Dall’argilla di Dio
					Gilles Bernheim - Gran Rabbino di Francia
					
					
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La complementarietà uomo-donna è un principio strutturante nell’ebraismo, in 
altre religioni, nelle correnti di pensiero non religiose, nell’organizzazione 
della società, come pure nell’opinione di una vastissima maggioranza della 
popolazione. Questo principio, per me, trova il proprio fondamento nella Bibbia. 
Per altri, può trovare il proprio fondamento altrove.
Mi concentrerò qui sulla visione biblica, che non esclude altre visioni. «Dio 
creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li 
creò» (Gn 1, 27). Il racconto biblico fonda la differenza sessuale sull’atto 
creatore. La polarità maschile-femminile attraversa tutto ciò che esiste, 
dall’argilla a Dio. Fa parte del dato primordiale che orienta la vocazione 
rispettiva — l’essere e l’agire — dell’uomo e della donna. La dualità dei sessi 
appartiene alla costituzione antropologica dell’umanità.
Così, ogni persona è portata, prima o poi, a riconoscere che possiede solo 
una delle due varianti fondamentali dell’umanità e che l’altra le sarà per 
sempre inaccessibile. La differenza sessuale è quindi un segno della nostra 
finitezza. Io non sono tutto l’umano. Un essere sessuato non è la totalità della 
sua specie, ha bisogno di un essere dell’altro sesso per produrre il suo simile.
La Genesi vede la somiglianza dell’essere umano con Dio solo nell’unione 
dell’uomo e della donna (1, 27) e non in ognuno di essi preso separatamente. Ciò 
suggerisce che la definizione dell’essere umano è percettibile solo nella 
congiunzione dei due sessi. Di fatto ogni persona, a motivo della sua identità 
sessuale, viene rinviata al di là di se stessa. Dal momento in cui prende 
coscienza della propria identità sessuale, ogni persona umana si vede così messa 
a confronto con una sorta di trascendenza. È obbligata a pensare al di là di se 
stessa e a riconoscere come tale un altro essere inaccessibile, essenzialmente 
simile a lei, desiderabile e mai totalmente comprensibile.
L’esperienza della differenza sessuale diventa così il modello di ogni 
esperienza della trascendenza che designa un rapporto indissolubile con una 
realtà assolutamente inaccessibile. Su questa base si può comprendere perché la 
Bibbia utilizzi volentieri la relazione tra l’uomo e la donna come metafora del 
rapporto tra Dio e l’uomo; non perché Dio è maschile e l’uomo femminile, ma 
perché la dualità sessuale dell’uomo è ciò che esprime più chiaramente 
un’alterità insormontabile anche nel rapporto più stretto.
È importante che nella Bibbia la differenza sessuale sia enunciata subito 
dopo l’affermazione del fatto che l’uomo è a immagine di Dio. Ciò significa che 
la differenza sessuale s’iscrive in questa immagine ed è benedetta da Dio.
La differenza sessuale va dunque interpretata come un fatto naturale, 
permeato d’intenzioni spirituali. Ne è prova il fatto che nella creazione in 
sette giorni gli animali non sono presentati come sessuati. A caratterizzarli 
non è la differenza dei sessi, ma la differenza degli ordini e, all’interno di 
ogni ordine, la differenza delle specie: ci sono i pesci del mare, gli uccelli 
del cielo, le bestie della terra, tutti gli esseri viventi sono generati, come 
un ritornello, «secondo la loro specie» (Gn 1, 21).
In questo racconto la sessuazione è menzionata solo per l’uomo poiché è 
proprio nel rapporto d’amore, che include l’atto sessuale mediante il quale 
l’uomo e la donna diventano «una sola carne», che tutti e due realizzano il 
proprio obiettivo: essere a immagine di Dio.
Il sesso non è dunque un attributo casuale della persona. La genitalità è 
l’espressione somatica di una sessualità che riguarda tutto l’essere della 
persona: corpo, anima e mente. È proprio perché l’uomo e la donna si 
percepiscono diversi in tutto il loro essere sessuato, pur essendo entrambi 
persone, che ci possono essere complementarietà e comunione.
«Maschile» e «femminile», «maschio» e «femmina» sono termini relazionali. Il 
maschile è tale solo nella misura in cui è rivolto verso il femminile e, 
attraverso la donna, verso il figlio; in ogni caso verso una paternità, sia essa 
carnale o spirituale. Il femminile è tale solo nella misura in cui è rivolto 
verso il maschile e, attraverso l’uomo, verso il figlio; in ogni caso verso una 
maternità, sia essa carnale o spirituale.
Il secondo racconto della creazione approfondisce questo insegnamento 
presentando l’atto della creazione della donna sotto forma di un’operazione 
chirurgica mediante la quale Dio toglie dal più intimo di Adamo quella che 
diventerà la sua compagna (Gn 2, 22). Da quel momento né l’uomo né la donna 
saranno il tutto dell’umano, e nessuno dei due saprà tutto dell’umano.
Viene qui espressa una duplice finitezza:
— Io non sono tutto, non sono neppure tutto l’umano.
— Io non so tutto sull’umano: l’altro sesso resta per me sempre parzialmente 
inconoscibile.
Ciò conduce all’irrealizzabile autosufficienza dell’uomo. Questo limite non è 
una privazione, ma un dono che consente la scoperta dell’amore che nasce dalla 
meraviglia dinanzi alla differenza.
Il desiderio fa sì che l’uomo scopra l’alterità sessuata in seno alla stessa 
natura: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2, 
23) e l’apertura a questo altro gli consente di scoprirsi nella sua differenza 
complementare: «lei si chiamerà Isha perché è presa da Ish» (cfr. Ibidem).
«L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due 
saranno una sola carne» (Gn 2, 24). In ebraico «una sola carne» rimanda al 
«Solo», Ehad, il nome divino per eccellenza, secondo la preghiera dello 
Shema 
Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo –
Adonaï Ehad» (Dt 6, 4).
È nella loro unione insieme carnale e spirituale, resa possibile dalla 
differenza e dall’orientamento sessuale complementare, che l’uomo e la donna 
riproducono, nell’ordine creato, l’immagine del Dio Solo.
A mo’ di contrappunto, il capitolo tre della Genesi presenta il peccato come 
il rifiuto del limite e quindi della differenza: «Dio sa che quando voi ne 
mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il 
bene e il male» (Gn 3, 5).
L’albero della conoscenza del bene e del male — «l’albero del conoscere bene 
e del conoscere male» — simboleggia proprio i due modi di comprendere il limite:
— il «conoscere bene» rispetta l’alterità, accetta di non sapere tutto e 
acconsente a non essere tutto; questo modo di conoscere apre all’amore e quindi 
all’«albero della vita», piantato da Dio «al centro del giardino» (Gn 2, 9);
— il «conoscere male» rifiuta il limite, la differenza; mangia l’altro nella 
speranza di ricostituire in sé il tutto e di acquisire l’onniscienza. Questo 
rifiuto della relazione di alterità conduce alla bramosia, alla violenza e 
infine alla morte.
Non è proprio questo che propone il gender, ovvero il rifiuto dell’alterità, 
della differenza, e la rivendicazione di adottare tutti i comportamenti 
sessuali, indipendentemente dalla sessuazione, primo dono della natura? In altre 
parole, la pretesa di “conoscere” la donna come l’uomo, di diventare il tutto 
dell’umano, di liberarsi da tutti i condizionamenti naturali, e quindi «di 
essere come Dio»?
Io sono tra coloro che pensano che l’essere umano non si costruisca senza 
struttura, senza ordine, senza statuto, senza regole; che l’affermazione della 
libertà non implichi la negazione dei limiti; che l’affermazione 
dell’uguaglianza non comporti il livellamento delle differenze; che la potenza 
della tecnica e dell’immaginazione esiga di non dimenticare mai che l’essere è 
dono, che la vita ci precede sempre e che ha le proprie leggi.
Ho voglia di una società in cui la modernità occupi tutto il suo posto, senza 
che però vengano negati i principi elementari dell’ecologia umana e familiare.
Di una società in cui la diversità dei modi d’essere, di vivere e di 
desiderare sia accettata come una possibilità, senza che tale diversità venga 
però diluita riducendola a un denominatore più piccolo che cancelli ogni 
differenziazione.
Di una società in cui, nonostante i progressi del virtuale e 
dell’intelligenza critica, le parole più semplici — padre, madre, coniugi, 
genitori — conservino il loro significato, allo stesso tempo simbolico e 
incarnato.
Di una società in cui i bambini siano accolti e occupino il loro posto, tutto 
il loro posto, senza però diventare oggetto di possesso a ogni costo o posta in 
gioco del potere.
Ho voglia di una società in cui ciò che accade di straordinario nell’incontro 
tra un uomo e una donna continui a essere istituito, con un nome preciso.