Al meeting di Milano: "Uomini e Religioni", gli echi di Beslan

Pubblichiamo un'intensa testimonianza dell’eparca di Stavropol’ e Vladikavkaz, Feofan e alcuni dati importanti per conoscere meglio la storia e la situazione del teatro dei tragici eventi

«Io, nella scuola dell'orrore»          torna su

«Chi ha compiuto questo crimine aveva un obiettivo preciso: infiammare l’Ossezia per ottenere la destabilizzazione completa di tutto il Caucaso del Nord. Sono entrati in quella scuola decisi a fare quello che hanno fatto. Ma io conosco il mio popolo. E posso dire con serenità che questo loro disegno fallirà».

Porta al collo un medaglione con una celebre icona del Bambino in braccio alla Madre, il vescovo Feofan. E il pensiero corre subito a quei bambini. Lui stesso, l’eparca di Stavropol’ e Vladikavkaz, se li è caricati in braccio venerdì pomeriggio nella carneficina di Beslan. Presto ne celebrerà i funerali. Ma domenica ha voluto mantenere lo stesso un impegno che aveva preso quando non poteva certo presagire la tragedia che si sarebbe abbattuta sull’Ossezia. Questo vescovo ortodosso russo è venuto comunque all’incontro «Uomini e religioni» promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dall’arcidiocesi di Milano. Per portare questo messaggio preciso: l’Ossezia non cederà a chi vuole usare le religioni per mettere le etnie una contro l’altra.

Eccellenza, come ha saputo di quello che stava accadendo a Beslan?
Mi trovavo in visita pastorale in una città a una sessantina di chilometri, sono arrivato sul posto nel giro di mezz’ora. Era stato allestito un Centro operativo e lì sono sempre rimasto. Ho dato subito la mia disponibilità a trattare con i terroristi. Non ricevendo risposte mi sono rivolto a quelle persone attraverso la tv.

Che cosa ha detto loro?
Ho cercato di portarli sul piano della ragionevolezza. Si dichiaravano tutti credenti: per nessuna Scrittura, ho detto, è lecito uccidere bambini indifesi e innocenti. Purtroppo, però, quando sono usciti i primi e ci hanno raccontato di come li avessero costretti ad appendere al soffitto bombe come fossero ghirlande, ho capito che era già tutto deciso.
Poi sono arrivati i momenti più terribili.
Quando è iniziata la battaglia non sono più riuscito a resistere: sono andato verso la scuola. Mi sono trovato davanti un adolescente nudo, con una gamba ferita. L’ho preso in braccio, l’ho caricato sulla macchina e l’ho portato in ospedale. Poi sono entrato e ho visto qualcosa che non dimenticherò mai: ho visto quei corpicini bruciati, ammassati l’uno sull’altro. Ho visto i loro padri e le loro madri in preda alla follia. E ho capito con grande chiarezza che non può esistere un terrorista buono.

Dopo l’orrore che cosa si può dire, oggi, a Beslan?
Per prima cosa ho chiesto alla mia gente il perdono. Anch’io, ho detto, sono colpevole: forse ho pregato male, forse ho pregato poco. La cosa più importante, però, ora è guardarci da una rabbia incontrollata. Da questi misfatti non deve nascere in Ossezia una contrapposizione di carattere etnico. Non si può mettere sullo stesso piano un bravo e onesto musulmano con un terrorista. La ragione deve predominare sui sentimenti.

Come ha reagito la comunità musulmana locale a questa tragedia?
Ci sono state moltissime dichiarazioni di solidarietà da parte di muftì di tutto il Nord del Caucaso. Hanno espresso una condanna chiara e inequivocabile. Ma il gesto che credo ancora più importante è quello compiuto da alcuni musulmani in Cecenia e in Inguscezia: avevano fatto sapere di essere pronti loro stessi a offrirsi come ostaggi in cambio della liberazione dei bambini.

Che cosa si aspetta ora la gente di Beslan dalla comunità internazionale?
Una condanna chiara, senza doppie misure, di ogni atrocità. Il terrorismo è terrorismo dappertutto. Non ci possono essere luoghi dove chi compie stragi è considerato un combattente per la libertà. Per il Caucaso purtroppo è già successo: persone che avevano commesso crimini sono state accolte come rifugiati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Non deve più accadere, perché il terrorismo è uno solo e può colpire ovunque. Devono capire che da nessuna parte, mai, verranno accolti come partner degni di questo nome. Serve una collaborazione nuova: negli anni della guerra fredda Est e Ovest si sono serviti anche di gruppi terroristici per sostenere i propri interessi. Insieme ora dobbiamo combattere questa piaga. È l’unico modo per vincere questa guerra.

Quanto è decisiva in questa strategia la risoluzione del problema ceceno?
Ci sono tanti modi di leggere quella realtà. Io ritengo che, in tutto il Caucaso, la Russia abbia già adottato un approccio che tiene conto dei bisogni delle comunità locali. In Cecenia si sono svolte elezioni legittime, hanno scelto il nuovo presidente. Ma i separatisti dicono di non accettarle. Se dovessimo accogliere le loro posizioni come dovremmo considerare tutti coloro che in maniera molto chiara sono favorevoli al fatto che la Cecenia resti parte della Federazione russa? La verità è che i separatisti non vogliono il dialogo. Si contrappongono alla loro stessa gente. Kadyrov, l’ex presidente ucciso, era un ceceno vero, un musulmano fedele. Quale altro scenario, allora, ci può essere?

Da quale abisso può nascere una violenza come quella di Beslan?
Il mondo si è scontrato con un nuovo sistema di totalitarismo internazionale che si chiama terrorismo. Non cercate le radici di questo atto solo in Russia. Sono molto più estese. Da quale abisso è nato l’11 settembre a New York? Chi ha colpito quel giorno le Torri non era gente povera, diseredata. Dal 1977 al 1982 ho svolto il mio servizio pastorale a Gerusalemme. In quel periodo ho visto molti atti terroristici. Ma allora anch’io pensavo che non potessero mai verificarsi nel mio Paese. Invece non è così. Possono colpire in qualsiasi Paese dell’Europa libera se non capiamo che questo terrorismo è un problema che abbiamo in comune.

L’islamizzazione di ampie regioni del Caucaso ha fomentato la situazione?
Il più grande guaio di tutto il territorio ex sovietico è stato l’ateismo di Stato. Ha lasciato la gente spiritualmente affamata e quando si sono aperte le porte si è cominciato a mangiare tutto quello che capitava. Non è stato raro il caso in cui ne è conseguita un’infezione. È il caso, appunto, del wahhabismo tra i musulmani. Ma purtroppo non è stato l’unico.

Beslam ha cambiato la percezione della minaccia terrorista tra la gente russa?
Penso di sì. Come è avvenuto negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, anche in Russia si parla di misure legislative anti-terrorismo che toccheranno aspetti della vita sociale.
C’è, però, chi dice che certe misure potrebbero essere pericolose per una democrazia appena rinata come quella russa.
«Il concetto di democrazia solida è sempre relativo. Vorrei ricordare che la Russia non è un Paese di aborigeni. È il Paese di Puskin, Dovstoevskij, dei grandi filosofi. Non siamo la Repubblica delle banane.

Lei ha visto negli occhi i sopravvissuti della «Scuola 1». Che futuro ci può essere per chi ha vissuto un’esperienza così atroce?
Non dobbiamo spegnere la speranza. Anche nel passato recente ci sono state guerre terribili. Ma Dio ci ha dato un dono eccezionale: la capacità di guardare oltre le tragedie. Per questo ho parlato di perdono. La storia insegna che anche le ferite peggiori si possono lenire.

Oggi tornerà a Beslan. Che cosa racconterà alla sua gente?
Dirò loro che il mondo, tutto, non è con i terroristi ma con chi ha sofferto. E dirò che ho trovato questa comprensione soprattutto qui in Italia. Anche da questo momento così doloroso ho tratto la convinzione che abbiamo un grande futuro in comune.
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Giorgio Bernardelli, su "Avvenire" dell'8 settembre 2004

Enclave cristiana nel Caucaso islamico          torna su

L'Ossezia del nord, in cui si trova Beslan, è una delle più piccole Repubbliche della Federazione, mentre l'Ossezia del sud è in territorio georgiano. L'Ossezia del nord, situata nel Caucaso centrale, in una zona tra i monti Elbrous (5.613 m) e Kazbeck (5.047), conta 700mila abitanti in 8mila kmq, al 60% di etnia osseta e per il 30% russa, e si tratta di una zona cristiana in una regione dove l'Islam è in crescita, considerando la presenza cecena, dell'Inguscezia, dell'Azerbaigian e del relativamente vicino Iran.

Il linguaggio stesso riflette queste influenze perché, dei due principali dialetti, l'iron e il digor, il primo è parlato dalla maggioranza della popolazione e dal dodicesimo secolo caratterizza i cristiani; il digor, più arcaico, è la lingua dei convertiti all'islam nella versione sunnita della "scuola Hanafi" dei diciassettesimo e diciottesimo secolo.
La differenza tra le lingue e le religioni fa in modo che ciascun gruppo si percepisca come un'entità separata, dopo le vicende storiche dell'esodo verso la Turchia e i Paesi islamici di migliaia di osseti parlanti il Digor

La storia ha influenzato anche la letteratura, con il passaggio dall'alfabeto cirillico a quello latino nell'Ossezia cristiana, poi di nuovo al cirillico, mentre nel sud, in territorio georgiano, si procedeva allo sviluppo del georgiano stesso, con continue alternanze fino alla dissoluzione dell'Urss e alla nascita della Georgia come Stato autonomo. Il fenomeno della latinizzazione ha interessato anche il dialetto digor, fino in tempi recenti quando si è proceduto a reintrodurre la scrittura araba.

Dalla caduta del comunismo, nel 1992, la regione è travagliata dai conflitti: prima con la vicina Inguscezia per porzioni di territorio dell'Ossezia del nord, e poi con il conflitto ceceno di cui subisce i contraccolpi vista la contiguità territoriale, e con l'attentato del marzo 1999 che fece 60 morti tra i passanti nel mercato di Vladikavkaz, capitale dell'Ossezia del nord. La regione è ricca di risorse naturali: gas e petrolio ed ha notevoli potenzialità turistiche, oggi inespresse.

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Fabrizio Mastrofini, su "Avvenire" dell'8 settembre 2004

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