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COMMISSIONE MISTA INTERNAZIONALE PER IL DIALOGO TEOLOGICO
TRA LA CHIESA CATTOLICA ROMANA E LA CHIESA ORTODOSSA

LE CONSEGUENZE ECCLESIOLOGICHE E CANONICHE
DELLA NATURA SACRAMENTALE DELLA CHIESA

COMUNIONE ECCLESIALE, CONCILIARITÀ E AUTORITÀ

Ravenna, 13 ottobre 2007

Introduzione

1. «Perché essi siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Rendiamo grazia al Dio Trino che ci ha riuniti – noi, i membri della Commissione Mista per il Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa – affinché possiamo rispondere insieme in obbedienza a questa preghiera di Gesù. Siamo consapevoli che il nostro dialogo prende un nuovo avvio in un mondo che nei tempi recenti è profondamente cambiato. Il processo di secolarizzazione e di globalizzazione, come anche le sfide poste da nuovi incontri tra i cristiani ed i credenti di altre religioni, richiedono con rinnovata urgenza ai discepoli di Cristo di dare testimonianza della loro fede, del loro amore e della loro speranza. Possa lo Spirito di Cristo risorto consentire al nostro cuore e alla nostra mente di recare i frutti dell’unità nelle relazioni tra le nostre Chiese, affinché possiamo servire insieme l’unità e la pace di tutta la famiglia umana. Possa lo stesso Spirito condurci alla piena espressione del mistero della comunione ecclesiale, che noi riconosciamo con gratitudine come un dono meraviglioso di Dio al mondo, un mistero la cui bellezza rifulge specialmente nella santità alla quale siamo tutti chiamati.

2. Secondo il «Piano» adottato nel primo incontro di Rodi nel 1980, la Commissione Mista aveva iniziato a trattare il mistero della koinônia ecclesiale alla luce del mistero della Santa Trinità e dell’Eucaristia. Ciò aveva permesso di comprendere più profondamente la comunione ecclesiale, sia a livello della comunità locale radunata attorno al suo vescovo, che a livello delle relazioni tra i vescovi ed tra le Chiese locali sulle quali ciascun [vescovo] presiede in comunione con la Chiesa Una di Dio che si estende attraverso l’universo (cfr. Documento di Monaco, 1982). Nell’intento di chiarire la natura della comunione, la Commissione Mista aveva sottolineato la relazione esistente tra fede, sacramenti – con speciale riguardo ai tre sacramenti dell’iniziazione cristiana – e l’unità della Chiesa (cfr. Documento di Bari, 1987). Successivamente, studiando il sacramento dell’Ordine nella struttura sacramentale della Chiesa, la Commissione aveva indicato chiaramente il ruolo della successione apostolica quale garante della koinônia di tutta la Chiesa, e la sua continuità con gli Apostoli, in ogni tempo ed in ogni luogo (cfr. Documento di Valamo, 1988). Dal 1990 al 2000, il principale argomento discusso dalla Commissione è stato «l’uniatismo» (Documento di Balamand, 1993; Documento di Baltimora, 2000), argomento che la Commissione Mista considererà ulteriormente in un prossimo futuro. Essa affronta attualmente il tema sollevato nella conclusione del Documento di Valamo, e riflette sulla comunione ecclesiale, la conciliarità e l’autorità.

3. Sulla base di tali affermazioni comuni della nostra fede, dobbiamo trarre ora le conseguenze ecclesiologiche e canoniche derivanti dalla natura sacramentale della Chiesa. Poiché l’Eucaristia, alla luce del mistero trinitario, costituisce il criterio della vita ecclesiale nella sua interezza, in che modo le strutture istituzionali riflettono visibilmente il mistero di questa koinônia? Poiché la Chiesa Una e Santa è realizzata in ciascuna Chiesa locale che celebra l’Eucaristia e, allo stesso tempo, nella koinônia di tutte le Chiese, in che modo la vita delle Chiese manifesta tale struttura sacramentale ?

4. Unità e molteplicità, la relazione tra la Chiesa una e le molte Chiese locali, tale relazione costitutiva della Chiesa pone anch’essa la questione della relazione tra l’autorità, inerente ad ogni istituzione ecclesiale, e la conciliarità, che deriva dal mistero della Chiesa come comunione. Poiché i termini «autorità» e «conciliarità» abbracciano uno spazio molto vasto, inizieremo con il definire il modo secondo il quale noi li comprendiamo [1].

I. I fondamenti della Conciliarità e dell’Autorità

1. Conciliarità

5. Il termine conciliarità o sinodalità deriva dalla parola «concilio» (synodos in greco, concilium in latino), che denota soprattutto un raduno di vescovi che esercitano una particolare responsabilità. Tuttavia è anche possibile comprendere il termine in un’accezione più ampia, nel senso di tutti i membri della Chiesa (cfr. il vocabolo russo sobornost). Di conseguenza, parleremo dapprima di «conciliarità» nel suo significato secondo il quale ciascun membro del Corpo di Cristo, in virtù del battesimo, ha il suo spazio e la sua propria responsabilità nella koinônia (communio in latino) eucaristica. La conciliarità riflette il mistero trinitario ed ha il suo fondamento ultimo in tale mistero. Le tre persone della Santa Trinità sono «enumerate», come afferma San Basilio il Grande (Sullo Spirito Santo, 45), senza che la designazione come «seconda» o «terza» persona, implichi una diminuzione o una subordinazione. Analogamente, esiste anche un ordine tra le Chiese locali, che tuttavia non implica disuguaglianza nella loro natura ecclesiale.

6. L’eucaristia manifesta la koinônia trinitaria attualizzata nei fedeli come un’unità organica di molteplici membri, ciascuno dei quali ha un carisma, un servizio o un ministero proprio, i quali sono necessari, nella loro varietà e nella loro diversità, all’edificazione di tutti nell’unico Corpo ecclesiale di Cristo (cfr. 1 Cor 12,4–30). Tutti sono chiamati, sono impegnati e sono resi responsabili – ciascuno in modo diverso, ma tuttavia non meno effettivo – nel comune compimento delle azioni che, per mezzo dello Spirito Santo, rendono presente nella Chiesa il ministero di Cristo, «Via, Verità e Vita» (Gv 14,6). Così è realizzato nel genere umano il mistero della koinônia salvifica con la Santa Trinità.

7. L’intera comunità e ciascuna persona che ne fa parte ha la «consapevolezza della Chiesa» (ekklesiastikè syneidesis), come essa è definita dalla teologia greca, ovvero il sensus fidelium secondo la terminologia latina. In virtù del battesimo e della cresima (o crismazione), ciascun membro della Chiesa esercita una forma di autorità nel Corpo di Cristo. In questo senso, tutti i fedeli (e non soltanto i vescovi) sono responsabili per la fede professata all’atto del loro battesimo. Secondo l’insegnamento che dispensiamo in comune, l’insieme del popolo di Dio, avendo ricevuto «l’unzione dal Santo» (1 Gv 2, 20.27), in comunione con i loro pastori, non può errare in materia di fede (cfr. Gv 16,13).

8. Nel proclamare la fede della Chiesa e nel chiarire le norme del comportamento cristiano, i vescovi, per istituzione divina, hanno un compito specifico. «Quali successori degli Apostoli, i vescovi sono responsabili della comunione nella fede apostolica e della fedeltà alle esigenze di una vita conforme al Vangelo» (Documento di Valamo, n. 40).

9. I Concili costituiscono il principale modo di esercizio della comunione tra i vescovi (cfr. Documento di Valamo, n. 52). In effetti, «l’attaccamento alla comunione apostolica vincola tutti i vescovi tra loro collegando l’épiskopè delle Chiese locali al Collegio degli Apostoli. Anch’essi formano un collegio radicato dallo Spirito Santo nella “una volta per tutte” del gruppo apostolico, testimone della fede in modo unico. Ciò significa che non soltanto essi dovrebbero essere uniti tra loro nella fede, la carità, la missione, la riconciliazione, ma che essi hanno in comune la stessa responsabilità e lo stesso servizio alla Chiesa» (Documento di Monaco, III, 4).

10. Tale dimensione conciliare della vita della Chiesa appartiene alla sua natura più profonda. Ciò equivale a dire che essa è fondata sulla volontà di Cristo per i suoi seguaci (cfr. Mt 18, 15–20), sebbene le sue realizzazioni canoniche siano necessariamente determinate anche dalla storia e dal contesto sociale, politico e culturale. Definita in questo modo, la dimensione conciliare della Chiesa deve essere presente nei tre livelli della comunione ecclesiale, locale, regionale e universale: a livello locale della diocesi affidata al vescovo; a livello regionale di un insieme di Chiese locali con i loro vescovi che «riconoscono colui che è il primo tra loro» (Canone degli Apostoli, 34); ed a livello universale, coloro che sono i primi (protoi) nelle varie regioni, insieme con tutti i vescovi, collaborano per ciò che riguarda la totalità della Chiesa. Inoltre a questo livello, i protoi debbono riconoscere chi è il primo tra di loro.

11. La Chiesa esiste in molti luoghi diversi, ciò che manifesta la sua cattolicità. Essendo «cattolica», essa è un organismo vivente, il Corpo di Cristo. Ciascuna Chiesa locale, se essa è in comunione con le altre Chiese locali, è una manifestazione della Chiesa di Dio, una e indivisibile. Essere «cattolica» significa pertanto essere in comunione con l’unica Chiesa di tutti i tempi e in ogni luogo. Per questo motivo, rompere la comunione eucaristica significa ferire una delle caratteristiche essenziali della Chiesa, la sua cattolicità.

2. Autorità

12. Quando parliamo di autorità, ci riferiamo all’exousia, così come il Nuovo Testamento la descrive. L’autorità della Chiesa deriva dal suo Capo e Signore, Gesù Cristo. Avendo ricevuto la sua autorità da Dio Padre, Cristo, dopo la sua Resurrezione, l’ha condivisa, per mezzo dello Spirito Santo, con gli Apostoli (cfr. Gv 20,22). Attraverso di loro, essa è stata trasmessa ai vescovi, ai loro successori e, attraverso di loro a tutta la Chiesa. Nostro Signore Gesù Cristo ha esercitato questa autorità in vari modi attraverso i quali, e fino al suo compimento escatologico (cfr. 1 Cor 15,24–28), il Regno di Dio si manifesta al mondo: ammaestrando (cfr. Mt 5,2, Lc 5,3); compiendo miracoli (cfr. Mc 1,30–34; Mt 14, 35–36); scacciando gli spiriti impuri (cfr. Mc 1,27; Lc 4,35–36); rimettendo i peccati (cfr. Mc 2,10; Lc 5,24); e guidando i suoi discepoli sulla via della salvezza (cfr. Mt 16,24) In conformità al mandato ricevuto da Cristo (cfr. Mt 28, 18–20), l’esercizio dell’autorità propria agli apostoli e successivamente ai vescovi, comprende la proclamazione e l’insegnamento del Vangelo, la santificazione attraverso i sacramenti, in particolare l’Eucaristia, e la guida pastorale di coloro che credono (cfr. Lc 10,16).

13. L’autorità nella Chiesa appartiene a Gesù Cristo stesso, l’unico Capo della Chiesa (cfr. Ef 1,22; 5,23). Per mezzo del suo Spirito Santo, la Chiesa, in quanto suo Corpo, partecipa alla sua autorità (cfr. Gv 20, 22–23). Scopo dell’autorità nella Chiesa è radunare tutta l’umanità in Gesù Cristo (cfr. Ef 1,10; Gv 11,52). L’autorità, connessa alla grazia ricevuta nell’ordinazione, non è possesso privato di coloro che la ricevono né è un qualcosa che la comunità dà in delega; al contrario, è un dono dello Spirito Santo destinato al servizio (diakonia) della comunità e mai esercitato al di fuori di essa. Il suo esercizio comporta la partecipazione di tutta la comunità, essendo il vescovo nella Chiesa e la Chiesa nel vescovo (cfr. S. Cipriano, Ep. 66,8).

14. L’esercizio dell’autorità compiuto nella Chiesa, in nome di Cristo e per mezzo della potenza dello Spirito Santo, deve essere – in ogni sua forma ed a tutti i livelli – un servizio (diakonia) d’amore, al pari di quello che fu di Cristo (cfr. Mc 10,45; Gv 13, 1–16). L’autorità di cui parliamo, in quanto esprime l’autorità divina, può sussistere nella Chiesa soltanto nell’amore tra colui che la esercita e coloro che sono soggetti ad essa. Pertanto, si tratta di un’autorità senza dominazione, senza coercizione sia essa fisica o morale. In quanto partecipazione all’exousia del Signore crocifisso e esaltato, al quale è stata data ogni autorità in cielo e sulla terra (cfr. Mt 28,18), essa può e deve esigere obbedienza. Allo stesso tempo, a causa dell’Incarnazione e della Croce, essa è radicalmente diversa da quella esercitata dai Capi delle nazioni, e dai Grandi di questo mondo (cfr. Lc 22, 25–27). Sebbene sia fuori dubbio che l’autorità è affidata a persone, le quali – a causa della debolezza e del peccato – , sono spesso tentate di abusarne, non di meno, per sua natura stessa l’identificazione evangelica dell’autorità con il servizio costituisce una norma fondamentale per la Chiesa. Per i cristiani, governare equivale a servire. Ne consegue che l’esercizio e l’efficacia spirituale dell’autorità ecclesiale sono assicurati attraverso il libero consenso e la collaborazione volontaria. Ad un livello personale, ciò si traduce nell’obbedienza all’autorità della Chiesa per seguire Cristo, il quale è stato amorevolmente ubbidiente al Padre fino alla morte e alla morte di croce (cfr. Fil 2,8).

15. L’autorità nella Chiesa si fonda sulla Parola di Dio, che è presente e viva nella comunità dei discepoli. La Scrittura è la Parola di Dio rivelata, così come la Chiesa – per mezzo dello Spirito Santo presente ed attivo in essa – l’ha percepita nella Tradizione vivente ricevuta dagli Apostoli. Il fulcro di questa Tradizione è l’Eucaristia (cfr. 1 Cor 10, 16–17; 11, 23–26). L’autorità della Scrittura deriva dal fatto che è la Parola di Dio che, letta nella Chiesa e dalla Chiesa, trasmette il Vangelo di salvezza. Attraverso la Scrittura, Cristo si rivolge alla comunità radunata e al cuore di ciascun credente. La Chiesa, attraverso lo Spirito Santo presente in lei, interpreta autenticamente la Scrittura, rispondendo ai bisogni dei tempi e dei luoghi. La consuetudine costante nei Concili di intronizzare i Vangeli al centro dell’assemblea, attesta la presenza di Cristo nella sua Parola, la quale costituisce il necessario punto di riferimento per tutti i loro dibattiti e decisioni, ed afferma nel contempo l’autorità esercitata dalla Chiesa nell’interpretare tale Parola di Dio.

16. Nella sua divina Economia, Dio vuole che la sua Chiesa abbia una struttura orientata alla salvezza. A tale essenziale struttura appartengono la fede professata ed i sacramenti celebrati nella successione apostolica. L’autorità nella comunione ecclesiale è legata a questa struttura essenziale: il suo esercizio è regolato dai canoni e dagli statuti della Chiesa. Alcune di queste regole possono essere differentemente applicate, secondo i bisogni della comunione ecclesiale, in tempi e luoghi diversi, a patto però che la struttura essenziale della Chiesa sia sempre rispettata. Pertanto, come la comunione nei sacramenti presuppone la comunione nella stessa fede (cfr. Documento di Bari, nn. 29–33), allo stesso modo, perché vi sia la piena comunione ecclesiale, deve esserci, tra le nostre Chiese, il reciproco riconoscimento delle legislazioni canoniche nelle loro legittime diversità.

II. La triplice attualizzazione della Conciliarità e dell’Autorità

17. Avendo evidenziato i fondamenti sui quali poggia la conciliarità e l’autorità nella Chiesa, e dopo aver rilevato la complessità del contenuto di tali termini, dobbiamo ora rispondere alle seguenti domande: in che modo gli elementi istituzionali della Chiesa esprimono visibilmente e sono a servizio del mistero della koinônia ? In che modo le strutture canoniche della Chiesa esprimono la loro vita sacramentale ? Per rispondere abbiamo distinto tre livelli delle istituzioni ecclesiali: il livello della Chiesa locale attorno al suo vescovo; il livello di una regione che comprende un certo numero di Chiese locali limitrofe; ed il livello dell’intera terra abitata (oikoumene), che abbraccia tutte le Chiese locali.

1. Il livello locale

18. La Chiesa di Dio esiste laddove vi è una comunità radunata dall’Eucaristia, presieduta, direttamente o attraverso i suoi presbiteri, da un vescovo legittimamente ordinato nella successione apostolica, il quale insegna la fede ricevuta dagli Apostoli, in comunione con gli altri vescovi e con le loro Chiese. Il frutto di questa Eucaristia e di questo ministero consiste nel radunare in una autentica comunione di fede, di preghiera, di missione, di amore fraterno e di reciproco aiuto, tutti coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Cristo nel battesimo. Tale comunione è il quadro entro il quale è esercitata tutta l’autorità ecclesiale. La comunione è il criterio di tale esercizio.

19. Ciascuna Chiesa locale ha per missione di essere, per grazia di Dio, un luogo dove Dio è servito ed onorato, dove è annunciato il Vangelo, sono celebrati i sacramenti, un luogo dove il fedele si adopera a alleviare le miserie del mondo, e dove ogni credente può trovare la salvezza. Essa è la luce del mondo (cfr. Mt 5,14–16), il lievito (cfr. Mt 13,33), la comunità sacerdotale di Dio (cfr. 1 Pt 2, 5.9). Le norme canoniche che la governano hanno lo scopo di garantire tale missione.

20. In virtù dello stesso Battesimo, che fa di loro le membra di Cristo, ciascuna persona battezzata è chiamata, secondo i doni dell’unico Spirito Santo, al servizio nella comunità (cfr. 1 Cor 12, 4–27). Pertanto, attraverso la comunione, che pone tutti i membri a servizio gli uni degli altri, la Chiesa locale appare già «sinodale» o «conciliare» nella sua struttura. Questa «sinodalità» non risulta soltanto nella relazione di solidarietà, nell’assistenza reciproca e nella complementarità, che i vari ministri ordinati hanno tra di loro. Senza dubbio il presbiterio è il consiglio del vescovo (cfr. Sant’Ignazio d’Antiochia, Ai Tralliani, 3), ed il diacono è la sua «mano destra» (Didascalia A postolorum, 2,28,6), in modo che, secondo la raccomandazione di Sant’Ignazio d’Antiochia, ogni cosa si faccia di concerto (cfr. Ef 6). La sinodalità, tuttavia, come lo esige la comunione ecclesiale, riguarda anche tutti i membri della comunità nell’obbedienza al vescovo, il quale è il protos ed il capo (kephale) della Chiesa locale. Conformemente alle tradizioni orientale e occidentale, la partecipazione attiva del laicato, uomini e donne, degli appartenenti a comunità monastiche e delle persone consacrate, si attua nella diocesi e nella parrocchia attraverso svariate forme di servizio e di missione.

21. I carismi dei membri della comunità hanno origine nell’unico Spirito Santo, e sono orientati al bene di tutti. Questo fatto mette in luce sia le esigenze che i limiti dell’autorità di ciascuno nella Chiesa. Non dovrebbero esistere né passività né sostituzione di funzioni, né negligenza né sopraffazione dell’uno sull’altro. Tutti i carismi ed i ministeri della Chiesa convergono nell’unità sotto il ministero del vescovo, il quale serve la comunione della Chiesa locale. Tutti sono chiamati dallo Spirito Santo a rinnovarsi nei sacramenti ed a rispondere in una costante conversione (metanoia), di modo che sia garantita la loro comunione nella verità e nella carità.
 
2. Il livello regionale

22. Poiché la Chiesa rivela la sua cattolicità nella synaxis della Chiesa locale, tale cattolicità deve effettivamente manifestarsi in comunione con le altre Chiese che professano la stessa fede apostolica e condividono la stessa struttura ecclesiale fondamentale, a cominciare da quelle che sono vicine tra loro in virtù della loro comune responsabilità per la missione nella regione di cui fanno parte (cfr. Documento di Monaco, III, 3 e Documento di Valamo, 52 e 53). La comunione tra le Chiese è espressa nell’ordinazione dei vescovi. Tale ordinazione è conferita secondo l’ordine canonico da tre o più vescovi, e almeno da due (cfr. Concilio di Nicea, canone 4), i quali agiscono in nome del corpo episcopale e del popolo di Dio, avendo essi stessi ricevuto il loro ministero dallo Spirito Santo per il tramite dell’imposizione delle mani nella successione apostolica. Quando ciò è compiuto in conformità ai canoni, è garantita la comunione tra le Chiese nella retta fede, nei sacramenti e nella vita ecclesiale, così come è garantita la comunione vivente con le generazioni precedenti.

23. Una tale comunione effettiva tra Chiese locali, ciascuna delle quali è la Chiesa cattolica in un determinato luogo, è stata espressa da alcune pratiche: la partecipazione dei vescovi delle sedi limitrofe all’ordinazione di un vescovo per la Chiesa locale; l’invito rivolto ad un determinato vescovo di un’altra Chiesa a concelebrare nella synaxis della Chiesa locale; l’accoglienza estesa a fedeli di tali Chiese a condividere la mensa eucaristica; lo scambio di lettere in occasione di un’ordinazione; nonché l’offerta di assistenza materiale

24. Un canone accettato in Oriente ed in Occidente, esprime la relazione tra le Chiese locali in una determinata regione: «I vescovi di ciascuna nazione (ethnos) debbono riconoscere colui che è il primo (protos) tra di loro, e considerarlo il loro capo (kephale), e non fare nulla di importante senza il suo consenso (gnome); ciascun vescovo può soltanto fare ciò che riguarda la sua diocesi (paroikia) ed i territori che dipendono da essa. Ma il primo (protos) non può fare nulla senza il consenso di tutti. Poiché in questo modo la concordia (homonoia) prevarrà, e Dio sarà lodato per mezzo del Signore nello Spirito Santo (Canone Apostolico 34).

25. Tale norma, che riaffiora in svariate forme nella tradizione canonica, si applica a tutte le relazioni tra i vescovi di una regione, sia quelli di una provincia, che i vescovi di una metropolia, o di un patriarcato. La sua pratica applicazione può rilevarsi nei sinodi o concili di una provincia, regione o patriarcato. Il fatto che un sinodo regionale sia sempre composto essenzialmente di vescovi, anche quando esso comprende altri membri della Chiesa, rivela la natura dell’autorità sinodale. Soltanto i vescovi hanno voce deliberativa. L’autorità di un sinodo si basa sulla natura del ministero episcopale stesso, e manifesta la natura collegiale dell’episcopato a servizio della comunione delle Chiese.

26. Un sinodo (o concilio) implica in sé la partecipazione di tutti i vescovi di una regione. Esso è governato dal principio del consenso e della concordia (homonoia), che è espressa dalla concelebrazione eucaristica, così come si evince dalla dossologia finale del citato Canone Apostolico 34. Resta comunque il fatto che ciascun vescovo, nell’esercizio della cura pastorale, è giudice e responsabile davanti a Dio per le questioni che riguardano la sua propria diocesi (cfr. San Cipriano, Ep. 55,21); pertanto egli è il custode della cattolicità della sua Chiesa locale, e deve sempre attentamente adoperarsi a promuovere la comunione cattolica con le altre Chiese.
27. Ne deriva che un sinodo o un concilio regionale non ha autorità alcuna su altre regioni ecclesiastiche. Non di meno lo scambio di informazioni e le consultazioni tra rappresentanti di diversi sinodi sono una manifestazione della cattolicità, come anche di quella fraterna e reciproca assistenza e carità che debbono costituire la regola tra tutte le Chiese locali a maggiore vantaggio di tutte. Ogni vescovo è responsabile dell’intera Chiesa assieme a tutti i suoi colleghi nella stessa ed unica missione apostolica.

28. In questo modo alcune provincie ecclesiastiche sono pervenute a rafforzare i loro legami di responsabilità comune. Ciò costituisce uno dei fattori che, nella storia delle nostre Chiese, hanno condotto alla costituzione dei patriarcati. I sinodi patriarcali sono governati dagli stessi principi ecclesiologici e dalle stesse norme canoniche dei sinodi provinciali.

29. Nei secoli successivi, sia in Oriente che in Occidente, si sono sviluppate alcune nuove configurazioni della comunione tra Chiese locali. Nuovi Patriarcati e Chiese autocefale sono stati istituiti nell’Oriente cristiano, e recentemente, nella Chiesa latina, è emerso un tipo particolare di raggruppamento dei vescovi, le Conferenze Episcopali. Queste ultime, da un punto di vista ecclesiologico, non sono mere suddivisioni amministrative: esse esprimono lo spirito di comunione nella Chiesa, rispettando allo stesso tempo la diversità delle culture umane.

30. In effetti, indipendentemente dal profilo e dalle regole canoniche della sinodalità regionale, quest’ultima dimostra che la Chiesa di Dio non è una comunione di persone o di Chiese locali estirpate dalle loro radici umane. In quanto comunità di salvezza e poiché questa salvezza è «la restaurazione della creazione» (cfr. Sant’Ireneo, Adv. Haer. 1,36, I), essa ingloba la persona umana in ogni cosa che la lega all’umana realtà così come essa è stata creata da Dio. La Chiesa non è una congerie di individui; è fatta di comunità con culture, storie e strutture sociali diverse tra loro.

31. Nelle Chiese locali raggruppate tra loro a livello regionale, la cattolicità appare sotto la sua vera luce. Essa è espressione della presenza della salvezza non in un universo indifferenziato, ma in un’umanità che Dio ha creato e che egli viene a salvare. Nel mistero della salvezza, la natura umana è assunta nella sua pienezza e, allo stesso tempo, è guarita da ciò che il peccato ha introdotto in essa con l’autosufficienza, l’orgoglio, l’incapacità di aver fiducia negli altri, l’aggressività, la gelosia, l’invidia, la falsità e l’odio. La koinônia ecclesiale è il dono per mezzo del quale tutta l’umanità è radunata insieme, nello Spirito del Signore risorto. Questa unità, creata dallo Spirito, lungi dallo scadere nell’uniformità, esige e dunque preserva – ed in una certa maniera, accresce – la diversità e la particolarità.

3. Il livello universale

32. Ciascuna Chiesa locale non è soltanto in comunione con le Chiese vicine, ma anche con la totalità delle Chiese locali, con quelle attualmente presenti nel mondo, quelle che esistevano sin dall’inizio, quelle che esisteranno in futuro, e con la Chiesa già nella gloria. In conformità con la volontà di Cristo, la Chiesa è una e indivisibile, è la stessa, sempre ed in ogni luogo. Cattolici ed ortodossi confessano entrambi, nel Credo di Nicea–Costantinopoli, che la Chiesa è una e cattolica. La sua cattolicità abbraccia non soltanto la diversità delle comunità umane, ma anche la loro fondamentale unità.

33. Di conseguenza, è chiaro che una sola ed unica fede deve essere confessata e vissuta in tutte le Chiese locali, ovunque deve essere celebrata la stessa ed unica Eucaristia, ed un solo ed unico ministero apostolico deve essere all’opera in tutte le comunità. Una Chiesa locale non può modificare il Credo, formulato dai Concili ecumenici, sebbene essa debba sempre «dare risposte adeguate a nuovi problemi, risposte basate sulle Scritture, in accordo e continuità essenziale con le precedenti espressioni dei dogmi» (Documento di Bari, n. 29). Allo stesso modo, una Chiesa locale non può modificare, con una decisione unilaterale, un punto fondamentale che riguardi la forma del ministero, né essa può celebrare l’Eucaristia in volontario isolamento dalle altre Chiese locali senza nuocere alla comunione ecclesiale. Tutte queste cose riguardano il vincolo stesso di comunione e dunque l’essere stesso della Chiesa.

34. Proprio in ragione di tale comunione, tutte le Chiese, per mezzo dei canoni, regolano tutto ciò che riguarda l’Eucaristia ed i sacramenti, il ministero e l’ordinazione, la trasmissione (paradosis) e l’insegnamento (didaskalia) della fede. Si comprende chiaramente il motivo per il quale sono necessarie in questo campo delle regole canoniche e delle norme disciplinari.

35. Nell’evolversi della storia, quando sono sorti seri problemi circa la comunione universale e la concordia tra le Chiese – a riguardo dell’autentica interpretazione della fede, o ai ministeri e alla loro relazione all’intera Chiesa, o alla disciplina comune che la fedeltà al Vangelo esige – si è fatto ricorso ai Concili ecumenici. Tali Concili erano ecumenici non soltanto per il fatto che essi radunavano insieme i vescovi di tutte le regioni ed in particolare quelli delle cinque maggiori sedi secondo l’antico ordine (taxis): Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Essi erano ecumenici anche perché le loro solenni decisioni dottrinali e le loro comuni formulazioni di fede, specialmente su argomenti cruciali, erano vincolanti per tutte le Chiese e per tutti i fedeli, per tutti i tempi e tutti i luoghi. Tale è il motivo per il quale le decisioni dei Concili ecumenici restano normative.

36. La storia dei Concili ecumenici evidenzia quelle che debbono essere considerate le loro caratteristiche speciali. Tale questione deve essere ulteriormente studiata nel nostro futuro dialogo, tenendo in considerazione l’evoluzione di strutture ecclesiali verificatasi nei secoli più recenti sia in Oriente che in Occidente.

37. L’ecumenicità delle decisioni di un Concilio è riconosciuta attraverso un processo di ricezione di durata lunga o breve, per il cui tramite il popolo di Dio nel suo insieme – attraverso la riflessione, il discernimento, il dibattito e la preghiera – riconosce in tali decisioni l’unica fede apostolica delle Chiese locali, che è stata sempre la stessa e di cui i vescovi sono i maestri (didaskaloi) ed i custodi. Tale processo di ricezione è diversamente interpretato in Oriente ed in Occidente, secondo le loro rispettive tradizioni canoniche.

38. Pertanto la conciliarità o sinodalità implica molto di più dei vescovi radunati in assemblea. Essa coinvolge anche le loro Chiese. I primi sono i depositari della fede e danno voce alla fede delle seconde. Le decisioni dei vescovi devono essere ricevute nella vita delle Chiese, specialmente nella loro vita liturgica. Ciascun concilio ecumenico accettato come tale, nel significato proprio ed pieno del termine, è, di conseguenza, una manifestazione della comunione di tutta la Chiesa ed un servizio reso ad essa.

39. Contrariamente ai sinodi diocesani e regionali, un concilio ecumenico non è una «istituzione» la cui frequenza può essere regolata da canoni; piuttosto esso è un «evento», un kairos, ispirato dallo Spirito Santo, che guida la Chiesa affinché essa generi al suo interno le istituzioni di cui ha bisogno e che corrispondono alla sua natura. Tale armonia tra la Chiesa ed i concili è così profonda da far sì che entrambe le Chiese – anche dopo la rottura tra Oriente ed Occidente, che rendeva impossibile la convocazione di concili ecumenici nel senso stretto del termine – hanno continuato a tenere dei concili ogni volta che insorgevano serie crisi. Tali concili radunavano i vescovi di Chiese locali in comunione con la Sede di Roma o, rispettivamente, e sebbene compresi in modo diverso, con la Sede di Costantinopoli. Nella Chiesa cattolica romana, alcuni di tali concili tenuti in Occidente erano considerati ecumenici. Questa situazione, che ha costretto le due parti della cristianità a convocare concili propri a ciascuna di esse, ha favorito i dissensi che hanno contribuito al reciproco estraniamento. Debbono essere ricercati i mezzi che permetteranno di ristabilire il consenso ecumenico.

40. Durante il primo millennio, la comunione universale delle Chiese, nel normale svolgersi degli eventi, fu mantenuta attraverso le relazioni fraterne tra i vescovi. Tali relazioni dei vescovi tra di loro, tra i vescovi ed i loro rispettivi protoi, e anche tra gli stessi protoi nell’ordine (taxis) canonico testimoniato dalla Chiesa antica, ha nutrito e consolidato la comunione ecclesiale. La storia registra consultazioni, lettere ed appelli alla principali sedi, specialmente la sede di Roma, che esprimono palesemente la solidarietà creata dalla koinonia. Disposizioni canoniche quali l’inserimento nei dittici dei nomi dei vescovi delle sedi principali, e la comunicazione della professione di fede agli altri patriarchi in occasione di elezioni, erano espressioni concrete di koinonia.

41. Entrambe le parti concordano sul fatto che tale taxis canonica era riconosciuta da tutti all’epoca della Chiesa indivisa. Inoltre, concordano sul fatto che Roma, in quanto Chiesa che «presiede nella carità», secondo l’espressione di Sant’Ignazio d’Antiochia (Ai Romani, Prologo), occupava il primo posto nella taxis, e che il vescovo di Roma è pertanto il protos tra i patriarchi. Tuttavia essi non sono d’accordo sull’interpretazione delle testimonianze storiche di quest’epoca per ciò che riguarda le prerogative del vescovo di Roma in quanto protos, questione compresa in modi diversi già nel primo millennio.

42. La conciliarità a livello universale, esercitata nei concili ecumenici, implica un ruolo attivo del vescovo di Roma, quale protos tra i vescovi delle sedi maggiori, nel consenso dell’assemblea dei vescovi. Sebbene il vescovo di Roma non abbia convocato i concili ecumenici dei primi secoli, e non li abbia mai presieduti, egli fu non di meno strettamente coinvolto nel processo decisionale di tali concili.

43. Primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Per tale motivo il primato ai diversi livelli della vita della Chiesa, locale, regionale e universale, deve essere sempre considerato nel contesto della conciliarità e, analogamente, la conciliarità nel contesto del primato.

Per quanto riguarda il primato ai diversi livelli, desideriamo affermare i seguenti punti:

  1. Il primato, a tutti i livelli, è una pratica fermamente fondata nella tradizione canonica della Chiesa.
  2. Mentre il fatto del primato a livello universale è accettato dall’Oriente e dall’Occidente, esistono delle differenze nel comprendere sia il modo secondo il quale esso dovrebbe essere esercitato, sia i suoi fondamenti scritturali e teologici.
44. Nella storia dell’Oriente e dell’Occidente, almeno fino al IX secolo, e sempre nel contesto della conciliarità, era riconosciuta una serie di prerogative, secondo le condizioni dei tempi, per il protos o kephale, in ciascuno dei livelli ecclesiastici stabiliti: localmente, per il vescovo in quanto protos della sua diocesi rispetto ai suoi presbiteri e ai suoi fedeli; a livello regionale, per i protos di ciascuna metropoli rispetto ai vescovi della sua provincia, e per il protos di ciascuno dei cinque patriarcati rispetto ai metropoliti di ciascuna circoscrizione; e universalmente, per il vescovo di Roma come protos tra i patriarchi. Tale distinzione di livelli non diminuisce né l’eguaglianza sacramentale di ogni vescovo né la cattolicità di ciascuna Chiesa locale.

Conclusione

45. Resta da studiare in modo più approfondito la questione del ruolo del vescovo di Roma nella comunione di tutte le Chiese. Quale è la funzione specifica del vescovo della «prima sede» in un’ecclesiologia di koinonia, in vista di quanto abbiamo affermato nel presente testo circa la conciliarità e l’autorità ? In che modo l’insegnamento sul primato universale dei Concili Vaticano I e Vaticano II può essere compreso e vissuto alla luce della pratica ecclesiale del primo millennio ? Si tratta di interrogativi cruciali per il nostro dialogo e per le nostre speranze di ristabilire la piena comunione tra di noi.

46. Noi membri della Commissione Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa, siamo convinti che la dichiarazione di cui sopra sulla comunione ecclesiale, la conciliarità e l’autorità rappresenta un positivo e significativo progresso nel nostro dialogo, e che essa fornisce una solida base per la discussione futura sulla questione del primato nella Chiesa ad un livello universale. Siamo consapevoli delle molte questioni difficili che restano da chiarire, ma è nostra speranza che, sostenuti dalla preghiera di Gesù: «che tutti siano uno …perché il mondo creda» (Gv 17,21), ed in obbedienza allo Spirito Santo, ci sarà possibile avanzare sulla base dell’accordo già raggiunto. Riaffermando e confessando: «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5), rendiamo gloria a Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, che ci ha riuniti insieme.


[1] Dei partecipanti ortodossi considerano importante sottolineare che l’uso dei termini «Chiesa», «Chiesa universale», «Chiesa indivisa», e «Corpo di Cristo», nel presente documento e negli altri documenti elaborati dalla Commissione Mista, non sminuiscono in alcun modo la comprensione che la Chiesa ortodossa ha di se stessa quale Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo di Nicea. Dal punto di vista cattolico, la stessa consapevolezza di sé implica che: la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica sussiste nella Chiesa cattolica (Lumen gentium, 8); ciò non esclude il riconoscimento che elementi della vera Chiesa siano presenti al di fuori della comunione cattolica.
 

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