Lea Sestieri
Docente presso Università Gregoriana, Roma
Membro Associazione Ebraico Cristiana

È necessario - in contingenze così pluralistiche, quali stiamo vivendo oggi - affrontare il tema partendo dal concetto di scuola, cioè quanto la scuola può e deve incidere nella formazione sia intellettiva che psichica dei bambini prima e degli adolescenti poi, in modo da permettere ad ognuno di loro l’approccio, la convivenza, l’incontro con l’altro, qualunque sia la sua origine, la sua cultura, la sua tradizione e diciamo pure tristemente il suo colore. Pensiero formulato chiaramente in questa frase Pergé Avot (capitoli dei Padri, 4, 3, ) per restare nel campo dell’ebraismo: "Non disprezzate nessun essere umano e non rigettate niente; poiché non vi è essere umano che non abbia la sua ora e non vi è cosa che non abbia il proprio posto".

Oggi il discorso si affronta qui, dentro il nostro Paese, stato laico, con le sue scuole pubbliche di tutti i gradi. Scuole che in partenza dovrebbero offrire uguali diritti a ogni residente nel Paese, da qualunque parte venga. E dico parte e non di più, perché il primo riferimento può andare al bambino del Sud d’Italia e alla limitata e spesso ostile accoglienza quando egli frequenta una scuola del centro e specialmente del nord del nostro Paese. Occorre ricordare anche in questo caso, che questo bambino non è solo portatore di un dialetto diverso, ma di una cultura non propriamente uguale e spesso forse anche più raffinata di quella di quell’altro bambino che si sente superiore -lui- perché così ha sentito dire non solo dai suoi genitori, ma spesso purtroppo, anche dai suoi insegnanti.

Ed allora, se già possiamo notare ciò dentro la nostra stessa cosiddetta cultura italiana, che possiamo dire dell’accoglienza che molto spesso si riserva nelle nostre scuole a bambini e adolescenti che arrivano da Paesi di cultura diversa dalla nostra: può essere un cinese, un giapponese, un indiano, un africano (sia mediterraneo che dell’interno dell’Africa) e perché no anche un semplice albanese o un lontano filippino? Nelle nostre scuole si da spazio alle loro culture o ci si muove, nel migliore dei casi, in modo da fare loro dimenticare la loro cultura per farne un robot italiano?

Parlando con un professore amico che insegna all’Istituto Giulio Romano in classi dai 14 ai 18 anni, frequentato da vari stranieri, i cosiddetti extra comunitari, mi diceva che il rapporto tra i ragazzi è generalmente buono; molto spesso anche di ampia solidarietà, in modo che la paura iniziale dei nuovi arrivati scompare ed anzi entra in ognuno di loro l’affanno di assimilarsi al medio ambiente per essere il più possibile uguali ai loro compagni. Ma, aggiungeva ancora questo professore, che i nostri ragazzi con tutta la solidarietà che dimostrano non si interessano affatto alla cultura straniera, non fanno domande e anzi quasi cercano di soffocarla. Pertanto non esiste interscambio. Solo qualche professore più interessato e più impegnato cerca a volte di far affiorare con domande queste diverse culture.

Sempre riferendomi a questa informazione ho appreso con vera tristezza che per esempio degli zingari nessuno vuole nemmeno sentire parlare sia da parte degli italiani che degli stranieri. In un’altra scuola, invece, si tratta della scuola elementare Settembrini, un maestro è riuscito a fare nelle classi III e IV una interessantissima ricerca con i bambini con il titolo "Scopriamo gli zingari", dalla quale può sgorgare una vera mutua comprensione.

Infine - arrivo così al capitolo ebrei - questa è l’informazione che naturalmente mi ha più impressionato, perché si tratta di compagni dello stesso paese e della stessa cultura. Gli ebrei restano i più isolati sia perché per loro continuano ad esistere e ad essere comuni i vecchi stereotipi (del resto proprio quest’anno abbiamo avuto notizie di incidenti in varie scuole d’Italia), sia perché spesso l’ebreo stesso tende a isolarsi.

A questo punto ci si potrebbe domandare perché questa insistenza di stereotipi (sporco ebreo, lobby ebraica), di pregiudizi fino ad arrivare a frasi sbandierate negli stadi (ebrei sapone, Auschwitz la vostra patria). A cosa si deve ciò in un Paese dove gli ebrei sono appena 35.000 e nel mondo 13 milioni?

Sono più di 40 anni che mi interesso attivamente delle relazioni ebraico-cristiane perché considero che l’unico sistema per alleggerire, se non eliminare, le prese di posizioni antiebraiche, da qualunque parte vengano, è farsi conoscere, spiegare, raccontare chi siamo, che cosa dicono veramente i nostri antichi libri, che la nostra etica è l’etica umana degli uomini in generale senza differenza di origine. Ho ricordato questa mia posizione perché non mi si fraintenda adesso quando dico e sostengo che la risposta alla domanda: a cosa si deve l’antisemitismo? Si deve ancora ai 2000 anni di impostazioni sbagliate da parte della Chiesa cristiana. Anche negli ultimi 50 anni una serie di documenti e di discorsi di Pontefici e di importanti sacerdoti hanno riconosciuto i loro errori e cercano continuamente di attenuarli, "non si cancella in 20 o 30 anni quello che è stato detto in 2000".
Queste ultime sono parole del cardinale Willebrandt.

E ritornando alla scuola: non credo che all’origine di tali isolamenti e differenziazioni sia essenzialmente il problema religioso in quanto tale: credere, non credere; un dio con diversi nomi ma sempre lo stesso dio; ricorrenze in periodi diversi.

Spesso, anzi spessissimo nella cultura scolastica i problemi veramente religiosi non vengono affrontati, anche quando lo studio della filosofia e di certa letteratura li sfiora e a volte li centra.

È inutile ricordare che esiste l’ora di religione. Nella scuola pubblica di uguali diritti non dovrebbe esistere l’ora di una religione, come avviene nelle nostre scuole, ma forse solo l’ora di Storia delle religioni, così come si studiano le varie letterature. Nella scuola le religioni dovrebbero essere affrontate come veicoli di cultura. Sappiamo infatti che i processi di formazione religiosa come sono stati affrontati e strutturati nei secoli nei vari paesi e nelle varie forme, per differenti che essi siano, stanno alla base della cultura stessa. Ma la cultura, anche se le riconosce in aperte una base religiosa, una volta strutturata e lanciata verso le varie conquiste della vita e della realtà umana di tutti i giorni, conserva sicuramente la religione, o meglio la religiosità, come sua base, - e vorrei sperare come base etica - ma non ne costituisce l’elemento imprescindibile.

In questa forma la conoscenza delle varie religioni nel loro nascere, nel loro svilupparsi come strumenti di cultura, avvicinerebbe i giovani alla cultura dell’altro; si aprirebbe il discorso vicendevole, la discussione, la meraviglia, la comprensione (per esempio del perché il venerdì o il sabato o la domenica) e quindi l’incontro, senz’altro molto più facile e molto più affine che l’uscita di classe dell’ebreo, del musulmano, dell’induista, e dentro dello stesso cristianesimo del protestante e dell’ortodosso.

Uscita di classe che può far sentire quelli che restano dentro i privilegiati tolleranti e pertanto superiori, e gli altri come diversi, tollerati. Cosa che davvero non facilita, anzi direi distrugge gli uguali diritti. Come insegnanti dobbiamo pensare a questo come nostro essenziale dovere e a ciò che è necessario esigere dall’istituzione che deve regolare una scuola di uguali diritti che rispetti le diverse tradizioni: potrebbe essere il chador, la non possibilità di scrivere di sabato e nelle mense scolastiche un vitto che vada bene per tutti non solo in quanto a norme igieniche, ma anche a norme religioso-tradizionale.

E come ho cominciato concludo con una citazione, questa volta biblica e si riferisce allo straniero: Lv. 19,33 "E quando un forestiero faccia dimora con voi nel vostro paese, non dovete fargli sopruso".


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