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Per un esame di coscienza di fronte ad una sconfitta.
Lucetta Scaraffia

[vedi anche: Editoriale di Marina Corradi]
[Le parole della Dottrina: Bux, Vitiello]

La sentenza per Eluana Englaro - che significa, come è stato detto da autorevoli voci, l'introduzione di fatto dell'eutanasia in Italia - costituisce una sconfitta per tutti, non solo per il mondo cattolico. Non basta dire che la secolarizzazione e l'individualismo esasperato stanno sostituendo i principi di una antica tradizione religiosa e culturale un tempo ben radicata nella società, né che i media si sono espressi in modo sbilanciato a favore della morte della ragazza: questa volta - bisogna ammetterlo - i mezzi di comunicazione sociale sono stati più onesti che in altre occasioni, e la voce dei cattolici si è potuta far sentire anche al di fuori dei media d'ispirazione cattolica. E si sa che su temi gravi come la vita e la morte la Chiesa, soprattutto in Italia, esercita ancora una certa influenza, come si è visto per la legge sulla procreazione assistita.

Questa volta, però, sembra che la voce del pensiero cattolico sia stata poco ascoltata, come se le ragioni che portava a favore della vita di Eluana non fossero abbastanza convincenti. Certo, ha giocato ancora una volta il meccanismo del caso pietoso: in questa circostanza non del dolore di Eluana - i medici giurano che non sente più niente, e che non si accorgerà di morire di fame e di sete! - ma di suo padre.

Come se il padre, con la morte della figlia, cessasse di soffrire: è questo il paradosso davanti al quale, però, nessuno ha saputo obiettare.

La paura della sofferenza costituisce il movente base di tutte le decisioni sbagliate di intervento su fine vita: lo sanno bene quanti fanno propaganda per l'eutanasia prospettando un futuro senza sofferenza. Ed è proprio sulla riflessione a proposito del significato della sofferenza - che solo il cristianesimo sa affrontare - che dovremo invece ripartire per impedire che casi come questo si ripetano. La tradizione cattolica offre delle luci certe e chiare per decidere in queste complesse circostanze: il valore della vita umana dal concepimento alla morte naturale, qualunque sia la condizione in cui è vissuta, anche se i casi da affrontare cambiano in continuazione, diventando via via più inediti e complicati.

Questo è proprio il caso di Eluana: all'obiezione, condivisa da tutto il pensiero cattolico, che alimentazione e idratazione non fossero terapie né accanimento, ma solo sostegno vitale, si è risposto dall'altra parte che si trattava di un mantenimento in vita artificiale, che ancora qualche decina di anni fa non sarebbe stato possibile.

Dove stava, allora, la morte naturale? In sostanza si rispondeva che la situazione di Eluana era stata provocata da un intervento della scienza - cioè un tentativo di rianimazione che in molti casi riesce, ma in questo è andato male - e che quindi anche la sua disabilità stava al di fuori della sfera naturale. Se la scienza l'aveva ridotta in quello stato, insomma, alla scienza spettava il dovere di decidere di sospenderlo.

Come si vede anche da questa breve ricognizione, si tratta di un problema più complesso del solo conflitto fra vita e morte, anche se sostanzialmente si può ridurre a questo. È cioè una questione che tocca il ruolo delle tecnoscienze nella nostra vita, i limiti della medicina, e che quindi, per essere veramente convincenti, richiede un esame anche di queste questioni. La terribile sorte di Eluana, allora, è un monito per tutti, e insegna a noi cattolici che dobbiamo ancora pensare e lavorare per diffondere i nostri principi - che sono principi di ragioni condivisibili anche da chi cattolico non è - e calarli ogni volta nelle nuove questioni che il progresso scientifico crea.


(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2008)


Il limpido riconoscimento di un fatto elementare
Marina Corradi su Avvenire 15 novembre 2008

«Se c’è chi la considera morta, lasci che Eluana resti con noi che la sentiamo viva». Le parole delle suore della clinica di Lecco che da molti anni assistono Eluana Englaro stanno in undici righe (la sentenza della Cassazione che non ha ammesso il ricorso contro la sospensione di alimentazione e idratazione alla malata è lunga invece ventuno pagine fitte di giurisprudenziale sapienza).

È una ragione semplice quella delle suore, che sa dirsi in così poche parole, senza condanne, senza alcuna retorica: «Lasciatela a noi, che la sentiamo viva». Dove il 'sentire' non è sfumatu­ra sentimentale o pietosa, ma percezione elementare della realtà. Dopo sedici anni di stato vegetativo, Eluana Englaro respira tuttavia autonomamente, e vive del nutrimento e dell’acqua che le arrivano da una sonda. Nessuna macchina le ventila i polmoni o si accanisce a tenerla forzosamente in vita. In stato vegetativo, incosciente, tuttavia la malata – è un’evidenza – è viva.

La ragione semplice di quelle poche parole pronunciate a bassa voce è qui, prima di tutto: nel riconoscimento limpido di un fatto elementare. Riconoscono viva Eluana, le suore che da anni giorno e notte le stanno accanto in una stanza: testimoni di una malattia, una sofferenza, di una lontananza che nella sua drammaticità non può però negare l’evidenza di un respiro che li­bero persiste.

Chiedono, le suore della clinica Beato Luigi Talamoni, che Eluana non venga fatta morire di sete e di fame. E anche qui, la semplicità delle loro parole è assoluta. Ciò che molti chiamano «vittoria dello Stato di diritto», ciò che è palestra sui giornali di abili argomentazioni, per bocca delle suore di Lecco si rivela nella sua scabra brutalità: morirà, Eluana, di lento sfinimento, solo la mancanza d’acqua e di nutrimento potendo aver la meglio di quel suo ostinato respiro. L’urto tra le undici righe – non una parola che non sia essenziale – e la dotta complessità delle 21 pagine di diritto della sentenza, è netto. Ma che cosa sta dietro, e alla radice, di una tale divari­cazione di sguardo? C’è, nella trama lineare dell’intervento delle suore, uno stare di fronte alla realtà data, all’oggettività di un respiro autonomo, pure nel mistero di una coscienza apparentemente per sempre perduta. C’è un inchinarsi davanti all’incomprensibile destino di una giovane donna, e la tenace costanza nell’accompagnarla: lavandola, vestendola, amandola come è, muta e assente, segno enigmatico di mistero e dolore.

Dall’altra parte le ragioni del padre, ai cui occhi quella vita incosciente è un limbo di pena, una condanna infinita da cui proprio per amore, dice, vuol liberarla. Sennonché la vita, agli occhi del signor Englaro e di molti intollerabile, è tenacemente, spontaneamente viva. In un modo agli occhi degli uomini contemporanei assurdo: che vita è, se non vede, non reagisce, non 'fa' nulla? Occorre liberare Eluana dalla crudele schiavitù del suo stesso respiro.

Il contrasto dunque attorno a quel letto d’ospedale è tra la ribellione di uomini che pretendono, perché vivere sia tollerabile, qualità della vita, salute, coscienza, libertà; e l’umiltà del servizio radicale, che non chiede ragioni, non contesta, non pretende standard di 'dignità' minima, e semplicemente riconosce e onora la vita. Il contrasto è in quelle scarne righe da Lecco che mitemente domandano: «Lasciateci la libertà di amare e donarci a chi è debole». In un tempo di dotti, di padroni di sé, di fieri rivendicatori di pretese e diritti, lo scandalo di un ' sì' semplice: capace di quattordici anni accanto a una giovane donna muta e dormiente, senza in cambio nemmeno una parola.


Le parole della Dottrina
a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello
2008-11-14 Città del Vaticano (Agenzia Fides)

Le recenti discussioni sui confini delle possibilità di un ordinamento statale di legiferare, riguardo ai delicatissimi temi della vita e della decisione, eventuale, di riconoscere, o peggio dichiarare, "non-vita" gli stati permanenti cosiddetti "vegetativi", impongono alcune riflessioni.
Innanzitutto noi non crediamo nelle zone d'ombra. Non crediamo che, in un tema tanto delicato, quale quello della vita, ci si possa attardare, talvolta perfino "nascondere", dietro incertezze che, a furia di sfumare le posizioni, riducendole ad opinioni, finiscono per confondere gravemente l'opinione pubblica e perfino i fedeli cattolici.

Non possono esserci zone d'ombra, per una semplice ragione: sul tema della vita è assolutamente necessario essere tuzioristi; dare, cioè, la prevalenza, senza esitazione, alla vita stessa, al "favor vitae": una vita è vita, e deve essere assolutamente rispettata come tale, finché non è, con certezza scientifica e morale, provato il contrario. Se sussiste anche il benché minimo dubbio, è vita e tale rimane, e nessuno può decidere di interromperla. Applicando questo semplice criterio, le zone d'ombra scompaiono e tutto è improvvisamente più chiaro.

Siamo in un evidente caso nel quale le conoscenze medico-scientifiche sono cresciute più rapidamente della coscienza morale, la quale, al contrario è oscurata da alcuni equivoci storico-filosofici, a dalla "quasi naturale" (dopo il peccato delle origini) pigrizia, degli uomini, a pensare e a verificare il fondamento reale delle proprie opinioni, che dipende da una fondamentale distrazione da se stessi a dalle proprie domande ultime.

Come efficacemente ricordato da Benedetto XVI nell'enciclica Spe salvi: "dobbiamo gettare uno sguardo sulle componenti fondamentali del tempo moderno [...] il ricupero di ciò che l'uomo nella cacciata dal paradiso terrestre aveva perso si attendeva dalla fede in Gesù Cristo, e in questo si vedeva la "redenzione". Ora questa "redenzione", la restaurazione del "paradiso" perduto, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. [...] Questa visione programmatica ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure l'attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto una crisi della speranza cristiana" (nn. 16-17).

Un'idea di progresso, come fattore "redentore" dell'uomo, ha portato con sé una "nuova" (e non, perciò solo, buona), e riduttiva interpretazione delle due categorie fondamentali, che caratterizzano l'uomo, nella sua essenza: la ragione e la libertà. La prima si è trasformata nella semplice misura di tutte le cose, mentre la seconda, svincolata dal problema del vero e del bene, è ridotta a semplice arbitrio soggettivo o, peggio, statale. Tutti conosciamo quale deriva dell'umano abbia rappresentato, anche nella storia recente, l'arbitrio statale, e quali mostruosità abbia portato.

Alla luce di tutto ciò: "È necessaria un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza" (Spe salvi n. 22). Il tema della vita, nel superamento delle "zone d'ombra" e nel recupero della sua assoluta intangibilità, sia l'agone di questo confronto reale, tra età moderna e cristianesimo sperante.
 

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