...da Avvenire del  9 Novembre 2002


MEDIA CATTOLICI, LIEVITO NELLA PASTA DELLE NOTIZIE

Francesco Ognibene 



Giri l’Europa, e ti senti sempre a casa. Effetto della globalizzazione? Sarà. Sta di fatto che il rapporto tra i mass media e i cattolici presenta ovunque problemi simili. Perché ovunque a sfidare chi si occupa di comunicazioni sociali è un sempre più delicato equilibrio tra la responsabilità missionaria del credente e una cultura che reca nei tratti somatici la paternità dei mass media, tanto da essere ribattezzata "mediasfera". Aprire la finestra su quel che accade fuori dai nostri confini, per un convegno che nel suo titolo evoca le "parabole", era doveroso. E infatti la tavola rotonda forse più movimentata di ieri ha messo a confronto voci italiane (Gaspare Barbiellini Amidei, penna ben nota ai lettori del "Corriere della Sera"), francesi (Bruno Frappat, direttore del giornale cattolico parigino "La Croix") e inglesi (l’ex responsabile dei vescovi europei per i media, monsignor Crispian Hollis), introdotte dal presidente del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali, l’arcivescovo americano John Foley, e dal direttore dell’agenzia cattolica "Sir" Paolo Bustaffa.

 Niente di formale o scontato, come d’altra parte in tutti gli appuntamenti di questo animatissimo forum nazionale, che sta ricentrando l’attenzione della Chiesa italiana su media e cultura e che si è trovato a lezione di realismo: «Il mondo è disordinato, d’accordo - dice ad esempio Hollis -, ma è il mondo al quale dobbiamo annunciare il Vangelo. Per questo vanno padroneggiati i suoi linguaggi mediatici. Inutile far finta di esserne risparmiati: non afferreremmo la nostra responsabilità di capire quel che accade e partecipare alla vita culturale, finendo per saper parlare, sì, però solo a noi stessi, proprio mentre c’è una fame latente di spiritualità nel cuore di molti». Hollis parla di «crisi di linguaggio nella Chiesa, che va risolta per farci capire». Ma non solo: «Saper parlare verso l’esterno ha immediati riflessi anche sui meccanismi interni della Chiesa, è un modo per evangelizzarci. Oggi c’è bisogno del coraggio e della creatività di chi ha costruito le cattedrali». Da dove si comincia? Dall’evitare il primo "peccato" di chi fa comunicazione: «Procurare noia», ironizza Foley. E se un mezzo di comunicazione cattolico annoia o intristisce va fuori pista: «La buona notizia dovrebbe essere proposta nel modo più affascinante». Mica facile. Però è quel che va fatto per non seguitare a credersi nicchia a circuito chiuso. Secondo Barbiellini Amidei, «chi nella sua vita mette a bilancio anche l’eterno, dura più fatica degli altri: deve fare tutto come gli altri, tutto meglio degli altri, controllare tutto più degli altri».

 È vero che il cattolico ha dimestichezza naturale con la Parola, ma è un fatto che «nel nostro Paese storicamente la parola scritta è stata monopolio laicista, un fatto elitario, con la conseguenza di una marginalità imposta ai mezzi di comunicazione cattolici. E la padronanza collettiva della lingua è arrivata solo con la televisione, che ha mescolato il sapere della minoranza colta con la banalizzazione imposta dal mezzo». Risultato: il mosaico mediatico che ci stordisce, ma insieme ci domanda soluzioni inedite. A provarci, come ha fatto con convinzione "Avvenire" in Italia, in Francia è "La Croix", 80 mila copie diffuse e la stessa, implicita domanda di tutta la platea: come possiamo far udire oggi una voce "diversa"? «Il giornalista cattolico - argomenta Frappat - è lievito nella pasta delle notizie. Si sente libero ma anche responsabile. Deve avere temperamento, professionalità, competenza, cultura. E, soprattutto, è entusiasta, ha passione per la realtà, ha uno sguardo fresco, non ha paura. Tutte le epoche hanno lanciato sfide ai cristiani, talvolta mortali. Noi, certo, non facciamo eccezione».  


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