottemperando alle prescrizioni coraniche ed emulando le gesta di Maometto corrompe l’animo di chi si sottomette e uccide il corpo di chi si rifiuta, è una religione fisiologicamente violenta e si è rivelata storicamente aggressiva e conflittuale, del tutto incompatibile con i valori fondanti della comune civiltà umana.

Proprio la mia esperienza di “musulmano moderato” che perseguiva il sogno di un “islam moderato”, mi ha fatto comprendere che si può certamente essere “musulmani moderati” come persone ma che non esiste affatto un “islam moderato”. Dobbiamo pertanto distinguere tra la dimensione della persona da quella dalla religione. Con i musulmani moderati, partendo dal rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dalla condivisione dei valori non negoziabili della nostra umanità, si può dialogare e operare per favorire la civile convivenza. Ma dobbiamo affrancarci dall’errore diffuso che immagina che per poter amare i musulmani si debba amare l’islam, che per rapportarsi in modo dignitoso con i musulmani si debba attribuire pari dignità all’islam.

Sua Santità Benedetto XVI, la Chiesa, il Cristianesimo e la Civiltà occidentale oggi stanno soccombendo per l’imperversare della piaga interna del nichilismo e del relativismo di chi ha perso la propria anima, sotto l’incalzare della guerra di conquista di natura aggressiva dell’estremismo e del terrorismo islamico, in aggiunta alla deriva di un mondo che si è globalizzato ispirandosi alla modernità occidentale ma solo nella sua dimensione materialista e consumista, mentre non ha affatto recepito la sua dimensione spirituale e valoriale. Finendo per avvantaggiare coloro che rincorrono una concezione materialista e consumista della vita, scevra da valori e regole, violando i diritti fondamentali dell’uomo, così come è certamente il caso della Cina e dell’India. In questo contesto assai critico e dalla prospettiva buia, Lei oggi rappresenta un faro di Verità e di Libertà per tutti i cristiani e per tutte le persone di buona volontà in Occidente e nel Mondo. Lei è una Benedizione del Cielo che mantiene in piedi la speranza nel riscatto morale e civile della Cristianità e dell’Occidente. Ci ispiriamo a Lei e confidiamo nella sua benedizione per ergerci a Costruttori della Civiltà Cristiana in grado di promuovere un Movimento di riforma etica che realizzi un’Italia, un’Europa, un Occidente e un Mondo di Fede e Ragione. Che Dio l’assista nella missione che Le ha conferito e che Dio ci accompagni nel comune cammino volto all’affermazione della Verità, all’accreditamento del bene comune e alla realizzazione dell’interesse generale dell’umanità.
Magdi Cristiano Allam



Le religioni e il destino del mondo                                              
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di Khaled Fouad Allam

Stiamo da tempo vivendo una crisi globale e proprio per questo la riflessione sul dialogo tra islam e cristianesimo merita di essere riproposta sotto una nuova angolazione. Le relazioni tra queste due grandi religioni sono ovviamente antiche, non solo per la prossimità geografica ma per la storia delle due tradizioni spirituali. Da decenni – per molti aspetti, dal concilio Vaticano II – i rapporti tra musulmani e cristiani coinvolgono diverse dimensioni, tra le quali il confronto sul piano religioso, anche se spesso non si riesce ad approfondirlo e a evidenziarne luci e ombre, con il risultato che non di rado emerge la nostra incapacità a pensare oltre.

Proprio per questa crisi generalizzata bisogna pensare il dialogo tra cristianesimo e islam nella sua dimensione filosofica, vale a dire nella ricerca e nell’analisi di ciò che potrebbe aiutarci a individuare i pericoli di questa crisi e come superarla. È sempre nell’esperienza del dolore, del male e della sofferenza che gli esseri umani sono chiamati alle proprie responsabilità dinanzi alla storia e all’eternità. Le catastrofi degli ultimi vent’anni, la radicalizzazione delle coscienze, l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, il ritorno dell’intolleranza nei confronti di alcune fedi, sono il segnale di un male che la nostra umanità sta vivendo.

Ma è proprio l’esperienza della sofferenza, individuale o collettiva, che rende possibile l’incontro con l’altro, anche se la sofferenza permane comunque intatta, e ineludibile. Non è dunque un caso che, di nuovo, nella ricerca di un nuovo ordine internazionale e di una convivenza pacifica fra popoli e culture, la nozione stessa di dialogo investa, com’è ovvio, terreni non inclusi in quelli delle tradizionali questioni religiose.

Abbiamo difficoltà a entrare nel XXI secolo perché il XX secolo pesa ancora troppo; e se alcuni lo definiscono come il “secolo della storia”, è semplicemente perché ha occultato il rapporto complesso fra storia ed eternità. Un inedito conflitto fra il desiderio di eternità e il vivere nella storia ha prodotto l’odierno oblio della sostanza delle cose; l’uso della parola “modernità” è significativo di tutto ciò, perché la modernità ci ha permesso di scordare che tutto è provvisorio su questa terra, e che qui siamo ospiti.

Viviamo ancor oggi nell’ambiguità di questo rapporto: i nostri comportamenti ne sono impregnati, al punto che spesso nelle religioni – ad esempio nel caso dell’islam – la storia si impadronisce dell’eternità, ad opera degli uomini meno adatti al dialogo. È ciò che avviene nel radicalismo islamico, che in alcune situazioni cerca di imporre il tragico ordine della tirannia.

L'affrontare grandi questioni come la libertà di religione – un problema importante nel mondo islamico – rivisitando il rapporto fra storia ed eternità finirà per incidere sul dialogo tra musulmani e cristiani e tra islam e mondo. Il divorzio fra storia ed eternità si è tradotto nel senso di oblio – oblio dell’eternità, della continuità, della nostra provvisorietà – ed è in tale oblio che si sono fatte le guerre e le rivoluzioni, è in esso che sono nati i totalitarismi. Ma l’oblio ha intaccato anche le grandi questioni relative al destino dell’uomo, alle manipolazioni genetiche e alla bioetica, questioni angoscianti perché interrogano non solo l’individuo ma l’umanità intera.

Come ristabilire questo rapporto, come definire una reale complementarità fra il nostro vivere nella storia e il nostro desiderio di eternità? Ogni rivelazione si definisce come una redenzione, ma ognuna è anche un modello da riformulare volta per volta, perché una reale temporalità, un vero attraversamento del Mar Rosso come fece Mosè con il popolo ebraico, ha senso solo se si congiungono i due punti cardinali, storia ed eternità.

È anche così che si può vedere l’odierna questione del dialogo delle civiltà: un ipotetico nuovo ordine internazionale non può che passare attraverso due paradigmi, che andranno definiti nei contenuti: il primo è la democrazia, il secondo è il dialogo fra popoli, culture e religioni. Le due questioni sono intimamente legate, e il loro sviluppo sarà di primaria importanza per uscire dalle turbolenza di questo nuovo secolo.

Mi preme aggiungere che il dialogo non solo è necessario, ha una urgenza sociale e una valenza etica e morale. L’islam non è una categoria astratta, è fatto di persone che hanno speranze e sofferenze, che vivono anche nel cuore delle città d’Europa, che desiderano integrarsi, anch’esse protagoniste di un’Europa che ritorni alle sue radici, aperte agli altri continenti. In un mondo attraversato da frontiere simboliche e culturali, è forse giunto il tempo che l’universalismo rappresenti l’antidoto all’odierna visione pessimistica del mondo, pessimismo che rende l’uomo muto di fronte all’umanità.

Ma la geometria variabile del dialogo può assolvere anche un’altra funzione: liberare l’islam dal monopolio della teologia neofondamentalista, che occulta la simmetria del rapporto fra storia ed eternità, che tende a considerare la storia come eternità e l’eternità come storia, con l’effetto che l’islam si svuota della sua dimensione spirituale e impoverisce la sua stessa cultura. Di ciò i musulmani si devono rendere conto. Il dialogo è in qualche modo legato a quella "salvezza", anche nella sua versione profana, che dovrà illuminare il buio dei nostri giorni.

© Copyright L'Osservatore Romano del 30 novembre 2008.


Il dialogo secondo Benedetto XVI                                            torna su
di Lucetta Scaraffia

Nella
lettera a Marcello Pera pubblicata nel suo libro Perché dobbiamo dirci cristiani, Benedetto XVI ha scritto che è necessario un "dialogo interculturale che approfondisca le conseguenze culturali delle idee religiose di base".

Anche se l'affermazione ha provocato molti commenti, non è certo la prima volta che il Papa esprime questa convinzione e cerca di indirizzare in questo senso il dialogo con le altre religioni.

Già in uno dei primi momenti del suo pontificato,
nel messaggio dopo la messa concelebrata con i cardinali il 20 aprile 2005, si è espresso a questo proposito: "Non risparmierò sforzi e dedizione per proseguire il promettente dialogo avviato dai miei venerati Predecessori con le diverse civiltà, perché dalla reciproca comprensione scaturiscano le condizioni di un futuro migliore per tutti".

Questa affermazione, seguita e confermata da diverse altre prese di posizione, ha fatto capire che l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti del dialogo con le altre religioni - fra le quali naturalmente spicca l'Islam - avrebbe preso un tono diverso. Si sarebbe passati cioè da un clima di scambio più teorico a un confronto concreto fra le civiltà che erano frutto delle diverse tradizioni religiose.

La
dichiarazione Dominus Iesus, infatti, ha chiarito in modo irrevocabile che il dialogo interreligioso doveva prendere le distanze da un percorso che poteva portare verso "il relativismo delle religioni", pericolo che si correva realmente in un clima divenuto - come il cardinale Joseph Ratzinger aveva sottolineato in un'intervista al quotidiano italiano "la Repubblica" pubblicata il 16 gennaio 2005 - "una sorta di anarchismo morale e intellettuale" che "porta a non accettare più una verità unica. Il dialogo interreligioso non deve diventare un movimento nel vuoto".

Infatti, se il confronto avviene su temi teologici come la natura di Dio e le vie della salvezza, è quasi impossibile non scivolare, da una parte, sul piano della sterile contrapposizione o, dall'altra nell'eccesso opposto, cioè quello di considerare come ugualmente vere tutte le religioni.

La dichiarazione Dominus Iesus si proponeva di fare chiarezza non solo - e questo è stato l'unico aspetto preso in considerazione dai commentatori - rispetto ad alcune linee che si stavano manifestando all'interno del processo di dialogo interreligioso dal punto di vista teorico (e cioè di fronte a nuove aperture da parte di teologi cattolici), ma anche nei confronti di un processo concreto di pratica interreligiosa che è in atto negli organismi mondiali. Intorno alle Nazioni Unite si stavano infatti formando, sotto la veste di variegati movimenti interreligiosi, dei gruppi internazionali ben finanziati che si proponevano di cancellare le religioni tradizionali per sostituirle con una religione mondiale, unica per tutti, che avrebbe garantito la pace nel mondo. In un clima sempre meno interessato alla libertà religiosa - e che proprio per questo mette tutte le religioni sullo stesso piano, siano esse tolleranti o intolleranti, confondendo volutamente il proselitismo con la violenza - nei documenti ufficiali dell'Onu è stato infatti ribadito più volte che chi considera vera la propria religione a discapito delle altre è colpevole di fanatismo, e ricade quindi in quello che viene considerato "odio religioso", anche se il suo atteggiamento non contempla il ricorso alla discriminazione e alla violenza. E oggi esiste una rete mondiale, formata da una quindicina di organizzazioni internazionali che si qualificano come interreligiose, che ha già organizzato grandi incontri.

Proprio di fronte a questa realtà, di cui spesso i gruppi cattolici dediti al dialogo interreligioso non si rendono conto, si è imposta la necessità di porre dei punti fermi, cioè l'unicità e l'universalità della salvezza costituita da Cristo nella storia dell'umanità, e di conseguenza la necessità della Chiesa come mediatrice assoluta di questa.

In sostanza, la Dominus Iesus ha chiarito i termini teologici entro i quali può spingersi il dialogo con le altre religioni, termini che senza dubbio sono poco flessibili. Ma Benedetto XVI ha chiarito che il dialogo, invece, può e deve avvenire fra le culture che di queste religioni sono frutto. Questo centrare il dialogo su temi culturali permette del resto di affrontare nodi centrali, come la dignità dell'essere umano, il rispetto della donna e la libertà religiosa, temi che il dialogo teologico, o la prassi di riunioni di preghiera non affrontavano.

Il primo incontro di Benedetto XVI con esponenti di altre religioni
è avvenuto a Colonia, all'inizio del quinto mese di pontificato, nel corso della ventesima Giornata mondiale della gioventù. Particolarmente significativo è stato quello con la rappresentanza dei musulmani - con i quali il dialogo si è attenuto strettamente ai temi "culturali" - il 20 agosto 2005. Il gesuita Samir Khalil Samir ha commentato le sue parole sottolineando come il pensiero del Papa sia rivelatore di una linea forte: "Il dialogo con l'islam e con le altre religioni non può essere essenzialmente un dialogo teologico o religioso, se non in senso largo di valori morali. Esso deve essere un dialogo di culture e di civiltà".

Perché - scrive ancora lo studioso gesuita - "si tratta di affrontare il vivere insieme sotto gli aspetti concreti della politica, dell'economia, della storia, della cultura, delle usanze". Benedetto XVI propone cioè, se vogliamo trovare una base comune, di "uscire dal dialogo religioso per mettere fondamenti umanistici alla base di questo dialogo, perché solo questi sono universali e comuni a tutti gli esseri umani".

Il fatto di spostare il confronto dalla sfera religiosa a quella culturale ha permesso a Benedetto XVI non solo di affrontare temi centrali come la dignità dell'essere umano e la libertà religiosa, ma anche di prendere le distanze da alcuni aspetti della modernità occidentale contrari alla tradizione cattolica. Questo avviene soprattutto per un nodo centrale nel rapporto fra l'Occidente e le altre culture: il ruolo della donna e di conseguenza l'etica sessuale e familiare. A questo proposito il Papa, pur difendendo con forza la dignità e l'uguaglianza della donna, ha preso le distanze da un processo di emancipazione femminile occidentale centrato sulla separazione fra sessualità e riproduzione, cioè sulla presa di distanza delle donne dal loro ruolo biologico di madri.

Benedetto XVI ha infatti denunciato più volte la crisi morale in cui versa la civiltà occidentale, individuando già nel libro Il sale della terra in essa la principale ragione del conflitto in atto con i musulmani: "Poi è sopravvenuta la grande crisi morale del mondo occidentale, che poi è il mondo cristiano. Di fronte alle profonde contraddizioni dell'Occidente e alla sua confusione interiore - di fronte alla quale contemporaneamente si sviluppava una nuova potenza economica dei paesi arabi - si è risvegliata l'anima islamica: siamo noi che abbiamo una identità migliore, la nostra religione resiste, voi non ne avete più nessuna. Così i musulmani hanno oggi la consapevolezza che l'islam, alla fine, è davvero rimasto sulla scena come la religione più vitale, che essi hanno da dire al mondo qualcosa e che sono dunque la vera forza religiosa del futuro". Tanto da dire esplicitamente che l'Europa "è arrivata ad odiare se stessa".

E non c'è dubbio che il cardinale Ratzinger ha individuato una delle ragioni centrali di questa decadenza nella separazione fra sessualità e procreazione che è diventato un "diritto" imprescindibile. Rispetto a questa tendenza dei diritti tipica di una certa cultura progressista occidentale il Papa ha preso nettamente le distanze, e in questo modo ha aperto una possibilità di confronto positivo con le altre culture che - legate alla realtà naturale e a una etica familiare pure spesso diversa da quella cristiana - vedono però con preoccupazione questo processo in atto nei paesi occidentali.

In Occidente, infatti, si è cercato di togliere dal matrimonio tutto ciò che costituiva rinuncia e sacrificio, quanto sembrava incompatibile con il progetto di realizzazione individuale, e lo si è distrutto, o almeno lo si è svuotato del suo vero significato.

In questo contesto, con la sua prima enciclica Deus caritas est Benedetto XVI ricorda con forza la ricchezza del matrimonio cristiano sia alla secolarizzata cultura occidentale sia alle altre culture: ancora una volta, cioè, un tema teologico come l'amore e il matrimonio possono essere ricondotti a un dialogo culturale, a un confronto non ideologico ma legato alla realtà di vita degli esseri umani, a quella realtà di vita quotidiana dove si sperimentano le convivenze possibili fra tradizioni culturali diverse.

Quindi, proprio lo spostamento del dialogo dal terreno teorico a quello delle più concrete forme di civiltà permette di affrontare davvero i problemi principali invece di creare apparenti ma falsi piani di collaborazione. E di far risaltare le differenze fra la tradizione culturale che nasce dal cattolicesimo e la deriva secolarizzata della cultura occidentale.


(©L'Osservatore Romano - 5 dicembre 2008)


Nota di InternEtica                                                                              torna su

Viene spontaneo esprimere qualche perplessità: se è bene che parlino i leader religiosi, le sfide della convivenza coinvolgono direttamente i cittadini e la politica, sulla quale i leader religiosi influiscono in maniera cogente solo nei paesi islamici che sono teocratici, ammesso che la galassia islam si lasci coinvolgere tutta dal dialogo...

Poiché dunque i problemi sul tappeto e le loro soluzioni riguardano maggiormente, nella prassi comune da perseguire, i cittadini e i politici di buona volontà, ad essi spetta il dialogo in primis.

Secondo la sua Missione la Chiesa, più che sforzarsi di dialogare, deve preoccuparsi di rendere il vero culto a Dio e custodire e diffondere le Verità di Fede... è solo da qui che scaturiscono le virtù, che riguardano la conversione e la trasformazione dei singoli e la conseguente possibile rinascita culturale e sociale. Perché la condivisione di sani valori rimane un dato esteriore che è sempre meglio di niente ma non ha in sé la vis trasformante dell'esercizio delle virtù teologali... certo nella loro pienezza esse sono un punto di arrivo; ma una volta che un credente porta nelle sue relazioni una Fede viva, c'è già un inizio del Regno di Dio in cammino... e solo su questo si può pensare di costruire qualcosa di valido.

Appare invece difficile che un liberismo selvaggio come quello che stiamo vivendo - che per essere quello che è ha già estromesso Dio, mettendo al centro l'uomo, come del resto ha fatto il comunismo - faccia del Signore Nostro Gesù Cristo e soprattutto della Sua Divinità e della Sua Regalità il vero fondamento... e diventa rischioso, in mancanza di una autentica Signoria di Cristo, quello che ne può venir fuori. Potrebbe addirittura darsi la strumentalizzazione del Cristianesimo come 'religione civile'!

In questo senso il 'dialogo delle culture' propugnato dal Papa appare realistico e finalmente può consentire alla Chiesa di uscire dalle ambiguità di un falso ecumenismo e di un dialogo interreligioso privo di ricadute nella realtà, foriero piuttosto di indebite intromissioni nelle questioni ecclesiali, e di riprendere l'Annuncio...

È sintomatico che Fouad Allam dica: "Il dialogo è in qualche modo legato a quella "salvezza", anche nella sua versione profana, che dovrà illuminare il buio dei nostri giorni". Sembra sia in qualche modo necessario 'accontentarsi' di una "salvezza in versione profana"; ma è vera salvezza? Torna sempre il discorso su Chi è - e non su cosa - il Fondamento su cui si vuole costruire...
 

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