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Visita pastorale del papa nelle diocesi di Savona e Genova
prevista il 17 e 18 maggio

Intervista a Giovanni Maria Flick in occasione della visita in Liguria di Benedetto XVI
Carlo di Cicco su Osservatore Romano 17 maggio 2008

Benedetto XVI, il Papa della Regola d'oro, punta sulla giustizia e il riconoscimento dei diritti della persona per consolidare la speranza di pace nel mondo. Sulla scia di Benedetto XV di cui ha voluto prendere il nome spiegandone lo straordinario servizio alla pace. Una continuità di insegnamento sociale e uno sviluppo nella fondazione del diritto internazionale di cui parla in questa intervista il professor Giovanni Maria Flick, vicepresidente della Corte Costituzionale italiana, in occasione della visita di Papa Ratzinger a Genova.
Flick, genovese di adozione, ha compiuto i suoi studi nel capoluogo ligure frequentando gli istituti dei salesiani e dei gesuiti prima di laurearsi alla Cattolica di Milano.
Partendo da Papa Benedetto XV che avviò in embrione nell'ambito della Chiesa la difesa dei diritti umani, Flick riconosce a Benedetto XVI, non solo una continuità nella dottrina della pace e dei diritti umani, ma anche la capacità di puntuali sollecitazioni richiesta dal tempo della globalizzazione alla comunità internazionale.

Il richiamo a Benedetto XV, Papa genovese, quando si tratta di diritti umani, è fare dell'archeologia o rilevare una continuità nel magistero sociale della Chiesa?

Il cardinale Giacomo della Chiesa è eletto papa un mese dopo l'inizio della Grande Guerra. Fin dal primo documento esprime l'angoscia per l'"inutile strage" e compie un'analisi lucidissima sulle cause del conflitto, individuate "nell'ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali", nel "disprezzo per l'autorità", nel perseguimento "dei beni materiali come unico obiettivo dell'attività dell'uomo". Ma, soprattutto, si preoccupa delle soluzioni per porvi termine. In questo risiede la straordinaria modernità del Pontefice genovese: non solo la denunzia e la condivisione di questo dolore universale, ma anche la ricerca ininterrotta di una "via d'uscita" concreta. L'esortazione apostolica del primo agosto 1917 (Dès le debut) prospetta alle Nazioni belligeranti un accordo di grande solidità politica, fino ai dettagli: la "reciproca condonazione" dei danni di guerra, l'evacuazione totale dei territori occupati dalla Germania, il futuro assetto dell'Armenia, degli Stati balcanici o dei paesi che formavano l'antico Regno di Polonia, e così via. È un magistero d'avanguardia, e non solo per l'epoca.

Benedetto XVI ha scelto proprio il nome di Benedetto per collocarsi sulle orme del suo predecessore vissuto al servizio della pace. Finora è apparsa con chiarezza questa scelta strategica nell'insegnamento di Papa Ratzinger?

Questa scelta era particolarmente significativa per un Pontefice tedesco che - come lui stesso ebbe a ricordare nel maggio 2005 - succedeva a uno polacco, a sessant'anni dalla fine di una guerra la cui barbarie avevano conosciuto, entrambi giovani, su fronti avversi. Ed era una scelta manifestata, in realtà, ancor prima della sua elezione a successore di Pietro.
Nella lectio tenuta al Senato della Repubblica italiana nel maggio 2004 sul Trattato costituzionale europeo - riguardato quale strumento di unificazione e, quindi, di pace - il futuro Papa Benedetto XVI aveva infatti affermato come "mettere per iscritto" i valori della dignità dell'uomo, di libertà, eguaglianza e solidarietà accanto ai princìpi fondamentali della democrazia e dello stato di diritto, configurasse un'immagine dell'uomo, un'opzione morale e un'idea di diritto "non scontate, bensì qualificanti l'identità dell'Europa". Dunque, una pace costruita sulla centralità della dignità della persona, ma anche sull'architrave dello Stato democratico di diritto.
Il Pontefice ha poi più volte insistito sulla sinergia tra giustizia e pace: la prima è la condizione di pensabilità della seconda, e solo attuandola si promuove effettivamente la pace, intesa non come mera assenza di guerra, ma come compimento della giustizia, in primo luogo della giustizia sociale.
D'altra parte, nel pensiero del Pontefice, la giustizia appare a sua volta inscindibile dal rispetto dei diritti fondamentali e delle garanzie della persona umana, intesi quali "misura del bene comune": dunque, come ha affermato alle Nazioni Unite, la promozione dei diritti umani resta "la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali" e, quindi, per garantire la pace. Non c'è pace senza eguale garanzia - interna e internazionale - dei diritti fondamentali: su questo punto, la coscienza morale espressa dalla Chiesa nello scenario del mondo è di fondamentale importanza, anche per i laici.

Il discorso di Papa Ratzinger alle Nazioni Unite ha suscitato reazioni positive, ma non sono mancate critiche. Si tratta di un intervento con elementi innovativi per il diritto?

Non è mai scontato, o di circostanza, rammentare come le Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo furono originate - come ha ricordato il Pontefice - dalla convergenza di tradizioni religiose e culturali "tutte motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle istituzioni, leggi e interventi della società, e di considerare la persona umana essenziale per il mondo della cultura, della religione e della scienza". La centralità della dignità e della libertà dell'uomo è la chiave di ogni approccio, giuridico o etico, al tema dei diritti fondamentali; al punto che neppure un pensiero di sponda laica può abbandonare un polo di riferimento unitario, o alcuni essenziali precetti universali, per gestire quella che Sartre definisce l'"etica della situazione", e cioè l'emergenza della specifica tutela del singolo diritto violato. In altre parole, la tutela o è pensata in senso globale, fondata sulla dignità della persona, o non è.
Fondamento e senso dei diritti fondamentali non possono non interessare la riflessione del giurista, almeno quanto forma ed effettività della tutela. Secondo Norberto Bobbio il problema dei diritti fondamentali non è quello di fondare, ma di proteggere. Il Papa, all'Onu, ha espresso il dubbio che ciò non sia possibile: proclamare la necessità della tutela senza interrogarsi sul perché tutelare, rischia di somigliare al "bronzo sonante" o al "cembalo squillante" di cui parla san Paolo nell'inno alla carità. Per il giurista, laico o credente che sia, questa provocazione richiede una risposta faticosa e delicata, rappresenta una "coazione" a riflettere anche nella prospettiva del trascendente.

Cosa comporta sul piano del diritto il superamento del paradosso denunciato dal Papa, secondo cui in ambito internazionale esiste una subordinazione alle decisioni di pochi?

È il nervo scoperto della comunità internazionale: la contraddizione di un mondo globalizzato, con la democrazia sulle labbra e le oligarchie nel cuore. Il concetto di democrazia ha raggiunto la perfezione teorica; ma la pratica di una vera democrazia tra le Nazioni resta una chimera: i problemi del mondo esigerebbero - come anche il Pontefice ha sottolineato - un consenso multilaterale e interventi collettivi di cui la comunità internazionale si mostra incapace. Questa crisi sollecita il diritto a ripensare le forme dell'organizzazione internazionale. Penso soprattutto all'Europa, il cui progetto unitario presuppone la pari dignità tra i Paesi membri, replicando a livello di Stati il principio della pari dignità delle persone. In altre parole il diritto internazionale deve superare il criterio economicistico, che inevitabilmente produce oligarchie decisionali. Da un simile solidarismo tra Stati, dall'obiettivo di una giustizia distributiva planetaria "siamo disperatamente lontani", per usare le parole del cardinale Carlo Maria Martini. Ma per camminare in questa direzione bisogna partire da un'effettiva democrazia all'interno della comunità internazionale.

Il principio della responsabilità di proteggere è un correttivo dell'ingerenza umanitaria?

Più che correttivo, direi una feconda e positiva evoluzione. I tradizionali caratteri del diritto umanitario - la neutralità e la sovranità - si sono progressivamente sbiaditi. E d'altra parte la stessa Assemblea generale delle Nazioni Unite affermò, l'8 dicembre 1988, il principio del libero accesso alle vittime di una catastrofe naturale, o in situazioni d'urgenza dello stesso tipo: un'ingerenza umanitaria per confortare le vittime, un vero e proprio obbligo a fronte del diritto delle vittime all'assistenza, ritenuta lecita anche quando assuma il carattere di ingerenza materiale e fisica, presupponendo l'accesso al territorio da garantire, anche contro la volontà del governo di quel territorio. È inevitabile pensare alla catastrofe naturale in Myanmar, i cui effetti sulla popolazione sono stati ingigantiti dall'incapacità del regime militare al potere e dall'ostinato isolamento imposto al Paese; ma anche dall'immobilismo della comunità internazionale, che ha espresso cordoglio e partecipazione ma si è guardata bene dal coinvolgere il Consiglio di sicurezza dell'Onu.

E tuttavia, benché il modello stenti a trovare la via della concretezza, la "responsabilità di proteggere" rappresenta un'evoluzione del principio di solidarietà applicato all'ordine internazionale. Per evitare il rischio di un "colonialismo umanitario", essa deve fondarsi sul dialogo, sulla condivisa centralità della persona umana, sulla necessità che i diritti fondamentali violati trovino protezione da parte della comunità internazionale, ma solo con gli strumenti giuridici già previsti dalla Carta delle nazioni.

Quali ricadute può avere su governi e parlamenti il richiamo del Papa al primato della giustizia rispetto alla legalità, per radicare i diritti umani e renderli intangibili?

Il cosiddetto riduzionismo che caratterizza l'epoca in cui viviamo, in ambito giuridico si è manifestato nell'ingenua pretesa di ridurre la giustizia al diritto e quest'ultimo alla legge. L'illusione è che la giustizia possa coincidere con la legalità, che sia sufficiente il rispetto della legge perché "giustizia sia fatta": ma - cito ancora san Paolo - "dalle opere della legge non verrà mai giustificato alcuno". E questo vale anche in una visione laica e non trascendente della giustizia, perché è la stessa realtà, sono i "duri fatti" a smentire la pretesa che dalla sola osservanza della legge scaturisca per ciò stesso la giustizia: la prima è solo la pre-condizione della seconda, di certo non ne è il compimento. Giusto, anche nel mondo globalizzato, è colui che continua "ad avere fame e sete di giustizia"; che è sempre disposto - ha scritto Gustavo Zagrebelsky - a riconoscere ai deboli, ai perseguitati, agli esclusi la legittimità della pretesa di giustizia, condividendone umanità e dignità.

Governi e parlamenti devono percepire quest'ansia di una giustizia perennemente cercata e mai acquietata, anziché illudersi di risolvere la domanda di giustizia nella forma fredda di qualche legge: come se i diritti umani possano essere il risultato solo di provvedimenti legislativi. D'altra parte, l'impotenza a creare giustizia è anche pietra di inciampo per il credente: lo incalza, come già avveniva nel secondo litigio di Giobbe con Dio. A conferma che la ricerca su sponde diverse - laica e religiosa - non è poi tanto distante, come spesso si crede.

Benedetto XVI ha rilanciato la regola d'oro come misura dei rapporti internazionali oltre che personali. È sufficiente oggi per favorire un futuro di pace e giustizia?

La "regola d'oro" è l'invarianza del principio di giustizia, il permanere del carattere universale dei diritti fondamentali, al di là delle contingenze culturali, storiche, politiche e sociali. Secondo sant'Agostino, il principio "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" non può in alcun modo variare "asseconda delle diverse comprensioni presenti nel mondo". Il suo corrispettivo nella morale laica è l'imperativo kantiano di agire in modo da trattare l'uomo sempre come fine e mai come mezzo. Tali regole, proprio perché "inalterabili", fondano innanzitutto le Carte fondamentali dei diritti, altrimenti impensabili. Ma invarianza e universalità dei diritti fondamentali risulterebbero vuote declamazioni se il principio di pari dignità non fosse applicato, oltre che agli individui, anche agli Stati. Fino a quando il più piccolo Stato del mondo sarà trattato da quello più potente come mezzo e non come fine, l'ordine internazionale sarà precario, e della pace e della giustizia tra i popoli rimarrà solo l'enfasi dei concetti. Purtroppo questo è ancora assai lontano dalla coscienza e sensibilità occidentale - e non solo occidentale - abituati come siamo a convivere, senza neppure stupirci, con le violazioni dei diritti consumate sotto i nostri occhi.

Lei condivide l'opinione che i diritti umani venivano rispettati concretamente dai governi più nel passato che nel presente quando invece è molto perfezionata la formulazione giuridica attinente la tutela dei diritti?

No, assolutamente. La nostalgia del passato è malattia tipica delle epoche di crisi, rifugio comodo che lascia intatti i problemi del presente. La messa a fuoco dei diritti fondamentali, nonostante la fatica nel riconoscerli, proclamarli, fondarli - aiuta alla loro tutela. Certo, esiste il rischio che questa elaborazione possa indulgere alla forma, a un'estetica dei diritti bella da contemplare, ma inconsistente nel tutelare. Mi conforta, tuttavia, l'esistenza di isole felici: penso alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nella quale si sta raggiungendo un equilibrio fecondo tra riconoscimento profondo dei diritti ed effettività della loro tutela; o all'ordinamento comunitario europeo, in cui si cerca di equilibrare fra loro la dimensione del mercato e quella dei diritti fondamentali. Ma c'è ancora molto da lavorare: siamo ancora alle prime luci dell'alba.

L'intervento di Benedetto XVI alle Nazioni Unite, centrato sulla indivisibilità dei diritti umani e sul rilancio di una strategia dei diritti per eliminare le disuguaglianze e aumentare la sicurezza nel mondo, facilita il dialogo sui diritti tra l'ottica laica e l'ottica cattolica?

Ritengo utile una sinergia tra le due ottiche. E anche nell'intervento alle Nazioni Unite appare evidente la volontà del Pontefice di muoversi su un terreno comune.
Negli ultimi anni c'è stato indubbiamente un progressivo avvicinamento tra quanti postulano la priorità dei contenuti e quanti continuano ad affermare l'imprescindibile importanza dei fondamenti. Fermi i principi, la Chiesa ha gradualmente riconosciuto che la prospettiva contenutistica dei diritti fondamentali non è di per sé riduzionista. Anche sul versante dell'etica laica ci si è accorti che, lungi dall'anacronismo e dall'integralismo, un'antropologia religiosa a fondamento dei diritti umani promuove la loro effettiva umanizzazione. La stessa convergenza era stata riconosciuta da Benedetto XVI a proposito dell'unità europea, quando aveva affermato che "i padri dell'unificazione erano partiti da una fondamentale compatibilità dell'eredità morale del cristianesimo e dell'eredità morale dell'illuminismo europeo".
L'attuazione della giustizia nella pace, mi sembra il terreno comune ideale in tema di diritti fondamentali.

Un ateo o un laico può convenire sotto il profilo razionale con il diritto alla libertà religiosa che, secondo Benedetto XVI, deve potersi esplicitare in una dimensione sia individuale sia comunitaria e pubblica?

Le rispondo con la semplicità e l'efficacia con cui la nostra Carta costituzionale, all'articolo 19, afferma il diritto alla libertà religiosa: tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Non è solo una potenziale e razionale condivisione da parte del laico o dell'ateo. È molto di più: è un diritto fondamentale sancito in Costituzione.


(©L'Osservatore Romano - 17 maggio 2008)

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