La coscienza, la legge e lo Spirito

Il biblista Ska (ordinario di Esegesi dell’Antico Testamento presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma) affronta la tensione tra coscienza, legge e Spirito attraverso l’esame della riforma deuteronomica come matrice della legge e lontana matrice della democrazia. Proprio il Deuteronomio pone un elemento straordinario di eredità dell’Occidente, unendo al proprio centro l’affermazione simultanea che il Dio d’Israele è il di Dio di tutti: la fondazione della propria particolarità è identica alla fondazione della generazione. E’ l’alleanza come tale il vero fondamento del diritto nella Bibbia. Il perno del diritto è l’accordo mutuo di Dio e del suo popolo di stabilire una relazione sulla base di una legge proposta da Dio e accettata liberamente dal popolo. Per questo l’indipendeza del popolo e la sua identità sono salvaguardate non dall’alleanza con altre potenze (né Assiria, né Egitto), ma solo se il popolo è capace di fare un «salto mistico», al di là di ogni potenza umana per raggiungere il «nulla» dove risiede il suo Dio.

«Siate santi, perché io, il Signore,
Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2)

Introduzione

Parlare di coscienza cristiana e di responsabilità politica significa abbinare due modi abbastanza diversi di affrontare la realtà. Vi sono certo terreni di incontro. Ma a partire dal secolo dei Lumi, e soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese del 1789, si suole distinguere chiaramente fra trono e altare, vale a dire fra Chiesa e stato, fra il mondo della coscienza e quello della «ragione di stato», in poche parole fra religione e politica. Le differenze sono ben note.

La politica, da una parte, è l’arte del possibile e si occupa grosso modo dell’ordine pubblico. La religione, dall’altra, si occupa piuttosto della salvezza ultima delle persone e vuol formare la coscienza degli individui. Le sue «leggi» vogliono quindi regolare la vita privata degli individui e delle comunità. Infine, se la politica regna nel mondo del relativo, la religione pretende di parlare dell’assoluto.

Religione e politica sono quindi due mondi opposti, al massimo complementari? Oppure vi è un modo di far comunicare queste due mondi diversi, se non opposti? Cercherò di rispondere a queste domande, almeno parzialmente, a partire da una riflessione sul diritto dell’Antico Testamento.

Le ragioni della mia scelta sono due. Primo, il diritto biblico ha una sua caratteristica originale che lo distingue dalle raccolte di leggi antiche: unisce fortemente ius et fas, il diritto sacro e il diritto civile (o profano). Esso unisce anche norme e prescrizioni con esortazioni morali. Vi sono leggi accompagnate da sanzioni, come leggi che fanno direttamente appello alla coscienza e che non menzionano alcuna sanzione concreta.1 L’antico diritto biblico vuol dunque unire religione e politica in un modo originale. Questo fatto potrà aiutarci nella nostra riflessione, quando cerchiamo di vedere come possono dialogare questi due campi del diritto che abbiamo nettamente distinti.

Secondo, la lettura della Bibbia ha un grande vantaggio: si tratta di un libro antico, scritto in un mondo ben diverso dal nostro e molto lontano dalle nostre preoccupazioni odierne. Vi troviamo alcune radici della nostra civiltà e della nostra coscienza moderna, certo, ma la distanza temporale e culturale che ci separa ormai dalla Bibbia, specialmente dall’Antico Testamento, permette di leggerla con grande serenità e oggettività. Le leggi dell’Antico Testamento non hanno alcuna incidenza diretta sulla nostra vita. Quindi ne possiamo parlare in tutta libertà.

La riflessione si svolgerà in tre grandi tappe. Nella prima, proporrò una breve definizione del diritto in genere. Nella seconda, parlerò di un tratto essenziale e originale del diritto biblico che ha avuto un influsso determinante sulla civiltà occidentale. Possiamo, infatti, dire che l’idea di democrazia si trova già nell’antico diritto biblico. Infine, parlerò di un ulteriore aspetto fondamentale del diritto biblico e proverò a mostrare quale sia il fondamento giuridico di tutto il diritto, sacro e civile, nella Bibbia. Si tratta di un’altra idea abbastanza moderna e che incontriamo in alcuni testi biblici, vale a dire l’idea di un diritto basato sul consenso di tutti i sudditi.

I. Definizione del diritto2

Per poter parlare di religione e di politica, è necessario, penso, definire i termini. In particolare conviene dire di che cosa parliamo quando discutiamo di «diritto». Si tratta innanzitutto di adottare la prospettiva migliore per poter parlare di diritto nel confronto con la religione.

A. Il diritto e le norme del diritto

Il diritto in genere si definisce a partire dalle sue norme. Le definizioni più correnti comportano due elementi principali: le norme del diritto definiscono quello che una collettività considera come lecito e quello che considera come esigibile. In altre parole, il diritto contiene i diritti e i doveri dei membri di una collettività. Questa definizione – sebbene non sia falsa – rimane alquanto restrittiva per due motivi: non contempla diversi campi dove si sviluppa il diritto, come per esempio quello del commercio e delle associazioni. Non basta dire che sia «lecito» commerciare o associarsi. Occorre anche fornire gli strumenti giuridici che rendono queste attività possibili. Inoltre non si dice come e perché nasce il diritto. Perciò appare più opportuno e più rigoroso definire il diritto non a partire dalle norme, ma dall’attività giuridica come tale e del suo ruolo all’interno di una collettività umana.

B. Il diritto in azione

Secondo L.L. Fuller, il diritto è «il tentativo di sottomettere la condotta umana al governo delle regole».3 In questa definizione l’importanza dell’attività giuridica prevale su quella delle norme. Quest’attività giuridica può assumere diverse forme: legiferare, giudicare, amministrare e negoziare. O secondo la definizione di H.J. Berman, «si tratta di un processo vitale di attribuzione di diritti e doveri e così di risoluzione dei conflitti e di creazione di canali di cooperazione».4 In questa definizione possiamo distinguere tre campi principali dell’attività giuridica: 1) legiferare, cioè creare norme di condotta; 2) amministrare e far rispettare le norme promulgate (esercizio della giustizia), vale a dire reprimere gli abusi (diritto penale) e risolvere i conflitti (diritto civile); 3) favorire la cooperazione, vale a dire creare le condizioni necessarie allo sviluppo armonioso delle imprese individuali e collettive legittime, come il commercio o negozio, i contratti e le associazioni, l’esercizio delle diverse professioni e lo svolgimento delle attività economiche.

II. L’innovazione fondamentale
del diritto biblico in confronto al diritto
del Medio Oriente antico

Questa definizione del «diritto in azione» ci permette di fare un passo avanti e di parlare di un punto fondamentale del diritto veterotestamentario, quello dell’originalità del diritto biblico nei confronti dei diritti del Medio Oriente antico. Questa originalità si traduce in alcune differenze essenziali, che possiamo riassumere in una formula molto semplice: il diritto biblico abolisce – in principio – la distinzione fra due classi sociali, quella dei dirigenti e quella dei sudditi. Davanti alla legge biblica, tutti sono uguali. Certo, rimangono alcune differenze e le discriminazioni non mancano. Il principio fondamentale non è sempre stato rispettato e la legislazione non ne ha tratto tutte le conseguenze. Però, se studiamo il diritto d’Israele come progetto globale e processo vitale, vediamo che questo diritto, in principio, non ammette distinzioni sociali.

Un rapido paragone fra diritto biblico e diritto mesopotamico conferma questa opinione. Le raccolte di leggi dell’antichità fanno spesso differenze fra «uomini liberi» e «servi». Le pene previste nelle leggi sono diverse. Il diritto biblico invece non fa queste differenze, o solo di rado.

Perché nel diritto biblico sparisce questa distinzione fra le classi sociali? La ragione è semplice: la vera differenza nel diritto biblico non è fra dirigenti e sudditi, fra persone libere e servi, ma fra Dio e il popolo. Da una parte troviamo Dio e dall’altra tutto il popolo. Quindi all’interno del popolo spariscono tutte le differenze.5

In un libro ormai famoso, il critico letterario E. Auerbach ha fatto la stessa constatazione a proposito delle narrazioni bibliche.6 Nel mondo della letteratura classica, esistono due «stili», lo «stile elevato» e lo «stile umile». Lo stile elevato è riservato alla tragedia e all’epopea. Lo stile umile o basso è quello della commedia e della satira.7 Nel primo caso, quello dello stile elevato, gli eroi appartengono ai ceti alti della società (re, principi, guerrieri) e le azioni descritte sono tutte «eroiche».8 I problemi principali sono la guerra e l’amore (il matrimonio). Problemi triviali come i problemi sociali o economici non sono degni di essere trattati.9 Lo stile tende al sublime ed evita l’ironia o la leggerezza. Nella letteratura di stile umile, invece, gli attori appartengono al popolino, sono per lo più artigiani, contadini, commercianti, servi, e le loro azioni sono quelle della vita quotidiana. Non hanno niente di eccezionale.

Nella Bibbia, al contrario, non esiste questa distinzione.10 O meglio, diciamo che la Bibbia tende fondamentalmente a cancellarla. Forse non lo fa dappertutto nello stesso modo e con la stessa logica; però nell’insieme e nelle parti più significative della Bibbia, questa distinzione sparisce.11 Gli eroi della Bibbia possono appartenere a tutti i ceti della società e le azioni descritte possono essere o eroiche (come il duello fra Davide e Golia; 1Sam 17) o banali (come la preparazione di un pasto per occasionali ospiti [Gen 18,1-16] o un conflitto fra pastori a proposito di pozzi [Gen 26]). Gli attori dei racconti biblici non sono «eroi», nemmeno eroi di virtù. Nella Bibbia, dunque, una persona qualunque può diventare protagonista di un’avventura significativa e decisiva, un’avventura che esprime qualche cosa di essenziale per l’umanità come tale. Questo vale certamente ancora di più per il Nuovo Testamento. In questo senso il racconto biblico è molto «moderno» perché anticipa di parecchi secoli il «romanzo realistico» che ha avuto tanto successo nella letteratura occidentale a partire dal 1800 circa.

Se vogliamo capire meglio per quale ragione la Bibbia abolisce la distinzione fra «stile elevato» e «stile umile», ritroviamo quello che è stato detto a proposito del diritto biblico. La differenza fra due classi di «attori» o «eroi» viene sostituita, nella Bibbia, da quella fra Dio da una parte e il popolo o l’umanità dall’altra. E come dice la Bibbia, Dio è imparziale e non «fa preferenze di persone»,12 vale a dire non tiene conto dello statuto, della ricchezza, dell’origine e delle classi sociali. Davanti a lui sparisce la differenza fra re e schiavo. Tutti sono sue creature.

Questo principio di uguaglianza non si verifica dappertutto nello stesso modo. Alcune leggi dell’Antico Testamento mantengono differenze fra uomini liberi e schiavi, fra uomini e donne, e le differenze fra ricchi e poveri non sono affatto sparite nella società biblica. Neanche il Nuovo Testamento si pronuncia chiaramente contro la schiavitù. Però, il principio di uguaglianza di tutti davanti a Dio è presente e si farà strada progressivamente nelle mentalità e nelle leggi, fino a oggi. Forse tocca a noi trarne nuove conseguenze.

Dopo questo breve percorso, penso che la modernità del diritto biblico sia diventata più evidente, come dovrebbe essere diventata anche più palese la sua attualità.

III. L’alleanza con Dio
e il fondamento dell’identità
d’Israele come «nazione santa»

Rimane una domanda da trattare: qual è allora nel diritto d’Israele il modo di tradurre questo rapporto privilegiato con Dio? Quali sono le conseguenze giuridiche dell’affermazione teologica sull’unicità di Dio? Per rispondere a questa domanda, occorre entrare nel mondo alquanto complicato, ma anche affascinante dell’alleanza nella Bibbia.

A. La tentazione delle alleanze straniere

L’eterna tentazione di popoli deboli politicamente ed economicamente è di cercare la «salvezza» in un’alleanza con una nazione più potente. Questa tentazione è diventata costante nella storia d’Israele a partire dalle prime invasioni assire verso l’850 a.C. La scelta non era complicata: Israele poteva allearsi con i grandi imperi della Mesopotamia, gli assiri prima e i babilonesi dopo, o con l’Egitto, o infine con i piccoli regni della Siria e della Fenicia.

I profeti biblici che sono stati integrati nel canone si sono però tutti opposti a questo tipo di alleanza. Basti citare alcuni testi più significativi per convincersi di questo atteggiamento fondamentale. Isaia per esempio dice:13 «Il Signore mi parlò di nuovo così: "Poiché questo popolo ha disprezzato le acque di Siloe che scorrono placidamente, e trema davanti a Rezìn e al figlio di Romelia, ecco che il Signore fa montare contro di voi le impetuose e abbondanti acque del fiume [il re di Assiria e tutta la sua gloria]. Strariperà sopra tutti i suoi canali e inonderà tutte le sue sponde. Inonderà la Giudea, la sommergerà travalicandola fino a raggiungere il collo, e le sue ali saranno spiegate su tutta l’ampiezza del tuo paese, o Emmanuele!"» (Is 8,5-8).

In questo testo, il profeta Isaia se la prende con il re Acaz che trema davanti alla coalizione formata dal re di Damasco (Rezìn) e il re di Samaria (il figlio di Romelia, Peqa) contro il re di Assiria, Tiglat-Pileser III. Il testo risale agli anni 730 a.C. circa. Acaz, re di Giuda e Gerusalemme, si rifiuta di entrare in questa coalizione e – contro l’opinione del profeta Isaia – chiede l’aiuto del re di Assiria. Concretamente, Acaz diventa vassallo del re Tiglat-Pileser e gli paga un tributo (cf. 2Re 16,5-9).

Queste vicende politiche sono tradotte da Isaia in un linguaggio poetico e simbolico. Il popolo di Gerusalemme e il suo re tremano davanti ai sovrani di Samaria e di Damasco, ma non hanno fiducia nelle proprie risorse simboleggiate dalla sorgente di Siloe. Non hanno fiducia nel proprio Dio e vanno a cercare aiuto all’estero. La conseguenza, dice Isaia, sarà tremenda: il fiume di Mesopotamia, l’Eufrate, strariperà e allagherà tutto il paese. In parole più concrete, l’alleanza con l’Assiria costerà cara alla terra di Giuda. Rischia infatti di sparire. D’altronde, Isaia sarà anche un accanito avversario dell’alleanza con l’Egitto ricercata dal figlio di Acaz, il re Ezechia (cf. Is 20,1-6; 30,1-5; 31,1-3).

Il profeta Geremia dice qualche cosa di simile benché la sua linea politica sia abbastanza diversa da quella di Isaia. Si legge in Ger 2,18: «Or dunque: qual è il tuo interesse per andare verso l’Egitto, a bere le acque del Nilo? E cos’hai per andare sulla via dell’Assiria a bere le acque dell’Eufrate?».

Geremia ripete in sostanza quello che diceva Isaia. Inoltre utilizza le stesse immagini poiché parla di fiumi. Per Geremia, dunque, la salvezza non può venire né dall’Ovest né dall’Est. È inutile ricercare le alleanze con potenze straniere. Qual è allora la soluzione? Geremia mostra la via con un’immagine che rammenta quella della sorgente di Siloe quando dice: «Stupitevi, o cieli, per questo, terrorizzatevi grandemente! Oracolo del Signore. Sì, due malvagità ha commesso il popolo mio: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne squarciate che non contengono acqua» (Ger 2,12-13).

La vera salvezza non è da cercare altrove. Si trova a casa propria. L’acqua da bere è quella di Siloe, la sorgente di Gerusalemme, diceva Isaia. Questa sorgente di acqua viva, per Geremia, è il Signore, Dio d’Israele, che ha fatto uscire il suo popolo dall’Egitto e l’ha condotto attraverso il deserto verso la terra promessa (cf. Ger 2,1-13). Israele ha un Dio, Israele ha una storia. Rinnegare questo Dio e rinnegare questa storia significa rinnegare se stesso e perdere la propria identità. Sarebbe possibile tradurre questo messaggio in modo semplice con queste parole: «Non cercate altrove quello che avete a casa».

Isaia non diceva niente altro quando rimproverava i suoi concittadini con queste parole: «Così parla il Signore Dio, il Santo d’Israele: "Nella conversione e nella calma sarete salvi, nella perfetta fiducia sarà la vostra forza". Ma voi non avete voluto» (Is 30,15).

La paura e l’inquietudine non sono buoni consiglieri. La fiducia nel proprio Dio, la fedeltà alla propria tradizione e la fiducia nelle proprie risorse sono le vere forze che permetteranno al popolo di attraversare senza danni le tempeste della politica internazionale del tempo.

Qualche tempo prima di Isaia, il profeta Osea aveva – anch’egli invano – lo stesso atteggiamento nel regno del Nord. Ecco qualche passo più significativo: «Efraim ha visto il suo male e Giuda la sua piaga; Efraim si è diretto all’Assiria, Giuda si è rivolto al gran re; ma egli non potrà guarirvi né togliervi la vostra piaga» (Os 5,13); «Efraim è come una colomba semplice, senza intelligenza; chiamano l’Egitto, vanno in Assiria. Dovunque vanno, io tendo su di loro il mio laccio. Come l’uccello del cielo li farò cadere, li prenderò appena udito il loro stormire» (Os 7,11-12); «Israele è divorato; ormai sono tra le nazioni come un oggetto che non piace più; perché essi sono saliti verso Assur, asino solitario e ritirato, Efraim si è comprato degli amanti» (Os 8,8-9); «Efraim si pasce di vento, segue sempre il vento d’oriente, moltiplica menzogna e violenza; fanno alleanza con l’Assiria, portano olio all’Egitto» (Os 12,2); «Preparate le parole da dire e tornate al Signore. Ditegli: "Perdona ogni iniquità! Fa’ che ritroviamo la felicità e ti offriamo il frutto delle nostre labbra! Assur non ci salverà, non cavalcheremo più i cavalli e non diremo più ‘nostro Dio’ all’opera delle nostre mani, poiché in te trova compassione l’orfano!"» (Os 14,3-4).

Osea, Isaia e Geremia concordano nella loro opposizione alle alleanze straniere. Sono rappresentanti di una tendenza che era sostanzialmente presente lungo tutta la storia d’Israele, ma che non ha quasi mai avuto successo. I re di Samaria e di Gerusalemme hanno preferito in genere cercare la salvezza nelle alleanze con potenze straniere. Le conseguenze di questa politica sono descritte con grande chiarezza nei libri dei Re: Samaria e Gerusalemme sono state entrambe conquistate e distrutte. I profeti avevano ragione. La storia l’ha dimostrato a posteriori. Forse la loro vittoria è stata una vittoria amara. Ma per questa ragione li leggiamo ancora oggi.

Se però è pericoloso allearsi con le potenze straniere, qual è la strada che Israele deve prendere per poter salvaguardare la propria integrità nazionale e territoriale? La risposta si trova nel modo particolare di concepire l’alleanza nel mondo biblico.

B. L’alleanza secondo il Deuteronomio

1. Contesto14

Le invasioni assire hanno provocato quello che possiamo chiamare un fortissimo «choc culturale». Per la prima volta nella sua storia, le diverse componenti d’Israele perdono la loro indipendenza. Ieu è il primo re d’Israele a pagare un tributo all’Assiria nell’841 a.C. diventando, quindi, vassallo del re di Assiria Salmanassar III. Il Regno del Nord pagherà un tributo a Tiglat Pileser III, re di Assiria, nel 737 a.C., sotto il re Menachem. Giuda diventa vassallo dell’Assiria sotto Acaz verso il 732 a.C. Il regno di Samaria sarà conquistato e integrato all’impero assiro nel 722 a.C. Sennacherib invade e sottomette il regno di Giuda nel 701 a.C, e il re Ezechia deve pagare un enorme tributo; con questo ridiventa vassallo dell’Assiria. Il suo successore Manasse (687-642 a.C.) è per la Bibbia l’esempio del re empio «venduto» alla potenza straniera degli assiri.

Questo breve riassunto della storia d’Israele e di Giuda non ci fa capire però quale fu l’incidenza di tali avvenimenti sulla vita dei popoli della regione. Questi piccoli regni non hanno solo perso la loro indipendenza politica, hanno anche rischiato di perdere la loro «anima», se si può adoperare questo termine. L’influsso assiro non si limitava all’egemonia politica e alla riscossione di un considerevole tributo. Questi aspetti non sono da trascurare, certo. Il peso del tributo sulle popolazioni locali non doveva rendere il regno assiro molto simpatico fra coloro sui quali gravava di più. Ma l’influsso assiro si sentiva anche nel mondo religioso, e in quella che chiamiamo oggi la «cultura».

La civiltà mesopotamica era molto più sviluppata di quella israelitica. Si può capire che questa cultura straniera, che era la cultura della più grande potenza della regione in quell’epoca, la «cultura vincente», potesse esercitare un fascino sui paesi vicini. I ceti più alti della popolazione dovevano essere i primi a sentire questo fascino quasi irresistibile. «Bisogna essere del proprio tempo», si poteva dire. «Non possiamo permetterci di essere retrogradi...». Ecco alcune riflessioni che forse si sentivano nelle strade di Samaria o di Gerusalemme. Alcuni hanno ceduto, come i re citati sopra.

Anche nel mondo religioso si è fatto sentire l’influsso assiro. Il re Acaz, per esempio, fa costruire un nuovo altare a Gerusalemme (cf. 2Re 16,10-18). Abbiamo pochi particolari su questa riforma religiosa. Comunque sia, è evidente che essa era una conseguenza dell’obbedienza di Acaz al sovrano assiro. Il testo biblico dice esplicitamente che il re Acaz fece costruire il nuovo altare dopo una visita al re Tiglat-Pileser a Damasco (cf. 2Re 16,10). E il testo aggiunge, più avanti: «Per riguardo al re di Assiria, [Acaz] soppresse dal tempio il palco del trono che avevano costruito nel tempio, e l’ingresso esterno» (2Re 16,18). Poiché religione e politica andavano di pari passo, il nuovo statuto politico di Gerusalemme ebbe conseguenze sul culto del tempio. Anche Manasse, fedele vassallo dell’Assiria, viene severamente criticato per la sua politica religiosa (cf. 2Re 21,1-18).

Si potrebbe parlare, in merito, di una «globalizzazione» del Medio Oriente antico sotto l’egemonia politica e militare dell’Assiria. Religione, politica, economia, commercio, finanze, cultura erano impensabili senza riferimento diretto alla potenza vincitrice. Il Medio Oriente antico si mise a pensare «assiro» per più di due secoli (850-605 a.C. circa) e il «modo assiro» prevalse nella regione durante questo periodo specialmente fra le classi dirigenti.

Il potere assiro, tuttavia, s’indebolì rapidamente dopo il regno di Assurbanipal (668-630/626 a.C.). Ninive sarà distrutta dai Medi e i Babilonesi nel 612 a.C. e l’impero assiro sparisce per sempre dopo la sconfitta di Karkemish davanti all’esercito babilonese di Nabopalassar nel 605 a.C. L’esercito babilonese era condotto dal figlio di Nabopalassar, il famoso Nabucodonosor, ben noto a tutti i lettori della Bibbia (e i conoscitori di Giuseppe Verdi).

Quale fu però la reazione di Gerusalemme a questi eventi? È arrivato il momento di parlare della riforma deuteronomica.

2. Reazione: la riforma deuteronomica
sotto Giosia (622 a.C.)
15

Il racconto biblico di 2 Re 22 descrive un evento che ebbe luogo nel 622 a.C., vale a dire durante il periodo della rapida decadenza dell’impero assiro. Durante i lavori di ristrutturazione del tempio, per puro caso – almeno in apparenza – viene rinvenuto un «rotolo della Legge». Il sacerdote del tempo, Chelkia, avverte lo scriba Safan (lo scriba sarebbe il «segretario di stato» del tempo) che prende il rotolo e lo legge al re Giosia. Quest’ultimo è spaventato da quello che legge e chiede il consiglio di una profetessa di nome Culda. Essa conferma che il rotolo contiene la condanna di Gerusalemme e di Giuda da parte di Dio a causa dell’infedeltà del popolo. Dopo aver sentito ciò, il re prende una serie di misure drastiche. Tutto inizia con un’alleanza del re e del popolo con Dio. Tutti promettono di osservare quanto viene detto nel libro della Legge (cf. 2 Re 23,1-30). In seguito, il re si dedica a una profonda riforma religiosa: il tempio viene purificato da tutti gli idoli e gli oggetti che servivano al loro culto; poi fa distruggere tutti gli altari e i santuari della terra di Giuda e dell’antico regno di Samaria. Rimane quindi solo il tempio di Gerusalemme con il suo unico altare dedicato al Signore, Dio d’Israele.

Questa riforma è stata resa possibile dall’indebolimento dell’impero assiro. Giosia ne approfitta per riconquistare la propria indipendenza e stabilire il proprio potere su tutta la regione. A questo scopo, decide di centralizzare il culto. Questa centralizzazione del culto non è niente altro che l’aspetto più visibile e simbolicamente più significativo di una centralizzazione amministrativa, economica e politica. Gerusalemme diventa il vero centro di potere, e il vero centro decisionale di tutta la regione.

Il libro della Legge è stato identificato – già da alcuni padri della Chiesa, poi dagli studiosi del secolo passato – con il libro del Deuteronomio che fornisce la base giuridica alla centralizzazione e alla purificazione del culto, così come alla centralizzazione dell’amministrazione.

Il punto che deve attirare la nostra attenzione, tuttavia, non è la riforma in se stessa, bensì la parola chiave che troviamo all’inizio del racconto di 2 Re 23: «L’alleanza» (2 Re 23,3). Di che cosa si tratta?

3. Alleanze e alleanza

Il mondo antico conosceva bene la parola «alleanza». Già gli ittiti dell’Anatolia (la Turchia attuale) avevano usato questo mezzo politico per tessere legami politici nel loro impero (nuovo Impero ittita: 1450-1090 a.C. circa). I re ittiti concludevano trattati con i loro alleati, molto spesso costretti a diventarne vassalli. Questi trattati si chiamano pertanto «trattati di vassallaggio». L’impero neo-assiro (850-605 a.C. circa) riprese questa abitudine. In questo periodo, soprattutto verso la fine di questo impero, i trattati di alleanza si moltiplicano. Ne conosciamo uno, per esempio, fra il re Esharadon, il dio Assur e il popolo assiro, dove il re fa promettere al popolo di accettare suo figlio Assurbanipal come successore. Possiamo dire quindi che i trattati di alleanza «erano nell’aria del tempo». Era, in quell’epoca, il modo usuale di concepire e di regolare le relazioni internazionali o quelle all’interno di un popolo fra la monarchia e i sudditi.

Nella Bibbia, tuttavia, il popolo non conclude un’alleanza con una grande potenza straniera. Esso non conclude un’alleanza con «il grande re» di Assiria, bensì con il suo Dio. In parole povere, il popolo (si tratta infatti degli abitanti di Gerusalemme e della Giudea) vuole avere come garante della propria autonomia politica e della sua identità politica non una potenza umana, ma il suo Dio. Se vogliamo tradurre questa volontà in termini semplici, ma altrettanto paradossali, il popolo conclude un’alleanza «con nessuno». Intendo dire con nessuna potenza umana. Il suo ultimo punto di riferimento è Dio, che non può essere paragonato ad alcuna potenza umana. Appartiene a un altro ordine.

In questo modo, però, il popolo si sceglie un punto di appoggio indistruttibile, perché non è soggetto alle vicissitudini della politica internazionale, ai giochi di potere, agli intrighi di corte e alla fatalità del declino che minaccia ogni grande impero del nostro mondo. Significa però che il popolo di Gerusalemme e di Giuda fa un sforzo quasi mistico e percorre una sorta di «via negationis» per raggiungere il suo Dio. Il popolo deve infatti «negare» e rigettare tutte le potenze umane per poter concludere quest’alleanza particolare e unica con il suo Dio. Gerusalemme e Giuda vogliono dipendere solamente da Dio, e quindi non vogliono dipendere da «nessuno» in questo mondo. Essi non riconoscono il potere di «nessuno», perché il solo vero potere che conta per loro è quello di Dio. L’indipendenza del popolo e la sua identità sono salvaguardate solo se il popolo è capace di fare questo «salto mistico», al di là di ogni potenza umana per raggiungere il «nulla» dove risiede il suo Dio.

Il Deuteronomio compie in questo modo un grande sforzo di aggiornamento. All’epoca dell’egemonia assira, in effetti, il linguaggio diplomatico era tutto centrato sulla categoria dell’alleanza. Questo linguaggio era quindi «nell’aria del tempo», era il «linguaggio alla moda» della politica internazionale. Per questa ragione, i responsabili della riforma deuteronomica hanno largamente utilizzato questo «lessico» internazionale per scrivere quella che potremmo chiamare una nuova «costituzione» per il loro popolo. Il linguaggio nuovo era molto popolare negli ambienti colti del tempo e questo spiega il successo della riforma. In effetti, il testo del Deuteronomio sopravviverà alla riforma e addirittura alla distruzione di Gerusalemme da parte dell’esercito babilonese nel 586 a.C., vale a dire poco più di trent’anni dopo la riforma deuteronomica. Sarà completato e rielaborato per diventare il «progetto di costituzione» dell’Israele postesilico.16

Torniamo però alla riforma deuteronomica. Gli autori di questa nuova «costituzione» che si trova nei capitoli centrali dell’attuale libro del Deuteronomio (Dt 12-26.28) sono, con ogni probabilità, ufficiali della corte di Gerusalemme, pratici del diritto internazionale e buoni conoscitori della tradizione religiosa e giuridica del proprio popolo.17 Hanno dovuto riformulare l’antico diritto d’Israele utilizzando nuove categorie, perché era diventato necessario ridefinire la posizione di Gerusalemme nel concerto delle nazioni, specialmente di fronte alle grandi potenze del tempo, soprattutto l’Assiria e, in una misura minore, l’Egitto.

La scelta della categoria di «alleanza» fu dunque determinante nella riformulazione del diritto proprio di Gerusalemme. Questa categoria aveva, come abbiamo visto, molti vantaggi. Oltre quelli elencati sopra, essa permetteva anche di sottolineare un aspetto essenziale e tradizionale del diritto biblico, vale a dire il fatto che in Israele sparisce la distinzione fra classe dirigente e sudditi per sostituirla con la distinzione fra Dio e popolo. Occorre ora vedere più da vicino alcuni degli aspetti principali di questa nuova concezione giuridica.

4. Il consenso libero e collettivo

Secondo Irnerio, il grande giurista di Bologna (1050-1130 circa), vi è una differenza essenziale fra il diritto romano e il diritto germanico, allora predominante in Europa occidentale.18 In sostanza, il diritto germanico si fonda sulla consuetudine, che ritroviamo nella famosa Common law degli anglosassoni. La radice della consuetudine si trova nell’ethos irrazionale, che ogni membro della comunità elabora in modo anonimo. Il diritto latino, che trova la sua forma più elaborata nel diritto romano, è fondato invece sulla razionalità, vale a dire la volontà di una o più persone giuridiche ossia magistrati. Le leggi emanate dall’autorità competente sono vincolanti solo se sono conformi al diritto naturale. Alla consuetudine del diritto germanico si oppone quindi, nel diritto romano, la volontà esplicita dei magistrati, vale a dire dell’autorità competente. All’irrazionalità dell’ethos della comunità si oppone anche la razionalità della struttura statale.

Nondimeno, a questo ethos popolare e anonimo del diritto germanico si può paragonare il diritto naturale, che limita l’arbitrarietà del potere nel diritto romano. Questo diritto naturale rimane sempre difficile da definire ed è forse più vicino di quanto sembri all’ethos popolare del diritto germanico. Comunque sia, la nostra discussione non verte su questo difficile problema, bensì sul diritto biblico.

Quale sarebbe il fondamento del diritto biblico? La consuetudine? Un ethos popolare? O sarebbe l’emanazione di un’autorità simile a quella dei magistrati del diritto romano? La risposta non è semplice. In breve, dico subito che il vero fondamento del diritto biblico non è né la consuetudine né l’autorità di un legislatore umano. Come si sa, la legge biblica è emanata da Dio. Si tratta quindi di un diritto divino. Però, questa autorità non s’impone come un potere assoluto e totalitario. Al contrario, Dio propone la sua legge al suo popolo e questa legge diventa vincolante solo dopo l’alleanza.

Quindi, è proprio l’alleanza come tale il vero fondamento del diritto nella Bibbia. Il perno del diritto è l’accordo mutuo di Dio e del suo popolo di stabilire una relazione sulla base di una legge proposta da Dio e accettata liberamente dal popolo. Ed è questo che dice un testo chiave del libro del Deuteronomio (26,16-19): «Oggi il Signore tuo Dio ti comanda di mettere in pratica questi ordini e decreti: osservali e mettili in pratica con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima. Oggi hai ottenuto che il Signore dichiarasse di essere il tuo Dio, se tu cammini per le sue vie, osservi i suoi comandamenti, precetti e decreti, e ascolti la sua voce; e il Signore oggi ti ha fatto dichiarare di essere un popolo di sua proprietà, come ti ha detto, osservando tutti i suoi precetti; perché ti renda superiore a tutte le nazioni che ha fatto per lode, fama e gloria e tu sia un popolo santo per il Signore tuo Dio, come egli ha detto».

Il testo rimane difficile e la traduzione rende a stento tutte le sfumature e le sfaccettature del testo originale.19 Comunque sia, il senso generale è chiaro: si tratta di un accordo bilaterale fra un sovrano e un popolo, con impegno mutuo. Certo, Dio e il popolo non sono su un piano di parità. Però, Dio stabilisce una relazione con il suo popolo e gli detta le sue condizioni. Israele entra liberamente in questa relazione quando accetta le condizioni proposte da Dio. Il mutuo consenso fonda la relazione, e la legge entra in vigore proprio nel momento del consenso mutuo.

Il fatto di fondare il diritto sull’alleanza, vale a dire sul consenso mutuo o il «contratto», è abbastanza nuovo nel mondo antico, in particolare nel Medio Oriente antico, dove la legge riceveva la sua autorità ultima dal re o dove la divinità la affidava al re. È evidente che parlo del fondamento giuridico della legge. Non parlo della sua origine storica, questa è una domanda diversa che richiederebbe uno sviluppo a parte.

Che la legge biblica sia fondata sull’assenso di tutti è confermato da alcuni testi dello stesso Deuteronomio. Quando si conclude l’alleanza, tutto il popolo deve essere presente, e non solo i notabili o i membri delle classi dirigenti. Cito alcuni testi più significativi, come per esempio Dt 5,2-3, che dice: «Il Signore nostro Dio concluse con noi un’alleanza all’Oreb. Non con i nostri padri il Signore concluse questa alleanza, ma con noi che oggi siamo qui tutti vivi».

Dt 31,12 è ancora più esplicito. Quando, ogni sette anni, si dovrà fare una lettura pubblica della legge, bisognerà radunare tutto il popolo: «Raduna tutto il popolo, uomini, donne, bambini e il forestiero che è nelle tue città, affinché ascoltino e imparino a temere il Signore vostro Dio e abbiano cura di mettere in pratica tutte le parole di questa legge».

In Israele, la legge è pubblica e conosciuta da tutti. Significa anche che tutti sono responsabili davanti alla legge. È il punto che vorrei sviluppare brevemente adesso.

5. La responsabilità collettiva

Se il popolo intero entra nell’alleanza con Dio, tutto il popolo accetta di vivere secondo le condizioni di questa alleanza. Questo significa che tutti sono responsabili della sorte del popolo. In Israele vi saranno di certo dirigenti, magistrati, responsabili, però, in linea di principio, l’alleanza conclusa con Dio mette tutto il popolo dalla stessa parte, senza differenze di rilievo: tutti sono chiamati a osservare la legge che condiziona la «benedizione» divina. Il benessere e la felicità del popolo dipendono quindi da tutti, così come tutti sono responsabili della «maledizione» divina che sanzionerà l’eventuale infedeltà del popolo.

L’alleanza con Dio, e non con una classe dirigente, abolisce teoricamente ogni differenza all’interno del popolo. Quindi essa allarga anche a tutti la responsabilità sulle sorti della nazione, che incombeva al solo re e ai suoi ministri. Essere responsabile davanti a Dio significa essere tutti responsabili, perché davanti a Dio scompaiono le differenze sociali.

In conclusione l’alleanza biblica responsabilizza tutto il popolo davanti al suo Dio. Il futuro d’Israele riguarda tutti. In altre parole, il fatto di essere responsabile solo davanti a Dio, vale a dire davanti a «nessuno» (nessuna autorità umana), significa che il popolo è rimandato alla propria coscienza e alla propria libertà di scelta, e non davanti ai suoi dirigenti. Ceti della classe governativa e popolo sono quindi entrambi responsabili davanti a Dio. In questa maniera, tutti si ritrovano fondamentalmente uguali.

6. Legge, autorità e territorio

L’alleanza, tuttavia, non è «vuota». Deve avere un contenuto e definire in termini concreti la relazione fra Dio e il suo popolo. Dio, in effetti, non agisce in modo arbitrario, secondo principi misteriosi o irrazionali. La responsabilità del popolo si traduce pertanto in una serie di precetti, di prescrizioni e di leggi che danno alla relazione fra Dio e il suo popolo il suo carattere «razionale». La legge è la «misura» della responsabilità del popolo davanti al suo Dio. In parole povere, il popolo sa che cosa deve fare perché lo dice la «legge». Qual è allora il ruolo della legge nell’alleanza? Qual è la sua funzione all’interno della relazione fra Dio e il popolo? È l’ultima domanda alla quale vorrei rispondere.

Inizio con un’osservazione semplice. I due pilastri dell’autonomia politica, nel Medio Oriente antico, sono la monarchia e il territorio. Una nazione è davvero indipendente quando ha il proprio re e il proprio territorio. Ora, nella Bibbia, Israele si costituisce idealmente come popolo nel deserto, prima di entrare nella terra promessa e prima di avere un re, molto prima della monarchia di Saul e Davide. Anche sotto questo aspetto Israele innova, perché è responsabile davanti a «nessuno», come detto, ma anche in un «non territorio».

Certo, come abbiamo visto, il Deuteronomio è stato scritto molto dopo Mosè e la permanenza nel deserto. Il testo che conosciamo risale alla riforma di Giosia nel 622 a.C. per esser poi rielaborato dopo l’esilio (586-538 a.C.). Questo testo, nella sua forma finale, risale quindi con ogni probabilità all’inizio del V secolo a.C. (fra 500 e 450 a.C.).

Però, il testo non si presenta come postesilico. Al contrario, il Deuteronomio si presenta come molto più antico perché è costituito da quattro discorsi pronunciati da Mosè nel deserto di Moab nell’ultimo giorno della sua vita (Dt 1,1-5).20 Questo fatto ha la sua importanza: il popolo d’Israele, per il quale fu concepito il Deuteronomio attuale, si trova in una situazione simile a quella dei suoi antenati, che hanno passato quarant’anni nel deserto. Non ha più monarchi e non ha più territorio.

Qual è allora il fondamento dell’esistenza di questo Israele che si trova nel deserto, senza monarchia e senza territorio? Questo fondamento è la legge. La legge prende il posto della monarchia e il posto del territorio. L’autorità ultima è proprio la legge, perché essa è la forma concreta della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Tutti sono sottomessi a questa legge nello stesso modo. Quindi si potrebbe applicare a Israele quello che dice un frammento di Pindaro sulla democrazia greca: «Il re di tutti è la legge».21 Secondo l’esegeta E. Otto, assistiamo davvero alla nascita della democrazia occidentale.22

Israele si costituisce quindi come popolo attorno alla legge, quando giura di essere fedele a questa legge piuttosto che a un sovrano umano. Israele, tutto sommato, è una delle prime nazioni che si definiscono come «nazione di diritto», perché l’identità giuridica le viene dalla sua legge e non da un legame con l’autorità personale di un re.

D’altronde questa legge definisce anche il vero «territorio» d’Israele, perché determina i confini del suo comportamento. Per appartenere a una nazione nell’antichità era necessario vivere su di un territorio.23 Chi viveva fuori da questo territorio diventava uno «straniero», e non godeva più dei diritti di cittadinanza. Israele, per contro, non si definisce a partire da un territorio, ma a partire da un comportamento. Le leggi d’Israele dicono chiaramente chi fa parte o non fa parte del popolo, chi deve essere escluso da esso. Perciò sono le leggi e non il domicilio o il beneplacito di un sovrano che lo determinano. Le norme di comportamento sono le vere frontiere del popolo d’Israele. Il diritto d’Israele è quindi molto più «personale» che territoriale.

La «personalità» del diritto d’Israele ha una conseguenza importante che vale la pena sottolineare. Se la legge traccia le frontiere del comportamento, essa delinea innanzitutto un quadro all’interno del quale si svolgerà l’attività del popolo. Però la legge d’Israele contiene un altro elemento essenziale: indica anche una direzione da seguire e assegna anche al popolo un compito. Questo compito viene definito in diversi modi. Nel Deuteronomio, l’essenziale viene detto nel testo già citato di 26,16-19, specialmente nei vv. 18-19: «Il Signore oggi ti ha fatto dichiarare di essere un popolo di sua proprietà, come ti ha detto, osservando tutti i suoi precetti, perché ti renda superiore a tutte le nazioni che ha fatto per lode, fama e gloria e tu sia un popolo santo per il Signore tuo Dio, come egli ha detto».

Il testo lascia trapelare un certo sciovinismo, un sentimento non raro nella Bibbia così come negli altri popoli del Medio Oriente antico, e forse non solo. Però quello che è più interessante è la presenza di due concetti chiave: «proprietà» e «popolo santo». Israele è fra tutte le nazioni l’appannaggio di Dio, la sua «proprietà privata», o il suo «demanio». Israele è anche un «popolo santo», un popolo unico che ha come compito di testimoniare questa unicità in mezzo alle altre nazioni. Questo compito viene riassunto dalla frase che funge da titolo a questa conferenza: «Siate santi, perché io, il Signore vostro, sono santo» (Lv 19,2). Che cosa significa questo comandamento? Viene specificato dal libro del Levitico. Però, il compito come tale va ben oltre quello che richiedono le regole della cosiddetta «legge di santità», il codice che forma la parte principale del libro del Levitico (cf. Lv 17-26). «Essere santi» non può limitarsi ad alcune azioni, il precetto è anzi una regola che si applica a tutta l’esistenza. In parole povere, significa che Israele deve ogni giorno trovare il modo di essere fedele alla sua vocazione di popolo di Dio, a questo suo carattere unico che lo distingue dagli altri popoli. Deve riflettere, creare, inventare, e trovare vie sempre nuove per non tradire quest’aspetto essenziale della propria identità.

Ritorno brevemente a quanto detto all’inizio. Il diritto è un attività più che una serie di norme. Per Israele, questo è sempre stato vero. Il diritto è stato un’attività costante. Il popolo ha cercato di definirsi nelle varie circostanze della sua esistenza per trovare il modo adeguato di rimanere fedele alla propria identità e alla propria vocazione in questo mondo. La vera fedeltà al passato è quindi quella di una costante creatività.

Jean Louis Ska sj

Note

1 Vedi per esempio Es 21,12: «Chi colpisce un uomo a morte sarà messo a morte» (legge con sanzione); Es 22,20: «Non molesterai lo straniero né l’opprimerai, perché foste stranieri nella terra d’Egitto» (legge senza sanzione). Traduzione della Nuovissima versione della Bibbia (Roma 1996).

2 Breve bibliografia: H.J. Berman, Law and Revolution. The Formation of the Western Legal Tradition, Cambridge MA 1983; tr. it. Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, «Testi e studi. Diritto», Milano 1998; L.L. Fuller, The Morality of Law, New Haven CN 21964.

3 The Morality of Law, 106, citato da Berman, Law, 19.

4 Berman, Law, 4-5.

5 Vedi soprattutto S.M. Paul, Studies in the Book of the Covenant in the Light of Cuneiform and Biblical Law, VTS 18, Leiden 1970, 37-40. Vedi per esempio questa riflessione: «Unlike Mesopotamia where the king alone was chosen by the gods and granted the gift of the perception of the right, God selects the entire corporate body of Israel to be the recipients of his law. His care and concern extend to all members of this community and not merely to one chosen individual. Thus everyone is held personally responsible for the observance of the law. This leads, in turn, to the concept of individual and joint responsibility» (38).

6 E. Auerbach, Mimesis. Die Darstellung der Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Bern 1946; tr. it. Mimesis. Rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale, Torino 1969. Vedi questa riflessione a proposito della «democrazia» nella Bibbia: «Fin dal primo apparire del popolo, al tempo dell’esodo dall’Egitto, avvertiamo di continuo i suoi moti, spesso tumultuosi; il popolo spesso ha parte negli avvenimenti sia nel suo insieme sia in gruppi singoli o con persone che escono isolate dalle file, e sembra che le origini delle profezie stiano nell’indomabile spontaneità politico-religiosa del popolo. Si riporta l’impressione che i movimenti in profondità del popolo d’Israele e di Giuda siano stati di tutt’altra specie e più elementari perfino di quelli delle posteriori democrazie antiche» (Mimesis, 26).

7 «La legge della separazione degli stili [è la legge secondo la quale] la pittura realistica del quotidiano è inconciliabile col sublime e trova il suo posto solo nel comico, e, tutt’al più, accuratamente stilizzata, nell’idilliaco» (Mimesis, 27).

8 «Nei poemi omerici gli avvenimenti grandi e alti si compiono molto più esclusivamente e inconfondibilmente [che nell’Antico Testamento] fra gli appartenenti all’aristocrazia» (Mimesis, 27).

9 «[In Omero] è innegabile l’esistenza di una specie di aristocrazia feudale, i cui membri dividono la vita fra battaglie, cacce, assemblee sulla piazza e banchetti, mentre le donne sorvegliano nella casa le ancelle. Come immagine d’un società questo mondo è del tutto immobile; le battaglie si combattono fra gruppi diversi di ceti patrizi; dal basso qui non giunge nulla» (Mimesis, 26).

10 «[…] il realismo familiare, la rappresentazione della vita quotidiana, presso Omero, rimane sempre nell’idilliaco e nel pacifico, mentre fin dal principio nei racconti del Vecchio Testamento il sublime, il tragico e il problematico prende forma nell’ambito familiare e quotidiano» (Mimesis, 26). Oppure: «[Nella Bibbia] la sublime azione divina penetra così profondamente nel quotidiano, che entrambi i campi del sublime e del quotidiano non sono di fatto separati, ma sono anche fondamentalmente inseparabili» (27-28).

11 «L’antica norma stilistica per cui l’imitazione del reale, la descrizione del quotidiano qualunque non poteva essere che comica (o tutt’al più idilliaca), è dunque inconciliabile con la rappresentazione di forze storiche, non appena questa cerchi di dar figura concreta alle cose, perché allora è costretta a discendere nelle profondità quotidiane e ordinarie della vita popolare e deve prendere sul serio ciò che v’incontra» (Mimesis, 52). Per Auerbach, i Vangeli adottano uno stile capace di mostrare le «forze storiche» all’opera nella quotidianità.

12 Dt 10,17: «[Dio] non fa preferenze di persone»; cf. Lc 20,21; At 10,34; Gal 2,6; Rm 2,11; Ef 6,9; Col 3,25; 1Pt 1,17.

13 Le traduzioni provengono dalla Nuovissima versione della Bibbia (Roma 1996), con qualche leggera correzione.

14 Su questo punto, si veda per esempio J.A. Soggin, Introduzione alla storia d’Israele e di Giuda, Paideia, Brescia 31998.

15 Cf. N. Lohfink, «Pluralismus. Theologie als Antwort auf Palusibilitätskriterien in aufkommenden pluralistischen Situationen erörtert am Beispiel des deuteronomistischen Gesetztes», in Id., Unsere grossen Wörter, Freiburg-Basel-Wien 1977; E. Otto, Das Deuteronomium. Politische Theologie und Rechtsform in Juda und Assyrien, Berlin-New York 1999.

16 Si veda E. Otto, «Von der Programmschrift einer Rechtsreform zum Verfassungsentwurf des Neuen Israel: Die Stellung des Deuteronomiums in der Rechtsgeschichte Israels», in G. Braulik (Hrgs.), Bundesdokument und Gesetz: Studien zum Deuteronomium, HBS 4, Freiburg 1995, 93-105.

17 Si veda l’opera di M. Weinfeld, Deuteronomy and the Deuteronomic School, Clarendon Press, Oxford 1972 = Eisenbrauns, Winona Lake IN 1992.

18 Riassumo per l’essenziale l’articolo della Grande enciclopedia IX, Novara 1974, 96.

19 Si veda, per esempio, N. Lohfink, «Dt 26,17-19 und die ‘Bundesformel’», ZKT 91 (1969) 517-553 = Studien zum Deuteronomium und zur deuteronomistischen Literatur I, SBAB 8, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1990, 211-261.

20 Questi quattro discorsi hanno ciascuno la sua introduzione. Vedi Dt 1,1-5; 4,44-45; 28,69; 33,1-2. Si veda P. Kleinert, Das Deuteronomium und der Deuteronomiker. Untersuchungen zur alttestamentlichen Rechts- und Literaturgeschichte, Bielefeld-Leipzig 1872, 167. L’idea è stata ripresa e sviluppata da N. Lohfink e G. Braulik in numerosi articoli e monografie.

21 Frammento 169: «Nomos o panton basileus».

22 E. Otto, Das Deuteronomium. Politische Theologie und Rechtsreform in Juda und Assyrien, de Gruyter (coll. BZAW, n° 284), Berlin-New York 1999, 378: «Die Wiege der Demokratie steht nicht nur in Athen, sondern auch in Jerusalem. Von der Bereitschaft und Fähigkeit, sich dieser Ursprung zu erinnern, hängt auch die Zukunft unserer Freiheit ab» («La culla della democrazia non si trova solo ad Atene, ma anche a Gerusalemme. Il futuro della nostra libertà dipende dalla nostra volontà e dalla nostra capacità di ricordarci di questa origine»).

23 Si vedano per esempio le leggi del codice deuteronomico, che si concludono con l’espressione: «Estirperai il male in mezzo a te»; Dt 13,6; 17,7; 19,19; 21,21; 22,21; 22,24; 24,7. Nella cosiddetta legislazione sacerdotale appare un’altra espressione tipica: «[chi non osserva questa legge] sia eliminato dal suo popolo»; cf. Gen 17,14 (circoncisione); Lv 7,20.21.27 (legge sui sacrifici); 19,8 (ancora legge sui sacrifici); Nm 9,13 (celebrazione della Pasqua).
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[Fonte: Incontri di Camaldoli 2001]

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