Oriana Fallaci si è iscritta alla Compagnia di Gesù
Sandro Magister, espressonline 10 aprile 2006

«Un saggio pubblicato da “La Civiltà Cattolica” fa un’analisi dell’islam estremamente critica, molto simile a quella della celebre scrittrice. Che Benedetto XVI legge e stima» 

La questione islamica
di Roberto A.M. Bertacchini e Piersandro Vanzan S.I.

Uno dei quattro argomenti toccati da Benedetto XVI e dai cardinali nel giorno “di riflessione e preghiera” dell’ultimo concistoro, lo scorso 23 marzo, è stato l’islam.

O più esattamente: “la posizione della Chiesa Cattolica, e della Santa Sede in particolare, di fronte all’islam, oggi”.

La discussione era segreta, ma alcuni cardinali hanno poi riferito che in essa sono emersi giudizi molto più preoccupati che in passato circa la sfida portata dall’islam al cristianesimo e all’Occidente, e un generale consenso a Benedetto XVI per la sua opposizione energica al terrorismo e alle violazioni della libertà religiosa.

Un mese prima, il 20 febbraio, ricevendo il nuovo ambasciatore del Marocco presso la Santa Sede, Ali Achour, papa Joseph Ratzinger aveva reclamato con forza il rifiuto della violenza e il pieno rispetto della libertà religiosa, “in maniera reciproca in tutte le società”.

E il 22 marzo, alla vigilia del concistoro, il papa, tramite il proprio segretario di stato Angelo Sodano, aveva inviato al presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, la pressante richiesta di liberare il cittadino afghano Abdul Rahman, condannato a morte per essersi convertito al cristianesimo.

Rahman è stato in effetti liberato e trasferito in Italia sotto protezione. E di ciò ha ringraziato Benedetto XVI.

Ma questo approccio più energico alla questione islamica si ritrova anche nelle analisi che la Chiesa fa del fenomeno?

La risposta è sì. Una prova lampante è un saggio apparso sull’ultimo numero di “Studium”, un’autorevole bimestrale italiano di cultura cattolica fondato nel 1906, stampato dall’omonima casa editrice e oggi diretto da due studiosi di grande prestigio: Vincenzo Cappelletti, filosofo della scienza e direttore dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, e Francesco Paolo Casavola, giurista, ex presidente della corte costituzionale. Tra i collaboratori assidui di “Studium” vi fu anche Giovanni Battista Montini, divenuto papa con il nome di Paolo VI.

Il saggio ha per titolo “La questione islamica”, occupa 30 pagine della rivista, è corredato da un ampio apparato di note ed è in grande evidenza a partire dalla copertina, su cui spicca un minareto tra i grattacieli di una città occidentale.

Ma il dato più interessante sono gli autori, Roberto A.M. Bertacchini e Piersandro Vanzan, in particolare il secondo dei due. Vanzan è gesuita, è professore di teologia pastorale alla Pontificia Università Gregoriana e soprattutto fa parte del collegio degli scrittori di “La Civiltà Cattolica”, la rivista della Compagnia di Gesù che è stampata con il controllo e l’autorizzazione delle autorità vaticane.

Per il suo contenuto esplosivo, era impensabile che il saggio di Bertacchini e Vanzan uscisse su una rivista strettamente legata, per statuto, alla Santa Sede e rappresentativa della sua linea ufficiale.

Ma il fatto che il saggio abbia come autore principale un gesuita di “La Civiltà Cattolica” e che a pubblicarlo sia una rivista cattolica autorevole come “Studium” è pur sempre un segnale importante.

Chi ha letto “La rabbia e l’orgoglio” e gli altri scritti sull’islam di Oriana Fallaci – autrice di fama mondiale che da molti anni vive a New York – troverà nel saggio di Bertacchini e Vanzan molti punti in comune.

Oriana Fallaci è critica acerrima delle ragioni religiose e culturali che a suo giudizio alimentano la sfida del mondo musulmano all’Occidente e alla cristianità, che difende a spada tratta pur essendo atea dichiarata.

È anche grande ammiratrice di Benedetto XVI. Il quale ha letto vari suoi libri e l’ha ricevuta in udienza privata lo scorso 1 agosto, a Castel Gandolfo.

L’unico punto sostanziale che separa l’analisi di Oriana Fallaci da quella di Bertacchini e Vanzan è che mentre la prima ritiene l’islam irreformabile e incompatibile con l’Occidente cristiano, i secondi ammettono che un’integrazione tra le due civiltà sia possibile, per quanto estremamente difficile.

Si sa che anche Benedetto XVI ammette quest’ultima possibilità.

Ecco qui di seguito un estratto del saggio, molto più ampio, pubblicato su “Studium” di gennaio-febbraio 2006:



La questione islamica                                                          
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di Roberto A.M. Bertacchini e Piersandro Vanzan S.I.


Il terrorismo islamico è una assai complessa risposta all’incontro con l’Occidente, da esso percepito come una minaccia devastante, mortale.

Alla fine degli anni Ottanta vi fu in campo islamista un serrato confronto tra le posizioni di Abdullah Azzam e quelle più oltranziste di Ayman Al-Zawahiri, vero ideologo del jihad nella forma attualmente assunta, che include nella categoria di nemico anche gli “erodiani”, ossia i collaborazionisti con l’Occidente. Il 24 novembre 1989 Azzam cadde vittima a Peshawar di un attentato e lo “zelota” Al-Zawahiri ebbe campo libero.

Per gli zeloti tutto ciò che viene dall’esterno è come un veleno per le loro tradizionali forme di vita, perciò essi ritengono che ci sia un solo modo per evitare la catastrofe culturale: espellere l’invasore e chiudere ermeticamente le frontiere, di modo che nulla possa più inquinare e corrompere il loro macrocosmo. Questa è in parte la posizione di Osama Bin Laden, contrario alla presenza americana non solo in Iraq, ma anche in Arabia Saudita.

Ma contro la civiltà occidentale questo programma difensivo sarebbe comunque irrealizzabile. Essa, infatti, a differenza di tutte le civiltà precedenti, non è di tipo locale, ossia territorialmente circoscrivibile. La pervasività del villaggio globale è tale che vi è un solo modo per sottrarsi alla sua morsa: distruggerlo. Ed è appunto questo il programma ideologico di Al-Zawahiri, perseguito con una complessa strategia. Alla formula “modernizzare l’islam” egli ne sostituisce un’altra: “islamizzare la modernità” e perciò l’Occidente.

All’interno del mondo musulmano, islamizzare significa deoccidentalizzare tutto: dalle istituzioni politiche e culturali a quelle economiche, fino a ripensare lo stesso operato delle banche. All’esterno, significa diffondere l’islam con una potente azione missionaria sia in Europa, sia negli Stati Uniti: azione sostenuta soprattutto dall’Arabia Saudita. Ma, secondo interpretazioni più radicali, islamizzare l’Occidente significa aggredirne con violenza il potere politico e l’economia, senza escludere di colpire la popolazione civile.

Questo programma panislamizzante può far sorridere, come a suo tempo non pochi sorrisero davanti a Hitler, prima della sua ascesa politica. Invece è un programma vero, che è attuato secondo un disegno lucido, e che, seppure lentamente, sta macinando successi.

Che il programma sia vero emerge in molti modi.

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Il primo dato macroscopico è che dall’Afghanistan al Kashmir alla Cecenia al Daghestan all’Ossezia alle Filippine all’Arabia Saudita al Sudan alla Bosnia al Kosovo alla Palestina all’Egitto all’Algeria al Marocco gruppi consistenti hanno sferrato una guerra all’Occidente. Impossibile pensare che si tratti di attacchi del tutto indipendenti gli uni dagli altri.

Il secondo dato macroscopico è il terrorismo, soprattutto se si ha la pazienza di percorrere il filo rosso che dal 7 luglio 2005 risale al 1969, all’aereo partito da Roma Fiumicino che Leila Khaled dirottò e fece esplodere a Damasco.

Il 1972 è l’anno delle Olimpiadi di Monaco e del relativo eccidio. Ma già il 16 agosto di quello stesso anno un aereo diretto a Tel Aviv esplode per un mangianastri al tritolo regalato a due turiste inglesi da due corteggiatori arabi. Se oggi vi ripensiamo viene freddo: Al-Qaeda è una novità molto relativa. Corteggiare due donne per provocare una strage significa infatti essere radicalmente imbottiti di ideologia. E significa che vi è un’articolazione tra ideologia e organizzazione. Il mangianastri al tritolo, infatti, non lo vendono dal ferramenta. Meno che mai due arabi incontrano per caso due turiste che vanno a Tel Aviv e per caso viene loro in mente di fare un attentato, e sempre per caso hanno pronto un amico che fornisce loro il pacchetto-sorpresa. Ma già nel 1970 c’erano stati ben sei tra dirottamenti e aerei saltati in aria o esplosi in volo.

Le condizioni di realizzabilità dell’attentato del 16 agosto 1972 sono così complesse che esigono un disegno pianificato da anni, dotato di strutture propagandistiche eccellenti e di risorse economiche e umane di prim’ordine. Il senso morale delle persone non si altera in cinque secondi. Quelle ragazze probabilmente erano pure carine e magari vi era anche stato del tenero. Mettendo in parallelo questo episodio con la strage nella scuola di Beslan del 2004, con i centocinquanta bambini uccisi, con i tre giorni di sevizie e la tortura della sete nella palestra, con le bambine prima stuprate e poi uccise, vediamo all’opera una ferocia talmente opposta al comune senso morale da esigere una carica ideologica assoluta. E una tale ideologia, che ha base religiosa, esige che proprio tra i teologi si annidino i teoreti del terrore.

Il terzo dato è l’antisionismo. Osserviamo la “consecutio temporum”. Nel 1967 abbiamo la guerra dei sei giorni, ossia la grande umiliazione islamica. Nei primi attentati degli anni Settanta l’antisionismo è evidente: clamoroso l’episodio di Monaco. Nel 1973 abbiamo la guerra del Kippur, che di nuovo vede paesi islamici soccombere. Ma il 16 e 17 ottobre di quell’anno, ossia durante la guerra siro-egiziana contro Israele, l’OPEC tenne una conferenza a Kuwait City che stabilì:

  1. la quadruplicazione del prezzo del greggio;
  2. l’embargo a Stati Uniti, Danimarca e Olanda;
  3. la progressiva diminuzione del petrolio estratto;
  4. l’impegno ad estendere l’embargo ai paesi che non avessero sottoscritto le loro condizioni;
  5. di includere nelle condizioni politiche da far accettare ai partner economici il ritiro di Israele dai territori occupati, il riconoscimento dei palestinesi, la presenza dell’OLP alle trattative di pace, l’applicazione della risoluzione 242 dell’ONU.

È un dato oggettivo che Israele al suo costituirsi non fu riconosciuto dai paesi islamici. E sino alla fine l’ostilità di Saddam Hussein nei suoi confronti fu aperta. Dunque vi è una convergenza evidente delle politiche economiche, militari e terroristiche. Dopo gli attentati di New York, di Madrid, di Londra, di Sharm El Sheik, non vedere che il sincronismo è un dato quasi maniacale di questo islam sarebbe da ciechi. Ma il sincronismo c’è anche tra la conferenza dell’OPEC e la guerra del Kippur. Il sincronismo è un messaggio culturale rivolto all’interno del mondo musulmano, un modo eminente per affermare che l’islam è unito e coordinato.

Il quarto dato è la missionarietà e il quinto è l’immigrazione. Aisha Farina, italiana di Milano convertita all’islam che per Bin Laden ha pubblicamente attestato la propria venerazione come davanti a una guida ben guidata, ha dichiarato: “Può darsi che tutti gli italiani finiscano per convertirsi. In ogni caso vi conquisteremo pacificamente, perché ad ogni generazione ci raddoppiamo. Voi invece siete a crescita zero”.

Ma l’islam avanza anche in altro modo. In Sicilia, a Mazara del Vallo, dalla fine degli anni Settanta vi è una comunità tunisina che ha ottenuto di rimanere tale a tutti gli effetti, con scuole tunisine, insegnanti mandati da Tunisi, leggi tunisine, eccetera. E così la poligamia è illegale, ma la si tollera. In altri luoghi l’islam apre scuole abusive, ma non si interviene. Si pratica l’infibulazione sulle donne, ma nessuno è processato. Nell’insieme ciò induce un’asimmetria dei cittadini davanti alla legge, in forza della quale alcune minoranze da tutelate divengono privilegiate. E ciò prova l’incompatibilità tra multiculturalismo radicale e stato di diritto.

Ma a questa strategia vi è un ostacolo: le truppe americane sul suolo islamico. Da qui derivano due linee politiche diverse non per il fine perseguito, ma per le strategie concepite. Bin Laden infatti – ma sicuramente anche l’Iran e forse il Pakistan – considera che il grilletto petrolifero alla fine peserà meno del grilletto atomico. Cioè il ricatto del petrolio non potrà durare a lungo per due motivi: uno è che non si può alzare il prezzo del greggio fino a rendere più economiche altre fonti di energia. L’altro è che quando l’Occidente sarà veramente messo alle strette, reagirà con le armi. Ecco perché occorre una strategia diversa, che portando la guerra in casa all’Europa e all’America impedisca l’uso del grilletto atomico. Ma per fare questo occorrono capitali ingenti e disporre delle leve di governo attualmente in mano a musulmani meno radicali. E così la linea politica terroristica marcia su due direttrici parallele: combattendo i regimi islamici “moderati” e attuando attentati spettacolari in Occidente, per rafforzare il proprio prestigio agli occhi del mondo musulmano e legittimarsi alla sua guida. Se questi sono gli scenari plausibili, anche la politica di George W. Bush assume una intelligibilità totalmente diversa. È la politica del controgrilletto. È una scelta di cui si tratterà di verificare la validità.

Il sesto e ultimo dato sono i sentimenti di gioia esternati dalla popolazione islamica nelle piazze, sui siti internet e anche a mezzo stampa sia dopo l’11 settembre 2001, sia dopo la mattanza dell’uragano Katrina, definito “soldato inviato da Dio” dal quotidiano kuwaitiano “Al-Siyassa”. Se si arriva a gioire per cose così orribili, tale gioia spezza la naturale solidarietà umana e precisa il senso dell’espressione “cani infedeli”. Un massacro di cani non mi tocca, non sono uomini. E questo è razzismo, e occorrerebbe cominciare a chiamarlo per nome, traendo poi le debite conseguenze.

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Insomma, l’islamizzazione dell’Occidente non è un fantasma né una paura: è un’intenzione e un fatto che emerge dall’esame obiettivo dei dati.

L’islam moderato, propriamente, non esiste perché non esiste una teologia islamica istituzionale e moderata. Esistono musulmani moderati, anche a volte lungimiranti. Invece l’islam, ossia la cultura istituzionale religiosa dei musulmani, nel suo incontro con la modernità ha reagito arroccandosi su posizioni fondamentaliste. E questo non solo in Iran o in Pakistan, ma anche in Egitto.

Vi è quindi una convergenza oggettiva fra il trend teologico islamico e l’ideologia dei terroristi. Per fortuna non tutti gli imam hanno il medesimo zelo jihadista, ma il problema è che l’islam moderato non c’è, ossia non esiste una teologia islamica che abbia integrato la modernità. Ecco perché non solo sarebbe prudente, come già sosteneva il cardinale Giacomo Biffi, scoraggiare l’immigrazione islamica in Europa, ma sarebbe addirittura autolesionistico incoraggiarla senza esigere contropartite in termini di integrazione.

L’islam non è compatibile con le liberaldemocrazie per ragioni più forti e profonde di quanto di solito si pensi: non è solo questione della poligamia, del velo, del venerdì, eccetera. Cioè non è solo un problema di regole comportamentali, morali, religiose. Lo si vede da come l’islam funziona in casa propria. In Iran vi sono mullah deputati al controllo della moralità. E oltre che guardare in camera da letto, molto di più essi controllano il cinema, la stampa ed i libri: è il monitoraggio delle espressioni pubbliche di pensiero, censurate se non conformi alla shari’a o al Corano e alla sua interpretazione ufficiale. Un professore a scuola non può dire ciò che vuole, e un intellettuale se pubblica ciò che gli pare si assume dei rischi.

Per capire il senso del discorso, è vero che solo col Vaticano II la Chiesa abolì l’indice dei libri proibiti, ma tale istituto, prima che fosse abolito, non aveva alcuna efficacia civile. Nell’islam non è così. Una censura religiosa è “ipso facto” una censura civile, perché le autorità religiose hanno autorità civile e viceversa. L’insieme di questi e altri fatti consimili interpella allora la nostra onestà intellettuale, perché non possiamo intenderli come casi isolati, privi di significato generale. E se casi isolati non sono, ne deriva una conclusione sola: la parola libertà in arabo non c’è stata per secoli perché la civiltà islamica non la prevede proprio (è stata introdotta col senso di hurriyya, affrancatura, solo nel 1774 a seguito della necessità di sottoscrivere trattati con gli occidentali). E dunque l’assolutismo saudita o di altri emirati, l’inferiorità giuridica della donna, eccetera, non sono stranezze emendabili. Sono effetti di una causa radicale, che non si può rimuovere senza distruggere l’islam. Ecco perché tali stranezze sono così difese. Perché esse hanno un rapporto con l’identità islamica. E dunque un’integrazione potrà esservi con i singoli musulmani, ma non con l’islam.

Purtroppo la società liberale aperta cade in aporia quando si scontra con una civiltà chiusa non compatibile. Il problema della tolleranza fu impostato all’interno della civiltà cristiana per depotenziare i suoi conflitti intestini. Ma la sua impostazione produsse senso perché la tolleranza era un valore riconoscibile dagli uni e dagli altri, in quanto teologicamente fondabile.

Invece nell’islam la tolleranza non ha fondabilità teologica in quel senso vasto che caratterizza le nostre società laiche. La libertà di stampa non ha senso. Il Medioevo ha Boccaccio e il Rinascimento ha Pietro Aretino. Ma l’islam per molto meno ha censurato il matematico e poeta Omar Khayyam (1048-1122) che parlava di vino e di ubriachezza. E il fatto che alla fine del secolo XX egli sia stato un po’ riabilitato in Iran, non rappresenta quell’apertura che si vuol far credere. In Arabia Saudita l’islam si protegge proibendo persino la visibilità di collanine con la croce. Ma in Europa come può proteggersi? Non è solo il problema dei jeans delle ragazze. È il problema della scuola, dei giornali, dei sindacati, delle donne in ruoli dirigenti, del cinema, della televisione, delle biblioteche: è tutto l’Occidente che nelle sue istituzioni è una minaccia antislamica. E lo è non perché voglia esserlo, ma semplicemente per il suo esistere. Come Israele.

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La necessità di una grande autocritica circa i rapporti con l’islam, che finalmente esca da un “buonismo” cieco e suicida, è dunque inderogabile.

Dialogare con chi ha il retropensiero di islamizzarci e di ridurci a dhimmi, a sudditi di sott’ordine, semplicemente non ha senso. Il dialogo con i musulmani moderati non solo va perseguito ma va incrementato ed essi vanno sostenuti in tutti i modi, anche più di quanto si sostenne il dissenso sovietico. Ma insieme a tali aperture occorre una politica della diffidenza e del sospetto, che stringa quanto possibile le maglie della rete e scoraggi al massimo la presenza in Europa degli islamizzatori. Essi infatti sono la colonna ideologica del terrorismo: non si può combattere questo senza contrastare quelli.

Per entrare al banchetto occorre la veste nuziale, che dobbiamo esigere da chi bussa alla nostra porta. Una veste che subordina l’accettazione all’osservanza delle nostre leggi. Altrimenti non potremo impedire che alcune moschee, centri di cultura islamica e circuiti di predicazione elettronica coltivino l’odio contro di noi. L’odio, appunto. Un sentimento verso il quale da troppo tempo mostriamo una tolleranza suicida. Un sentimento che è la condizione di impossibilità della vita sociale.

E tuttavia sarebbe troppo triste che qui tutto finisca. Dobbiamo invece essere profeticamente fautori di una fase della tolleranza e dell’integrazione.

Dal punto di vista dei rapporti interculturali è probabilmente necessaria una certa diminuzione del tasso di laicismo delle società occidentali: ciò che non avverrà senza vincere molte resistenze. Ma dal punto di vista della teologia islamica l’itinerario non è tanto ovvio, anche perché i loro centri culturali sembrano fortezze difficili da espugnare. Una via forse praticabile è quella di tornare ai grandi mistici del mondo musulmano: per esempio Rabi’a o Al-Hallaji. Ma Al-Hallaji fu martirizzato da un califfo, non certo dai cristiani. Perciò il problema si connette con quello di una possibilità teoretica e pratica di una molteplice teologia islamica. Pensiamo che il problema sia arduo, ma che resti parimenti sbagliato ritenerlo insormontabile o inesistente.

E questo vale anche sul piano politico. L’islam di oggi pone all’Europa il problema del riconoscimento civile della sua identità. È un problema serio, che il cristianesimo non ha saputo porre per sé con la medesima forza. Trovare una soluzione su una base di equità – ossia che contemperi e tuteli allo stesso modo i diritti di tutti i gruppi religiosi – non sarà semplice, ma certo non è pensabile che si conceda a una minoranza musulmana quella tutela civile della propria identità e quel riconoscimento culturale che il laicismo figlio dell’Illuminismo francese pretende di negare alla maggioranza cristiana.

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