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Il Papa: proteggere i cristiani in Irak. L'auspicio di un'esistenza sicura e pacifica per tutte le minoranze religiose

[Vedi anche: SOS Cristiani d'Oriente,
René Guitton  -  Vescovo di Mosul - in piazza a Bagdad e Mosul]

Esprimendo la sua vicinanza ai cristiani perseguitati dell'Iraq, Benedetto XVI li ha esortati questa domenica a non scoraggiarsi e a continuare a offrire la propria testimonianza nel Paese. Allo stesso modo, ha esortato la comunità internazionale a "prodigarsi per dare agli Iracheni un futuro di riconciliazione e di giustizia", invocando "con fiducia da Dio onnipotente il dono prezioso della pace".
 
Una esistenza sicura e pacifica per tutte le minoranze religiose dell'Irak, non solo quella cristiana, senza permettere che «interessi temporanei» mettano a rischio la vita di nessuno. Lo ha chiesto con fermezza Papa Benedetto XVI all'Angelus in piazza San Pietro, dopo aver già manifestato nei giorni scorsi la sua preoccupazione per gli attacchi contro i cristiani di Mossul, una escalation di violenza che ha condotto due giorni fa il patriarca siro-cattolico di Antiochia, Ignatius Joseph III Younan, a parlare di «cristiani uccisi come pecore». Una situazione che il Papa sta seguendo con particolare apprensione, «profonda tristezza – ha detto ieri mattina – e viva preoccupazione», tanto da violare quattro giorni fa il silenzio che di solito accompagna la settimana di Quaresima dedicata agli esercizi spirituali della Curia romana per far sapere il suo pensiero.

«Non ce la facciamo più», si leggeva ieri mattina su uno striscione in piazza san Pietro esposto da qualche decina di iracheni, in gran parte religiosi ma anche qualche famiglia residente a Roma, giunti per condividere con il pontefice le loro paure e le loro speranze. Bandiere irachene e grandi crocifissi di legno, gli occhi accesi nel raccontare storie di amici, famiglie, conoscenti con la vita sconvolta da una minaccia dal volto incerto. «La situazione è precipitata nel 2003, dopo l'invasione americana – osserva un giovane prete di Baghdad – che ha aperto le frontiere a frange estremiste e violente».

Ed è aumentata negli ultimi giorni con l'approssimarsi delle elezioni del 6 e 7 marzo, per motivi che della religione hanno solo il pretesto. Nel pomeriggio un'altra manifestazione, ben più ampia, con circa mille partecipanti della minoranza cristiana, ha sfilato vicino a Mossul agitando ramoscelli d'ulivo in segno di pace, ed esortando il governo iracheno a porre fine alle uccisioni.
Almeno otto i morti nelle ultime due settimane.

«In questi giorni di intenso raccoglimento ho pregato spesso per tutte le vittime di quegli attentati – ha detto papa Ratzinger dopo l'Angelus sottolineando il suo non far differenza – ed oggi desidero unirmi spiritualmente alla preghiera per la pace e per il ripristino della sicurezza, promossa dal Consiglio dei vescovi di Ninive». Ai cristiani d'Irak raccomanda: «non stancatevi di essere fermento di bene per la patria a cui, da secoli – ha sottolineato ad altre orecchie – appartenete a pieno titolo».

Dal Papa non giungono solo preghiere, ed è chiara la sua consapevolezza delle implicazioni politiche della situazione irachena, uno dei tanti aspetti dei fragili equilibri del Medio Oriente, ai quali il Vaticano dedicherà in autunno un Sinodo speciale.

«Nella delicata fase politica che sta attraversando l'Irak – ha detto il pontefice – mi appello alle autorità civili, perchè compiano ogni sforzo per ridare sicurezza alla popolazione e, in particolare, alle minoranze religiose più vulnerabili». E alla «comunità internazionale», affinché si prodighi nel «dare agli iracheni un futuro di riconciliazione e di giustizia».

Analogo invito era stato rivolto il 2 gennaio scorso, ma si è saputo solo pochi giorni fa, dal segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, in una lettera al primo ministro iracheno, Nouri al Maliki, ricevuto un anno e mezzo fa in Vaticano. Innumerevoli, nel frattempo, gli appelli dei vescovi iracheni per fermare l'eccidio, caduti pressochè nel vuoto. Una indifferenza che delude ma non stupisce i cristiani, perché – rilevava nei giorni scorsi il portavoce vaticano padre Federico Lombardi – anche in Occidente c'è chi vuole «contestare o demolire» la presenza cristiana.


© Copyright Gazzetta del sud, 1° marzo 2010

Sos Cristianofobia
di René Guitton
 

I cristiani d'Oriente sono emigrati o stanno emigrando in massa; sono sempre meno numerosi e in mancanza di meglio sostengono i regimi al potere (ritenendoli preferibili all'avvento di regimi fondamentalisti); in pratica non hanno più alcun ruolo politico nei paesi in cui risiedono. In più, devono fare i conti con un circolo vizioso: sono emarginati in quanto cristiani, e, in quanto emarginati, di loro si parla sempre meno. Il loro isolamento è aggravato dal fatto che le persecuzioni contro i cristiani non sono generalmente menzionate nelle denunce delle violazioni dei diritti umani, per una ragione molto semplice: perlomeno in Occidente i cristiani faticano ad associare al cristianesimo il concetto di minoranza. La difesa dei diritti dell'uomo si è sviluppata a partire dalla lotta per la protezione delle minoranze religiose o etniche un tempo soggette a persecuzioni. Gli ebrei, i neri o i musulmani in Europa e in America rientrano in questo schema. La mobilitazione in loro favore è resa ancora più incisiva dal senso di colpa prodotto dal coinvolgimento delle Chiese cristiane nello sviluppo dell'antisemitismo, nello schiavismo e nel colonialismo (portatore di una visione umiliante per i musulmani). In Occidente prendere le difese dei cristiani equivale a schierarsi dalla parte della maggioranza. 

Il sempre più scristianizzato Occidente fa fatica a concepire che i cristiani possano essere perseguitati in quanto cristiani, perché essere tali, secondo uno slogan semplicistico che si sente ripetere spesso, significa stare dalla parte del dannati senza appello. All'inizio ho ingenuamente ritenuto che la colpa di questa situazione fosse da addebitare all'ignoranza. Ma essa non basta a spiegare tutto, anzi. Combattere l'antisemitismo e il razzismo, battaglie alle quali mi dedico con forza da decenni, non richiede necessariamente una conoscenza approfondita della letteratura rabbinica o della storia dello schiavismo. Non c'è alcun bisogno di avere un'empatia particolare con colui che soffre a causa della propria origine, vittima di una giustizia negata, per aver voglia di prendere le sue difese denunciando a gran voce il silenzio e l'oblio che circondano la sua condizione. Sono in ballo la dignità e i diritti umani. Una delle ragioni del silenzio e dell'oblio che circondano le minoranze cristiane è da ricercare nella loro progressiva emarginazione e nella continua perdita di peso politico e demografico da cui sono afflitte. potere. Occorre combattere la gravissima disinformazione che affligge l'opinione pubblica occidentale a proposito della situazione dei cristiani nel mondo e in particolare nelle regioni dove essi sono minoritari, come nel Maghreb, nell'Africa subsahariana, in Medio Oriente e in Estremo Oriente.

L'esistenza dei cristiani orientali è poco nota. Coloro che non la ignorano ne danno spesso una valutazione troppo riduttiva, che tende a fare delle comunità cristiane d'Oriente una sorta di appendice del cristianesimo occidentale, o la conseguenza dell'espansione coloniale. 

In altre parole, i cristiani d'Oriente non sono considerati autoctoni, ma un elemento importato. Si dimentica che il cristianesimo è nato in Oriente dove si è sviluppato ben prima che l'Europa diventasse quasi completamente cristiana. Secondo il punto di vista occidentale, le persecuzioni a cui sono sottoposti i cristiani in quei luoghi lontani colpirebbero il cristianesimo non in quanto tale, ma nella sua qualità di emanazione dell'Occidente. Inoltre, poiché in Occidente il cristianesimo è maggioritario, non può aspirare allo status di minoranza in Oriente.
Questo ragionamento sortisce l'effetto di negare implicitamente la sofferenza delle minoranze cristiane e di frenare la mobilitazione in loro favore. Al tempo stesso, iniziative a sostegno delle popolazioni cristiane d'Oriente sono scoraggiate, in quanto potenzialmente controproducenti: trasformare i cristiani orientali in «protetti» dell'Occidente potrebbe esporli a rischi ancora più gravi. Tuttavia, questa preoccupazione deve forse esonerarci dall'intervenire, dal momento che proprio noi parliamo di «dovere di ingerenza»? E l'indifferenza non apre forse la via all'oscurantismo? 

Le guerre di religione o i fenomeni religiosi ci sembrano appartenere a una lontana preistoria: da ciò deriva tentala radicale incapacità, da parte dell'Occidente, di affrontare la questione in tutti i suoi aspetti. Per esempio, nella nostra società, la difesa dei cristiani di altre parti del mondo è spesso vista come un tentativo di favorire il ritorno del religioso o di imporre i principi cristiani, che non sono più considerati valori fondamentali; ne consegue che coloro che si preoccupano della sorte delle minoranze cristiane sono guardati con gran sospetto: nella migliore delle ipotesi sono etichettati come ultraconservatori.

Nel silenzio cristiano si deve scorgere altresì l'effetto di una svalutazione implicita e sistematica del cristianesimo, largamente incoraggiata da un laicismo ottuso e aggressivo, che spesso si manifesta nel modo in cui i media trattano le vicende che coinvolgono i cristiani. 

Tra fine novembre e i primi di dicembre del 2008 due avvenimenti legati alle tensioni interreligiose hanno fatto parlare di sé attirando l'interesse dei grandi media internazionali in modo assai diseguale: ci riferiamo al massacro compiuto a Mumbai da un regogruppo di mujaheddin, che hanno ucciso 172 persone e ne hanno ferite circa 300, e alle sommosse anticristiane verificatesi in Nigeria, dove alcuni gruppi musulmani locali hanno attaccato i cristiani, uccidendone più di 300, saccheggiando i loro beni e devastando le loro chiese. Nel 2004 si erano scatenate violenze simili, che avevano lasciato sul terreno i cadaveri di oltre 700 cristiani. I fatti di Mumbai hanno occupato le prime pagine di quotidiani e telegiornali, mentre l'altro episodio è stato appena menzionato, sebbene l'ammontare delle vittime fosse assai più elevato e le distruzioni nettamente più gravi.

Questo trattamento differenziato da parte dell'informazione è emblematico della difficoltà di sensibilizzare l'opinione pubblica, persino la più accorta, riguardo alle persecuzioni che colpiscono i cristiani in numerose regioni del mondo. Si usano due pesi e due misure; se qualcuno protesta, viene accusato di essere a favore della censura, contro la libertà di informazione e di essere un bigotto e un baciapile. Ho avuto occasione di sperimentare personalmente questo disprezzo a Parigi, nell'agosto del 1997, in occasione della Giornata mondiale della gioventù, che aveva riunito giovani giunti da ogni parte del globo. Prima della manifestazione la grande stampa internazionale aveva pressoché ignorato l'evento. Se n'erano occupati soltanto alcuni editorialisti, i quali avevano previsto che quel tentala tivo di «irreggimentare» e «manipolare » la gioventù si sarebbe risolto in un insuccesso. Durante la manifestazione un certo numero di giornalisti si è limitato a sottolineare i gravi disagi al traffico cittadino causati del raduno. Nessuno si interrogava sulle motivazioni che animavano i partecipanti, né sul significato profondo di quel ritorno al religioso. Di fronte a un giornalista che mi intervistava rivolgendomi domande sarcastiche sull'avvenimento, ho abbozzato una provocazione, domandandogli a mia volta quale fosse la sua reazione di fronte al pellegrinaggio islamico canonico alla Mecca (Hajj). Il mio interlocutore mi ha guardato stupito, come se le mie parole facessero di me un emulo degli antichi inquisitori. Ho quindi capito quanto sia difficile perorare la causa dei cristiani che soffrono nel mondo e quanto essere cristiano, agli occhi di molti, rappresenti un'intollerabile mancanza di buon gusto, per non dire un handicap che sarebbe meglio tentare di nascondere. Come si può chiedere all'opinione pubblica di mobilitarsi in favore dei cristiani d'Oriente, d'Africa, del Maghreb, se il cristianesimo è la sola religione sottoposta a una sistematica denigrazione che si prefigge di snaturane lo spirito e il messaggio? La Francia è forse l'unico paese occidentale in cui è buona norma stigmatizzare coloro che si dichiarano credenti, e di conseguenza anche le Chiese ufficiali alle quali li lega la fede.

Questo atteggiamento è evidente ogniqualvolta è tirata in ballo la laïcité, principio legislativo che gode di un consenso quasi unanime e di cui nessuna associazione religiosa ufficialmente costituita chiede l'abolizione. Anche i cristiani d'Oriente si richiamano alla laicità. Inchieste e sondaggi hanno dimostrato che i cattolici francesi, praticanti compresi, erano favorevoli alla legge del 1905, la quale è ormai sul punto di diventare quasi un testo sacro, almeno a giudicare dagli strepiti che provengono da certi ambienti dell'integralismo laicista quando si affronta l'argomento. La legge del 1905 è probabilmente il solo documento mai votato a Palazzo Borbone che sia considerato scolpito nella pietra. Chiunque osi suggerire l'idea di una sua revisione si attira l'accusa di minacciare le fondamenta stesse della République. Nella loro miopia, i campioni della ragione, del libero esame e della critica rifiutano ostinatamente di applicare queste virtù alla propria causa. Chi commette il sacrilegio di non pensarla come loro è regolarmente denunciato come un novello inquisitore! I conflitti politici sono resi ancor più aspri dal fatto che per lungo tempo hanno riguardato la religione: il castello contro il municipio, il curato contro il maestro pubblico ecc. L'adesione alla Repubblica della quasi totalità dei cristiani ha semplicemente cambiato i termini del confronto, spostandolo sul terreno della scuola: di qui le grandi crisi provocate, nel corso del XX secolo, dai progetti di riforma delle leggi che regolano i rapporti tra lo Stato e l'insegnamento confessionale. Mentre le manifestazioni del 1° maggio mostravano segni di logoramento, quelle a favore della scuola laica o confessionale del 1984 hanno richiamato in piazza centinaia di migliaia di persone. Sembra quasi che la Repubblica sia costantemente minacciata dalle oscure trame dei bigotti. Provate a parlare di «laicità positiva» e scatenerete immediatamente una bufera difficilmente comprensibile per gli osservatori stranieri, che si stupiscono nel vedere quanto facilmente noi francesi ci crogioliamo in vecchie questioni «fratricide ». Gli anticlericali di un tempo hanno lasciato il posto ai nuovi professionisti dell'anticristianesimo, intolleranti e irrispettosi delle credenze di coloro che hanno la sfortuna di non pensarla come loro. La società francese continua a essere impregnata del tanfo di un anticlericalismo primario che si ripresenta ogniqualvolta si discute a proposito di laicità. Se vi azzardate a far notare la cosa sarete etichettati come «baciapile », e vi sarà quasi certamente sbattuto in faccia l'affare delle vignette danesi sul profeta Maometto. 

Peraltro, le prime vittime di quelle caricature non sono stati gli anticlericali e i laicisti d'Europa ma i cristiani del Pakistan e della Nigeria, che hanno pagato con la vita l'«errore » dell'Occidente, il quale tanto per cambiare non ha mosso un dito.


© Copyright Liberal, 25 febbraio 2010

Vescovo di Mosul: Emergenza umanitaria. Centinaia di famiglie cristiane in fuga dalle violenze

Mons. Nona racconta di una “Via Crucis che non finisce mai”. L’arcidiocesi soccorre i profughi con generi di prima necessità, ma “la situazione è drammatica”. Il prelato andrà a Baghdad per chiedere l’intervento del governo centrale. Mons. Sako, arcivescovo di Kirkuk, intende lanciare una “manifestazione e un digiuno” per ricordare “il massacro dei cristiani irakeni”.

Mosul vive una vera e propria “emergenza umanitaria”, nella sola giornata di ieri “centinaia di famiglie cristiane” hanno abbandonato la città in cerca di riparo, lasciando alle proprie spalle case, beni, attività commerciali: la situazione “è drammatica”. Mons. Emil Shimoun Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, conferma ad AsiaNews l’esodo dei fedeli dalla città. Intanto mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, intende lanciare “una manifestazione di piazza e un digiuno”, per sensibilizzare la comunità internazionale sul “massacro dei cristiani irakeni” e fermare le violenze nel Paese.

L’arcivescovo di Mosul è preoccupato per le tantissime famiglie, “centinaia” nella sola giornata di ieri, che hanno abbandonato la città. Mons. Nona parla di “una Via Crucis che non finisce mai” e denuncia il “cambiamento nei metodi” operato dalle bande armate. “In passato dicevamo ai cristiani di rimanere chiusi in casa – ricorda – ma ora arrivano ad attaccare perfino nelle abitazioni private”. Il riferimento è all’omicidio avvenuto lo scorso 23 febbraio: un commando è entrato nella casa di Aishwa Marosi, cristiano di 59 anni, uccidendo l’uomo e i due figli maschi. Alla scena hanno assistito anche la moglie e la figlia, risparmiate dai criminali.

Mons. Nona conferma il rischio che “Mosul si svuoti completamente dei cristiani”, in fuga verso la piana di Ninive e altri luoghi considerati più sicuri. “Ieri ho visitato alcune famiglie – continua – ho cercato di portare conforto, ma la situazione è drammatica. La gente scappa senza portare nulla con sé”. Per questo l’arcidiocesi locale ha avviato un primo intervento di emergenza, cercando di fornire “generi di prima necessità e soccorso”, ma il pericolo di “una crisi umanitaria è concreto”.

L’arcivescovo di Mosul intende recarsi a Baghdad per incontrare i politici e il governo centrale, chiedendo il loro intervento. Mantenere la presenza cristiana in città è difficile, continua, ed è probabile che alle elezioni generali – in programma il 7 marzo – nessuno andrà a votare. Confinare i cristiani nella piana di Ninive, vittime di un conflitto di potere fra arabi e curdi, pare una realtà sempre più concreta, sebbene i vertici della Chiesa si siano sempre opposti alla loro “ghettizzazione”. Finora le fazioni in lotta hanno usato i mezzi della religione e delle bande armate per trascinare i cristiani nel conflitto. “Per questo – conclude mons. Nona – ora è necessario trovare una ‘risposta politica’ ai conflitti, alla lotta di potere”.

Mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, intende lanciare – per i prossimi giorni – “una manifestazione di piazza e un digiuno”, per sensibilizzare la comunità internazionale sul “massacro dei cristiani irakeni” e fermare le violenze nel Paese. Il progetto politico che intende svuotare Mosul dei cristiani va fermato, avviando un negoziato con il governo centrale e il parlamento locale e rafforzando al contempo “l’idea di unità nazionale” che si è perduta nei conflitti fra le varie etnie, confessioni religiose e influenze straniere che hanno frantumato l’Iraq. Il prelato conferma la volontà della comunità cristiana di “partecipare alla vita politica del Paese”, mentre si fa sempre più concreto il pericolo che vengano considerati “cittadini di serie B”.

Le elezioni generali in programma il 7 marzo potranno causare un’escalation ancora maggiore delle violenze. Le parti in lotta – sunniti, sciiti, curdi – non risparmieranno metodi e forze per conquistare il controllo del territorio. Baghdad, come Mosul e Kirkuk, fa gola a molti per i ricchi giacimenti di petrolio. Le violenze settarie a Mosul, inoltre, non sembrano riconducibili ad al Qaeda, ma confermano piuttosto le infiltrazioni nell’esercito e nella polizia di “poteri forti” che si rifanno ai partiti, alle confessioni religiose, alle tribù. Esse sono il segnale evidente del fallimento del progetto di creare uno stato unitario, quella “Repubblica dell’Iraq” menzionata nella Costituzione e mai nata a causa delle divisioni interne. A queste si aggiungono le pressioni dei Paesi confinanti, fra i quali l’Iran: fonti di AsiaNews a Baghdad confermano che “Teheran è immischiata a piene mani nella politica interna irachena” ed è un’influenza che tocca l’ambito economico, politico e religioso.

“Non esiste uno Stato, una patria – sottolinea mons. Sako – e le divisioni settarie sono un dato evidente. Ai cristiani non interessano i giochi di potere, l’egemonia economica, ma la creazione di uno Stato in cui le diverse etnie possano convivere in modo pacifico”. Un obiettivo che, per essere raggiunto, deve partire prima di tutto “dall’unità della comunità cristiana e dei vertici della Chiesa, che deve fare dell’unità un punto di forza al tavolo delle trattative con il governo centrale e le forze politiche del Paese”.


© Copyright AsiaNews

Cristiani in piazza a Baghdad e a Mosul. Il conforto delle parole del Papa

“Tristezza e preoccupazione” sono state espresse da Benedetto XVI per le recenti uccisioni di alcuni cristiani nella città di Mosul e per altri episodi di violenza, avvenuti in Iraq “ai danni di persone inermi di diversa appartenenza religiosa”. Nel corso dell’Angelus, domenica 28 febbraio, il Papa ha pregato per tutte le vittime degli attentati ed espresso il desiderio di un pronto ripristino della sicurezza. Rivolgendosi alle comunità cristiane dell’intero Paese, Benedetto XVI ha detto: “Non stancatevi di essere fermento di bene per la patria a cui, da secoli, appartenete a pieno titolo”. Il Papa ha, inoltre, lanciato un appello alle Autorità civili, “perché compiano ogni sforzo per ridare sicurezza alla popolazione e, in particolare, alle minoranze religiose più vulnerabili” ed ha esortato la comunità internazionale “a prodigarsi per dare agli iracheni un futuro di riconciliazione e di giustizia”.

“Grazie Santo Padre”. “Grazie Santo Padre per la sua vicinanza! Siamo grati a Benedetto XVI, sappiamo quanto si preoccupi delle nostre comunità: speriamo che la sua voce possa avere una risonanza nel mondo e soprattutto nei duri di cuore”. Così il vicario patriarcale di Baghdad, mons. Shlemon Warduni, ha salutato le parole del Papa, all’Angelus. “Parole forti e ricche di speranza – ha affermato al SIR mons. Warduni – che suonano come un appello ai cristiani ad avere fiducia nella giustizia e a non lasciare il loro Paese. Benedetto XVI ha fatto appello alle Autorità perché mettano da parte gli interessi e proteggano le minoranze religiose più vulnerabili. È tempo, infatti, di mettere da parte ogni interesse particolare, politico, religioso, culturale ed etnico. I cristiani devono poter vivere in pace e sicurezza nel loro Paese, da cittadini, nella pienezza del diritto”.

Cristiani e musulmani in piazza. Il 28 febbraio è stato anche il giorno della protesta pacifica e civile dei cristiani, a Baghdad e a Mosul. L’obiettivo condiviso di cristiani e musulmani, anch’essi presenti in piazza, era quello di gridare “basta alle violenze contro i cristiani e chiedere protezione per le minoranze”. Nella capitale irachena, ha riferito al SIR mons. Warduni, tra i partecipanti alla protesta, “siamo scesi in piazza per dire basta agli attacchi. Noi vogliamo pace e sicurezza, non più violenza. Siamo cittadini iracheni a pieno titolo e come tali rivendichiamo i nostri diritti, in primis quello alla vita. Basta con le stragi dei cristiani. Vogliamo protezione”. Organizzata dall’Hammurabi Organization for Human Rights, la manifestazione ha avuto luogo nel centro della città, non lontano dagli hotel Falestin e Sheraton, ed ha riunito oltre 500 persone tra cristiani, yazidi, sabei e musulmani. A prendere la parola, per ricordare le difficoltà dei cristiani, sono stati, tra gli altri, Louis Marqus, membro dell’Hammurabi, il corepiscopo siro cattolico, padre Pius Qasha, che ha letto un messaggio del suo patriarca, Mar Ignatius Yousef III Younan. Tra i presenti anche Abdallah Al Naufali, capo dell’ufficio governativo per le minoranze non musulmane. “Abbiamo fatto le nostre richieste – ha aggiunto Warduni – tra queste l’immediato intervento del governo centrale e locale per proteggere i cristiani e fermare lo spargimento di sangue; di assicurare alla giustizia gli autori e i mandanti dei crimini contro i cristiani di Mosul; di pubblicare i risultati delle inchieste effettuate dalle forze di sicurezza irachene sugli attacchi contro i cristiani di Mosul avvenuti negli scorsi giorni e nel 2008. Nel caso fosse impossibile fermare le violenze a Mosul ci si appella alla comunità internazionale perché li protegga e ponga fine alla loro tragedia”.

In marcia a Mosul. Le parole del Pontefice hanno avuto una grande eco anche a Mosul ed hanno confortato i cristiani locali che hanno aderito in massa ad una marcia condotta tra diverse città e villaggi cristiani del territorio circostante. “L’appello è stato accolto dalle nostre comunità – ha spiegato al SIR l’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Shimoun Nona – ma il problema è che non tutta la popolazione ha potuto ascoltarlo poiché non tutti i canali arabi lo hanno diffuso. Da parte nostra lo diffonderemo nelle chiese”. “C’era moltissima gente – ha aggiunto il presule caldeo – in ogni villaggio abbiamo trovato vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e semplici fedeli ad accoglierci. Con noi anche il patriarca caldeo, Mar Emmanuel III Delly, che ha esortato tutti, Istituzioni in primis, ad adoperarsi per la sicurezza”. Lo stesso patriarca, secondo quanto riferito da mons. Warduni, ha anche fatto visita alle famiglie ed ha parlato con il sindaco, con il capo della sicurezza e capi tribù locali. Questi ultimi hanno ribadito che “se il governo non proteggerà i cristiani lo faranno loro. Molti di questi, infatti, sono stati educati in scuole cristiane”. Nella stessa occasione è stato ricordato mons. Paulos Faraj Raho, l’arcivescovo di Mosul rapito il 29 febbraio 2008 e ritrovato morto dopo due settimane. “A 2 anni dal rapimento – ha concluso mons. Nona – vogliamo coltivare la sua speranza di pace per l’Iraq. La sua morte sia seme di speranza per il nostro Paese. Le prossime elezioni ci possano, a riguardo, portare tranquillità e sicurezza per tutti”.


[Fonte: SIR 1 marzo 2010]

Vedi documentazione più estesa:
[Altri luoghi in cui la croce può costare la vita]
[In Medio Oriente le antiche chiese stanno sparendo]
[Per i cattolici libertà limitata in Turchia. Ecco i nodi da sciogliere]
[Il Papa all'Ambasciatore turco]
[In generale, su Cristiani in Islam - uno dei più recenti scritti di Samir Khalil Samir]
]Cristiani Iraq - India - Iran - Palestina - Pakistan - Medio Oriente - Medio Oriente2 - Cina - Cipro - Arabia Saudita - Turchia - Uzbekistan]
[cfr. precedenti in Egitto del 2003 e 2005]

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