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Le cinque sfide dell’ecumenismo per il XXI secolo,
 secondo il Cardinal Kasper

Ricordando, a Ginevra, i 40 anni di rapporti tra la Chiesa Cattolica e il Consiglio delle Chiese

È possibile fare di più di quanto stiamo facendo per l’unità, ha riconosciuto questo giovedì (17 novembre 2005 ndR) il Cardinale Walter Kasper in un atto di commemorazione dei quarant’anni di collaborazione tra la Chiesa cattolica e il Consiglio Mondiale delle Chiese (WCC, acronimo in inglese).

Il Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani ha esposto le cinque sfide che l’ecumenismo deve affrontare nel XXI secolo durante l’atto inaugurale di una consultazione in svolgimento dal 17 al 19 novembre sul rinnovamento del movimento ecumenico nel XXI secolo e sul ruolo futuro di un gruppo consultivo congiunto tra i due organismi.

Kasper ha affermato a Ginevra che “senza pericolo di tradire la nostra fede o la nostra coscienza, insieme potremmo fare già oggi molto di più di quanto facciamo”.

Presentando le sfide dell’ecumenismo per il XXI secolo, Kasper ha spiegato che “in primo luogo il movimento ecumenico” “ha bisogno di chiarezza, a volte di nuova chiarezza sulle sue basi teologiche”.

In secondo luogo ha considerato che si richiedono “una visione e un obiettivo condivisi”. “I partner nel movimento ecumenico hanno una visione comune dell’ecumenismo e del suo obiettivo fondamentale?”, si è chiesto. “Senza una risposta alla domanda relativa a dove stiamo andando, non arriveremo da nessuna parte”, ha risposto.

“La visione cattolica di unità, intesa come piena comunione nella fede, nei sacramenti e nel ministero della Chiesa, corrisponde in principio con la comprensione delle nostre Chiese sorelle ortodossa e ortodossa orientale, ma sfortunatamente differisce dall’interpretazione più usuale della principale posizione protestante”, ha affermato.

“Il dialogo presuppone partner che abbiano una propria chiara identità; solo allora potranno apprezzare un’altra identità diversa ed intraprendere un dialogo significativo e fruttuoso”.

In terzo luogo, ha affermato che “non c’è ecumenismo senza conversione, e non c’è futuro in generale senza conversione”, e che “rinnovamento e conversione dei cuori includono sia l’aspetto istituzionale che quello personale”.

“La conversione personale e la santificazione implicano una spiritualità di communio, che significa fare spazio all’altro e opporsi alle tentazioni egoistiche della competizione, del carrierismo, della sfiducia e della gelosia”, ha detto.

“Allo stesso tempo, la riforma istituzionale – il Concilio parla perfino di ‘riforma continua’ (perennis reformatio) – è un presupposto e una condizione essenziale per il progresso ecumenico”.

In quarto luogo, ha considerato “l’anima e il cuore del movimento ecumenico, l’ecumenismo spirituale”.

“Un semplice attivismo ecumenico diventa una burocrazia senz’anima ed è destinato ad esaurirsi”. In questo senso, ha chiarito che “il primo posto nell’ecumenismo spirituale spetta alla preghiera”.

Questa spiritualità porta ad un’altra manifestazione di ecumenismo, la “grande nuvola delle testimonianze”, “soprattutto di coloro che hanno dato la propria vita per Cristo, i numerosi martiri di molte delle nostre Chiese, ortodossa, cattolica e protestante, nel XX secolo”.

Il quinto ed ultimo punto è l’“ecumenismo pratico”, vale a dire l’impegno di tutti i cristiani ad annunciare Cristo e le sue implicazioni sociali, l’impegno a favore “della dignità della persona umana e dei diritti umani, della santità della vita, dei valori familiari, dell’istruzione, della giustizia e della pace, della salute, della conservazione del creato e del dialogo interreligioso”.

Nel suo intervento, il moderatore del Comitato centrale del Consiglio Mondiale delle Chiese, Aram I, ha affermato che questa istituzione e la Chiesa cattolica potrebbero affrontare insieme e con una sola voce argomenti che preoccupano entrambe per andare incontro alle aspettative della gente.

“In un mondo di incertezze e tensioni”, ha detto, “la gente si aspetta sempre di più la voce unita delle Chiese”. In risposta, il Joint Working Group (JWG) tra la Chiesa cattolica e il WCC potrebbe fornire una “struttura” perché i due organismi “affrontino questioni di comune interesse insieme”. “Una tale azione congiunta farebbe la differenza in molti ambiti”, ha aggiunto.

Fondato nel 1965, all’indomani del Concilio Vaticano II, il JWG ha appena compiuto 40 anni. E’ un corpo consultivo incaricato di intraprendere, valutare e sostenere le molte forme di collaborazione tra i suoi due organismi.

“Abbiamo bisogno di rinnovare e riaffermare la nostra visione ecumenica in un linguaggio che sia convincente e impegnativo per le Chiese – e per i cristiani! – nel XXI secolo”, ha affermato il Segretario generale del WCC, il reverendo Samuel Kobia, dando il benvenuto ai partecipanti all’evento.

Poiché le Chiese “hanno bisogno l’una dell’altra per essere pienamente ciò che Cristo vuole che siano”, sono anche necessarie “le istituzioni e le strutture ecumeniche che possano rispondere a questa situazione”, ha aggiunto.

I due co-moderatori del JWG, l’Arcivescovo Mario Conti (cattolico) e il Vescovo Jonas Jonson (luterano), hanno partecipato ad un evento pubblico di ringraziamento che ha aperto la consultazione.

Quali dovrebbero essere esattamente in futuro l’agenda, il ruolo e il contenuto di un mandato rinnovato del JWG è il fulcro della consultazione che avrà luogo fino al 19 novembre presso l’Istituto Ecumenico a Bossey, nei pressi di Ginevra.

Il Consiglio Mondiale delle Chiese è un’associazione di Chiese, attualmente 347 in più di 120 Paesi di tutti i continenti, appartenenti teoricamente a tutte le tradizioni cristiane. La Chiesa cattolica non ne è membro, ma collabora con il WCC
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