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    In un saggio, edito da Cantagalli, lo scrittore tedesco Martin Mosebach accusa le riforme del Vaticano II: avrebbero cancellato la bellezza del rito

«I nuovi iconoclasti hanno distrutto la fede»
di Maria Antonietta Calabrò

[Un brano dal libro]
[LETTURE/ Quel libro proibito di Mosebach che gli restituì la fede]

Proprio nella società dell’immagine la Chiesa ha subito l’attacco di nuovi iconoclasti, che attraverso lo svilimento della liturgia hanno assestato negli ultimi 35 anni un colpo gravissimo alla fede cattolica, determinando «una catastrofe storica e religiosa».

Le tinte usate da Martin Mosebach sono addirittura caravaggesche, la vis polemica non risparmia nessuno.

L’appassionata apologia della bellezza della grande tradizione liturgica della Chiesa viene svolta non da un teologo, non da un canonista, ma da uno dei più importanti scrittori e letterati tedeschi. Cioè, proveniente da una nazione dove più forti sono stati gli stravolgimenti postconciliari. Nazione che ha pure dato i natali all' attuale pontefice, Benedetto XVI, il quale sottolinea sempre più spesso (ad esempio nell’omelia del Corpus Domini) il rischio di secolarizzazione nella Chiesa e che bisogna «rispettare la liturgia».

E che la Chiesa non è un’Ong.

«Il kitsch linguistico, musicale, in pittura e in architettura ha inondato completamente l'immagine esterna degli atti pubblici della Chiesa», scrive Mosebach nel saggio di cui sta per uscire la traduzione italiana. Titolo e sottotitolo non lasciano dubbi. [L'eresia dell'Informe - La Liturgia Romana e il suo nemico] Descrivono L’eresia dell’informe, alludono chiaramente ad un «nemico» mefistofelico dell’antica liturgia romana «che propriamente si dovrebbe chiamare gregoriana», ma viene piuttosto definita tridentina, quasi a sottolinearne negativamente la relazione con la Controriforma.

La pubblicazione riaccenderà sicuramente il dibattito sulla chiusura dello scisma dei lefebvriani, sulla restaurazione della tradizione e anche sul riavvicinamento tra Chiesa cattolica e Chiese orientali che, a partire da quella ortodossa, secondo Mosebach, hanno saputo «preservare» la tradizione plurimillenaria della liturgia più e meglio della Chiesa latina.

«La Messa di San Gregorio Magno, l’antica liturgia latina, si trova oggi riservata a 'frange stravaganti' della Chiesa romana, mentre la liturgia divina di San Giovanni Crisostomo vive in tutto il suo splendore al centro della Chiesa ortodossa».

Al livello del «senso comune», dello scrittore che descrive i comportamenti, Mosebach si mette sulla scia del grande teologo svizzero von Balthasar la cui opera principale è «Gloria, per un’estetica teologica» e il primo volume è intitolato proprio «La percezione della forma». Forma e contenuto non possono essere scissi, afferma Mosebach, diabolicamente (diaballein, separare) separati.

Così come l’uomo è anima e anche corpo. Per questo la forma che la liturgia ha assunto nei secoli, con processo lento e quasi involontario, non è indipendente dal contenuto salvifico della Messa. «Solo santi come Ambrogio o Agostino o Tommaso d’Aquino — scrive Mosebach — avrebbero potuto aggiungere qualcosa alla Messa, non uomini chiusi in un ufficio, nemmeno abitando nella Città del Vaticano».

Così «il modernizzatore e progressista Paolo VI» s’è fatto «tiranno della Chiesa » secondo l’accezione della parola data nell’antichità quando «l’interruzione della tradizione da parte del sovrano era definita atto di tirannia».

L’unico paragone storico adatto per descrivere questa guerra alla «bellezza della liturgia», questo volto visibile del Mistero, secondo Mosebach è l’iconoclastia bizantina, tra il l’VIII e il IX secolo, la cosiddetta guerra delle icone. Però la iconoclastia liturgica della nostra epoca ha questo di diverso: «Ai miei occhi, sorge per ischemia e infiacchimento religiosi». Nella sua essenza costituisce un oblio: «Ciò che vale per l’arte, in misura ancora superiore deve riguardare la preghiera pubblica della Chiesa: il brutto non può che derivare dal non vero e, nell’ambito della religione, questo significa la presenza del satanico».

L’intellettuale tedesco dà questa impietosa definizione: «Il modello della nuova liturgia è il tavolo presidenziale di una riunione di partito o di una associazione con microfono e fogli, a sinistra sta un vaso ikebana con piante esotiche bizzarre di colore arancio con vecchie radici, a destra si trovano due luci da televisione posate su candelieri fatti a mano. Con dignità e raccoglimento, i membri del consiglio di amministrazione guardano il pubblico, come i chierici durante una concelebrazione. Una tale assemblea, regolata da un democratico ordine del giorno, è il fenotipo della nuova liturgia, e questo non è altro che una conseguenza inevitabile del fatto che chi non vuole il mistero sovratemporale, questi inevitabilmente approderà alla realtà politica e sociale».

Una terza via non è data, spiega l’Autore. Naturalmente ogni tanto si giunge a rotture: «Vi sono chierici che non trovano semplice fissare il volto che conviene alla consacrazione. Qual è l’espressione del volto che si addice alla consacrazione?».

Cosicché il successo della celebrazione è data dalla «performance» del prete. E sull’altare, al posto del Crocefisso, c’è il microfono per la predica, di vari tipi: «untuosa o saccente, intellettuale o rimbombante, intimistica o sobria».

E non mancano le light night candles. Una citazione di Goethe, un dialogo di Faust che esprime il giudizio senz’appello dell’Autore: «Ho spesso sentito questo vanto / un commediante potrebbe insegnare ad un prete. / Certo se il prete è un commediante / talvolta questo è quello che può diventare».

Sull’altro fronte, quello dei fedeli, c’è la tanto spesso invocata loro «partecipazione attiva» alla Messa. Ma cosa ci fu di attivo nella Lavanda dei piedi — si chiede — visto che addirittura san Pietro vi si voleva sottrarre? Per i fedeli è anche indifferente stare in piedi o seduti. Quasi mai in ginocchio. Mentre è «attraverso i segni dell’adorazione, che ho potuto vedere fin dalla mia prima giovinezza — afferma Mosebach — l’Ostia è divenuta per me ciò che essa, secondo la tradizione della Chiesa esige di essere: un Essere vivente».

© Copyright Corriere della sera, 13 giugno 2009


29 giugno 2009. L'opera ha fatto scalpore e ne sono state pubblicate parecchie recensioni. È stata in particolare riportata questa icastica definizione della nuova messa «Il modello della nuova liturgia è il tavolo presidenziale di una riunione di partito o di una associazione con microfono e fogli, a sinistra sta un vaso ikebana con piante esotiche bizzarre di colore arancio con vecchie radici, a destra si trovano due luci da televisione posate su candelieri fatti a mano. Con dignità e raccoglimento, i membri del consiglio di amministrazione guardano il pubblico, come i chierici durante una concelebrazione. Una tale assemblea, regolata da un democratico ordine del giorno, è il fenotipo della nuova liturgia, e questo non è altro che una conseguenza inevitabile del fatto che chi non vuole il mistero sovratemporale, questi inevitabilmente approderà alla realtà politica e sociale».

Brano tratto dalla edizione del 27 giugno scorso de Il Domenicale

Forse il danno più grave della riforma della Santa Messa di Papa Paolo VI e dello sviluppo che ne è derivato, e che ha superato di gran lunga la riforma stessa, la perdita spirituale più grande, è questa: essa ci costringe ora a parlare della liturgia. Anche chi vuole custodire la liturgia, anche chi vuole pregare nel suo spirito, anche chi resta fedele ad essa con grandissimi sacrifici, ha già perduto qualcosa di inestimabile: l’innocenza di assumerla come qualcosa dato da Dio, qualcosa donato dall’alto, dal Cielo agli uomini. Come difensori della grande liturgia santa, della liturgia romana classica, siamo tutti divenuti grandi o piccoli liturgisti. L’abbellimento scientifico, archeologico e storico della riforma ci ha costretti a confutare queste argomentazioni e dunque ad occuparci del rito e della liturgia, qualcosa che ripugna profondamente all’uomo religioso.

Nell’esame della liturgia ci siamo lasciati traviare da un pensiero di tipo scolastico-giuridico: che cosa è assolutamente necessario perché si possa ancora parlare di liturgia? Quale arbitrio è ancora tollerabile, che cosa invece non può più essere accettato? Ci siamo assuefatti ad accettare le esigenze minime come categoria di valutazione della liturgia, laddove in realtà è soltanto di un massimale che si dovrebbe parlare. In definitiva, abbiamo incominciato a giudicare la liturgia un fatto mostruoso! Abbiamo preso posto nei banchi di chiesa e ci siamo domandati: abbiamo assistito ad una Santa Messa, o questa non è stata una Messa? Io entro in chiesa per vedere Dio, e ne esco trasformato in un critico teatrale. E se poi, di quando in quando, ci è consentito celebrare una Santa Messa, che per tutta la sua durata ci fa dimenticare questa grande catastrofe storica e religiosa, questo deterioramento fondamentale della relazione tra uomo e Dio, sappiamo quali adempimenti sono necessari per poter celebrarla, quante lettere vi stanno dietro, quanti sacrifici hanno reso possibile questo Santo Sacrificio; fra le altre cose abbiamo dovuto pregare anche per un vescovo, che in generale non desidera questa preghiera, che anzi è ben disposto a rinunciare alla menzione del suo nome nel canone della Santa Messa.

Una vita religiosa riservata, giornate che iniziano con una Messa in una quiete raccolta in una piccola e non appariscente chiesa nelle vicinanze, una vita nella quale, guidati con discrezione da sacerdoti, apprendiamo nell’arco di decenni ad unire il nostro sacrificio al sacrificio di Cristo, e in cui, nella Santa Messa, ci prendiamo cura dei nostri peccati e delle grazie a noi concesse, e certo di nient’altro tutto questo, per un cattolico, dopo la distruzione della naturalezza della liturgia, non è più possibile. Mi si potrebbe controbattere che esagero; mi si potrebbe rimproverare che nonostante tutte le devastazioni del culto, la dottrina della Chiesa sul mistero del Sacrificio non è stata intaccata. Papa Paolo VI, il riformatore, ha riconfermato il carattere sacrale del sacrificio della Santa Messa; il suo successore, Papa Giovanni Paolo II, ha fatto la stessa cosa e il nuovo Catechismo contiene la dottrina integrale sulla liturgia, così come essa corrisponde alla tradizione della Chiesa. Questo è esatto; ciò che dice il più alto Magistero sulla Santa Messa appartiene all’antico deposito della fede cattolica. Nella nostra epoca si può considerare certamente un miracolo il fatto che il Catechismo sia potuto apparire, che esso, nonostante i numerosi compromessi nella formulazione, nonostante i lirismi velati, che hanno permesso di spingersi oltre i punti nevralgici, sia divenuto una collatio della dottrina cattolica della fede che ci è stata trasmessa. Sembra quasi che ci si debba vergognare di essere cattolici da quando questa collatio è apparsa. Ma quale significato essa riveste per la vita quotidiana e quella festiva della nostra Chiesa? Lo zar Nicola I, che introdusse severe prescrizioni di censura, fece esonerare espressamente dal dovere della censura i libri che superavano le mille pagine: nessuno infatti avrebbe mai letto tali opere. Tuttavia io non vorrei escludere fra i fatti incontestabili, quello per cui il nuovo Catechismo sia un’opera alla quale nei nostri seminari venga data un’occhiata, al massimo, allo scopo di divertirsi. Io non sono un teologo e non sono un canonista; come scrittore devo scrutare il mondo da una diversa prospettiva. Se voglio sapere in che cosa uno crede, allora non mi aiuta, perdonatemi l’espressione, andare a dare un’occhiata al suo statuto. Io devo esaminare l’uomo, i suoi gesti, i suoi sguardi, i suoi momenti intimi.

Permettetemi di richiamare un esempio. A Francoforte, la Santa Messa secondo l’antico rito, a partire dall’indulto del 1984, veniva celebrata in una piccola cappella insolitamente brutta nel secondo piano di una casa della Fondazione Kolping, trasformata in hotel. Una terribile arte religiosa decorava questo spazio: un simbolo delle cicladi in calcestruzzo come Madonna e un Crocifisso in una colata di vetro rossa che riluceva come gelatina al lampone, erano le immagini sacre a cui fu riservato l’onore dell’incensazione. Non si poteva dunque muovere a nessuno il rimprovero di trattenersi in questa cappella, perché mosso da un estetismo snobistico; questa accusa a buon mercato, così spesso sollevata, non può certo essere mossa al circolo di Francoforte.

I laici, che si riunivano là, sapevano poco di tutto ciò che era necessario osservare nelle preparazioni, essi non conoscevano nessuna usanza di sagrestia e solo lentamente si familiarizzarono con le necessarie conoscenze. Un circolo di donne che avevano l’abitudine di pregare insieme, incominciò a interessarsi allora alla biancheria dell’altare; è di queste donne che vi voglio raccontare. Queste chiesero un giorno, agli amministratori della Cappella, che cosa propriamente avvenisse dei purificatoria impiegati, dei fazzoletti con i quali il sacerdote raccoglie dal calice le gocce rimaste del vino trasformato. Essi finiscono insieme ad altro bucato nella lavatrice, rispose l’amministratore. Le donne, alla Messa successiva portarono un sacchetto che avevano confezionato. Quindi chiesero il purificatorium impiegato e lo misero nel sacchetto. In questo modo che cosa volevano fare? «Questo è comunque imbevuto del sangue prezioso che non può essere versato nello scarico». Il fatto che in passato la Chiesa abbia prescritto che il sacerdote stesso debba curare il primo lavaggio del purificatorium, il fatto che l’acqua di tale lavaggio sia quindi da versare nel sacrarium o nella terra, tutto questo non era a conoscenza delle donne. In ogni caso esse si opponevano a che questo fazzoletto fosse trattato come l’altro bucato, e istintivamente fecero ciò che una antica prescrizione, ora trascurata, esigeva. «È come lavare il giaciglio del Bambino Gesù», diceva una di queste donne. Quando l’ascoltai, ne rimasi colpito. La devozione popolare diventava qui qualcosa di concreto. La vidi quando lo lavò a casa, dopo aver prima recitato un rosario. Portò l’acqua del lavaggio nel giardino davanti a casa, versandola in un angolo in cui crescevano fiori particolarmente belli. Alla sera coprì poi l’altare nella cappella insieme ad un’altra donna. Questo aggiustamento della lunga e stretta coperta era difficile. Entrambe le donne erano molto concentrate, ma allo stesso tempo mosse da una sollecitudine trattenuta, come se avessero cura, con sobrietà ed efficienza, di un uomo che esse amavano. Io ho assistito a queste preparazioni con curiosità crescente. Di che cosa si trattava? In tutti i racconti della Resurrezione, il discorso cade sulle vesti ripiegate angelicos testes, sudarium et vestes, come si dice nella sequenza pasquale. Non vi è alcun dubbio che queste donne, in quella brutta cappella al secondo piano, erano le donne presso il sepolcro. Esse vivevano nella continua, indubitabile, realmente vissuta presenza di Gesù. In questa presenza esse rimanevano in modo naturale, in modo conforme alla loro nascita e al loro livello culturale. La loro vita era adorazione, che si traduceva in azioni molto precise, molto pratiche: era liturgia. Osservando queste donne, compresi che esse credevano alla reale presenza di Gesù nel Sacramento dell’altare. La fede è questo: ciò che noi facciamo con naturalezza.

Ma quando questa naturalezza si presenta in una qualsiasi chiesa di una grande città? Difficilmente uno si inginocchia alla consacrazione, spesso nemmeno il sacerdote fa una genuflessione adeguata davanti alle offerte trasformate. Una signora va a prendere le ostie per la comunità da un piccolo armadietto dorato, sistemato lateralmente, premurosa e sicura, come se dovesse estrarre un medicamento dall’armadietto dei farmaci. Essa mette le ostie nella mano dei comunicandi; nessuno mostra per esse la riverenza di una genuflessione o di un inchino.

L’epoca dell’iconoclastia è durata a Bisanzio oltre un secolo, incluso anche un pezzettino di calcolo ecumenico, connesso all’Islam e alla sua iconoclastia. L’iconoclastia romana dopo il Concilio Vaticano II, presentita nel secolo passato da Dom Prosper Guéranger, ha ricevuto il suo nome: eresia antiliturgica. A Bisanzio, dopo incommensurabili distruzioni, fu l’immagine santa a vincere. Intransigenti monaci avevano preso le icone sotto la loro difesa. Anche noi abbiamo bisogno di molti sacerdoti inflessibili che custodiscano per noi il santo rito dell’Incarnazione. È nella loro ubbidiente disubbidienza che ripongo tutta la mia speranza.


LETTURE/ Quel libro proibito di Mosebach che gli restituì la fede
Giuseppe Reguzzoni

Non si può che essere grati alla piccola ma coraggiosa casa editrice Cantagalli di Siena per aver pubblicato, dopo un lungo periodo di voluta censura da parte di altre e più consolidate case editrici cattoliche, il bel libro di Martin Mosebach, Eresia dell’informe. La liturgia romana e il suo nemico, duecentocinqua pagine che si leggono d’un fiato, per diciassette euro, spesi benissimo. Merito, certamente, anche dell’accurata edizione in lingua italiana, curata da Leonardo Allodi.

Un solo, piccolissimo rilievo iniziale: l’edizione italiana è stata condotta su quella tedesca del 2007, cosa molto corretta sul piano editoriale, ma forse al lettore italiano può sfuggire che la prima edizione originale è del 2002, data che non è indicata e che ha una sua importanza. Non è filologismo. La distanza cronologica tra l’edizione italiana e la prima edizione tedesca testimonia la censura che su questo volume è stata stesa da un certo establishment editoriale cattolico e, dunque, il suo estremo interesse.

Questo, infatti, è uno di quei libri che fanno davvero riflettere, nati dal coraggio di pensare, ma anche dalla gratitudine e dallo stupore. Né si dimentichi che questo era accaduto persino a certe pagine dell’allora cardinal Ratzinger dedicate al medesimo argomento di cui tratta questo libro: la liturgia.

Martin Mosebach, in ogni caso, non è un liturgista di professione e, nel corso della sua opera, più volte ripete di non essere nemmeno teologo. Un po’ come certi poeti, che di se stessi dicono di non essere poeti, che è poi una delle forme più alte di poesia. Mosebach, in effetti, è soprattutto un grande romanziere e novelliere, nato a Francoforte sul Meno nel 1951, ma particolarmente legato all’Italia, come spesso accade ed è accaduto al fiore degli intellettuali tedeschi, quelli più autentici e più critici nei confronti della cultura dominante e, proprio per questo, meno graditi al proprio tempo. A Mosebach, tuttavia, non sono mancati dei pubblici riconoscimenti tra cui, in particolare, il prestigioso premio letterario Büchner, il Nobel della letteratura tedesca, conferitogli nel 2007, con grande ira della cricca progressista e politicamente corretta che governa la cultura tedesca (e quella europea). Vuol dire che, malgrado tutto, qualche volta i premi letterari ci azzeccano.

Che, poi, Mosebach sia un grande narratore, lo si vede anche da questo saggio, che ha come tema principale la crisi della liturgia cattolica dopo il concilio Vaticano II.

Si dovrebbe dire la crisi della liturgia della Chiesa latina, perché, come forse non è noto, i cattolici orientali non hanno introdotto variazioni nella loro prassi liturgica negli anni successivi al Concilio, ma oggi, ben pochi usano ancora parlare di Chiesa latina per indicare la molteplicità di chiese nazionali legate alla tradizione liturgica della Chiesa di Roma. Detto questo, spazziamo subito via un equivoco e ricordiamo che Mosebach non è un tradizionalista negatore del concilio Vaticano II che, come può verificare chiunque, nella Sacrosanctum Concilium non solo non ha affatto abolito l’antica liturgia romana, ma ne ha ribadito il valore, quanto alla lingua sacra, il latino, e quanto alla sostanza teologica.

Questo volume è, appunto, un saggio, ma con pagine che risultano narrate e quasi parlate, innovativo, dunque, nella forma, che riesce ad andare al di là della trattatistica convenzionale, e nei contenuti.

Il tema centrale è dunque la crisi che ha investito la liturgia latina a partire dalla riforma liturgica di papa Paolo VI. La critica che percorre tutta l’opera va contro ciò è ormai molti studiosi chiamano l’ideologia postconciliare, che è altra cosa dal Concilio come tale e che ha come presupposto sostanziale la cosiddetta ermeneutica della rottura.

È da questo fronte, non a caso, che è scaturita la censura a posizioni intelligenti e storicamente coerenti come quella di Mosebach. Sul piano liturgico, e su quello collaterale della musica sacra e dell’architettura, l’assenza di forma, la Formlosigkeit, è la spaccatura tra forma e contenuto introdottasi nel modo di pensare la riforma liturgica postconciliare.

La liturgia è questione di salvezza e la forma della liturgia è Cristo stesso, così come ci è stato comunicato e tramandato nella Chiesa, che è una nel presente e nel passato in forza della comunione dei santi.

Mosebach non è un tradizionalista, nel senso negativo oggi attribuito a questo termine, perché non nega affatto che «si possa celebrare degnamente e con riverenza anche la nuova liturgia di papa Paolo VI» (45), ma evidenzia come proprio il fatto che se ne parli come di una possibilità costituisce un argomento ad essa contrario «nel momento in cui per la sua celebrazione diventa necessario un bravo e devoto sacerdote».

È un rilievo che Mosebach condivide con un testimone di eccezione: «Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. [...] Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. [...] si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. [...] In questo modo si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni» (Joseph Ratzinger, La mia vita).

L’idea di liturgia come dono e come mistero, che caratterizza la teologia liturgica di Ratzinger, ha molto in comune con l’idea di forma liturgica sostenuta e difesa da Mosebach.
Quanto al problema – teologico e dogmatico - della continuità, è stata proprio la sua chiara percezione a spingere papa Giovanni Paolo II, prima, a promulgare l’indulto che rendeva possibile l’uso dell’antico messale, previa autorizzazione del vescovo, e papa Benedetto XVI, poi, a liberalizzare completamente il suo uso, anche senza l’autorizzazione del vescovo, con il Motu proprio Summorum pontificum, del 7 luglio 2007.

Le patene portate in fonderia, le tovaglie arcobaleno buttate sulla tavola della celebrazione, i canti orrendi e spesso eretici (“sei grande Dio sei grande come il mondo mio”), le invenzioni continue a cui siamo costretti ad assistere in certe messe domenicali, la sopravvalutazione della predica e della parola rispetto alla dimensione sacramentale, gli orrori e le devastazioni architettoniche degli edifici ecclesiastici sono conseguenza diretta di questa rottura della tradizione e sono la manifestazione evidente dell’«assenza di forma».

«Alle numerosi ondate di distruzione che nella storia del nostro Paese si sono abbattute sui nostri santuari – la riforma, la secolarizzazione [napoleonica] con le sue centinaia di migliaia di profanazioni – ne è seguita una più recente, assolutamente degna dei suoi predecessori per forza distruttiva» (59). Quella che stiamo vivendo per Mosebach è una crisi iconoclasta che mette in qualche modo e in gradi diversi in dubbio il dogma centrale dell’Incarnazione e, dunque, della visibilità e rappresentabilità del Mistero nella storia. La Tradizione, in senso teologico, non ammette soluzione di continuità.

C’è da commuoversi quando Mosebach racconta nel suo volume di come abbia scoperto la bellezza nascosta di questa tradizione e di come essa gli abbia restituito la fede.
«Non sono né un convertito né un proselito», dice di se stesso proprio al principio del saggio, ma lentamente le radici atrofizzate e dormienti della fede hanno in lui ripreso vigore ed è stato, come per molti, «l’incontro con l’antica liturgia cattolica ad aver generato un processo che non è ancora giunto alla fine» (27). Viene in mente Claudel che si converte entrando a Nôtre Dame, stupito dalla bellezza della liturgia che vi veniva celebrata. È l’affermazione di questa domanda di salvezza presente, di bellezze e verità come unità profonda, a vaccinare la posizione di Mosebach da ogni rischio di estetismo.

Questo libro è dunque anche una testimonianza, di come la Tradizione nella Chiesa cristiana sia la strada che può portare sino al principio, alla Forma che dà senso e bellezza alla vita e alle opere dei cristiani; ed è certamente anche un grido, sbigottito come quello del cardinal Ratzinger, di fronte al dramma che ha investito la Chiesa e, dunque, il mondo.

Ma questo libro è anche un viaggio, che ci porta a incontrare luoghi in cui l’antica liturgia è viva l’antico si mostra in tutto il suo splendore contro una febbre di novità che è già vecchia nel momento in cui nasce: il monastero benedettino di Fontgombault, continuatore della gloria di Solesmes; l’umile cappellina ricavata nei locali di un appartamento di Francoforte, dove un sacerdote celebra in quasi clandestinità la Messa tridentina secondo l’indulto di papa Giovanni Paolo II e dove le donne presenti, senza nemmeno saperlo, riscoprono l’antica reverenza verso gli oggetti sacri e, con essa, il valore di una sacralità così vicina al quotidiano. La madre di famiglia che lava con cura il purificatoio con cui il sacerdote ha pulito il calice e che ha raccolto qualche piccola goccia del sangue di Cristo, rovesciando poi quell’acqua nell’angolo del suo giardinetto dove spuntano i fiori più belli, con questo semplice suo gesto riafferma il valore totale e assoluto della transustanziazione, sine glossa, senza condizionamenti e travisamenti che non sono poi che adattamenti allo spirito del nostro tempo.

Cristo è il giudice del tempo, non è ne è il suddito. E proprio per questo - paradossale motivo di speranza - può anche esserci, e c’è, l’«ubbidienza disubbidiente» di tanti sacerdoti che riscoprono la continuità della Tradizione, magari, contro le opposizioni aperte o subdole dei loro vescovi al Motu proprio di papa Benedetto XVI.

È l’ubbidienza disubbidiente che già fu di sant’Atanasio, il coraggioso vescovo che si oppose all’arianesimo ormai accettato da gran parte dei suoi confratelli nell’episcopato. Mosebach quest’ultimo esempio non lo fa, è troppo umile, troppo legato alla presentazione della situazione presente. Ma è un esempio che balza alla mente a chi ha affrontato lo studio delle grandi crisi attraversate dalla Chiesa nella sua storia.

La lex credendi è la lex orandi. Se cade l’una, cade anche l’altra. Si crede quel che si prega e si prega quel che si crede. Non si prega che in ginocchio, scrive Mosebach, e, allo stesso modo, non si crede che in ginocchio, perché chi entra in chiesa cerca il mistero, il sacro; non l’orizzontalità in cui siamo già immersi, ma la verticalità capace di ridare significato a quest’ultima. Dopo anni di ubriacatura comunitaria si torna a parlare di mistero e, per dirla con Guardini, di “santi segni”.

È velato il mistero della liturgia. Sin dal suo principio è un continuo velarsi, tant’è che i suoi riti iniziano «con la copertura del celebrante rivestito con diverse vesti che, insieme, hanno un carattere simbolico», in cui «diventa chiaro che le qualità del carattere e virtù come la castità, la fortezza e l’umiltà, associate con brevi preghiere ai singoli capi di abbigliamento, vengono realmente accolte come parti dell’armatura, di cui parla san Paolo» (147).

Ma questo velarsi, tanto misterioso, è altra cosa dal misticismo misterico: «un razionalismo particolarmente sobrio attraversa la letteratura liturgica occidentale, un non-voler-sapere particolarmente accentuato di quale sia la relazione tra la singola norma liturgica e la storia delle religioni». «Non c’è nulla che la Chiesa cattolica tema di più quanto l’essere associata nei suoi riti, alla magia e alla prassi» magica» (163). È velato questo mistero, di un velo che non è stato posto da mani d’uomo, perché «l’offerta velata è Cristo prima della Crocifissione, non ancora sacrificato, non ancora segno di contraddizione sollevato in alto, essa è anche Cristo velato che attende di essere spogliato dei suoi vestiti». In questo velarsi e disvelarsi il Mistero si fa presente ed è un mistero di kenosi, di annichilimento nell’abbandono. Forse la tragedia che ha investito la Chiesa latina in questo lungo autunno è parte di questa kenosi, forse si tratta di una grande prova di fede. All’inizio del suo libro Mosebach constata con amarezza che la riforma liturgica ha già sortito un effetto nel momento in cui ci costringe a parlare di liturgia, a discuterla come se fossimo noi a decidere di essa, ma, almeno, forse, questa amarezza può, se lo desideriamo autenticamente, divenire consapevolezza e libera scelta di cercare e riabbandonarci al Mistero.

© Copyright Il Sussidiario, 25 settembre 2009


Vedi anche, nel sito: Un autore censurato. Ma a volte i premi letterari ci azzeccano

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