PELLEGRINAGGIO APOSTOLICO IN TURCHIA

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
A SUA SANTITÀ DIMITRIOS I

San Giorgio al Fanar (Istanbul), 30 novembre 1979 

Viaggio Apostolico di Giovanni Paolo II in Turchia, 28-30 novembre 1979


Santissimo e molto amato fratello.

“Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133,1). Queste parole del salmista scaturiscono dal mio cuore oggi che sono con voi. Sì, quanto è buono, quanto è soave essere tutti insieme fratelli.

Noi siamo riuniti per celebrare Sant’Andrea, un apostolo, il primo chiamato fra gli apostoli, fratello di Pietro, corifeo degli apostoli. E questa circostanza sottolinea il significato ecclesiale del nostro incontro odierno. Andrea era un apostolo, vale a dire uno degli uomini scelti dal Cristo per essere trasformati dal suo Spirito ed essere inviati nel mondo come lui stesso era stato inviato dal Padre (Gv 17,19). Gli apostoli sono stati inviati per annunciare la Buona Novella della riconciliazione in Cristo (cf. 2Cor 5,18-20), per chiamare gli uomini ad entrare in comunione con il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo (cf. 1Gv 1,1-3) e per riunire così gli uomini, divenuti figli di Dio, in un grande popolo di fratelli (cf. Gv 11,52). Riunire tutto in Cristo a lode e gloria di Dio (cf. Ef 1,10-12) tale è la missione degli apostoli, tale è la missione di quelli che, dopo di loro, furono scelti ed inviati, tale è la vocazione della Chiesa.

Noi celebriamo dunque oggi un apostolo, il primo chiamato fra gli apostoli, e questa festa ci ricorda l’esigenza fondamentale della nostra vocazione, la vocazione della Chiesa.

Questo apostolo, patrono dell’illustre Chiesa di Costantinopoli, è il fratello di Pietro. Certamente tutti gli apostoli sono legati tra loro dalla nuova fraternità che unisce coloro il cui cuore è rinnovato dallo Spirito del Figlio (cf. Rm 8,15) e ai quali è stato affidato il ministero della riconciliazione (cf. 2Cor 5,18), ma questo non annulla i legami specifici creati dalla nascita e dall’educazione in una stessa famiglia. Andrea è il fratello di Pietro. Andrea e Pietro erano fratelli e, in seno al collegio apostolico, doveva unirli una intimità più grande e una collaborazione più stretta nell’azione apostolica.

Qui ancora l’odierna celebrazione ci ricorda che fra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli esistono particolari legami di fraternità e d’intimità, e che una collaborazione più stretta è naturale tra queste due Chiese.

Pietro, fratello di Andrea, è il corifeo degli apostoli. Grazie all’ispirazione del Padre, ha pienamente riconosciuto in Gesù il Cristo, il Figlio del Dio vivente (cf. Mt 16,16); a causa di questa fede egli ha ricevuto il nome di Pietro, affinché la Chiesa potesse fondarsi su questa roccia (cf. Mt 16,18). Egli è stato incaricato di assicurare l’armonia della predicazione apostolica. Fratello tra i fratelli, ha ricevuto la missione di riconfermarli nella fede (cf. Lc 22,32); egli ha per primo la responsabilità di vegliare sull’unione di tutti, di assicurare la sinfonia delle sante Chiese di Dio nella fedeltà “alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte” (Gd 3).

Con questo spirito animato da questi sentimenti, il successore di Pietro ha voluto in questo giorno rendere visita alla Chiesa che ha per patrono Sant’Andrea, al suo venerato Pastore, a tutta la sua gerarchia e a tutti i suoi fedeli. E ha voluto partecipare alla sua preghiera. Questa visita alla prima sede della Chiesa ortodossa mostra chiaramente la volontà di tutta la Chiesa cattolica di andare avanti nel cammino verso l’unità di tutti, e anche la convinzione che il ristabilimento della piena comunione con la Chiesa Ortodossa è una tappa fondamentale per il progresso decisivo di tutto il movimento ecumenico. La nostra divisione non ha potuto essere priva di influenze sulle altre divisioni che sono seguite.

La mia iniziativa si pone nel solco aperto realizzato da Giovanni XXIII. Essa riprende e prolunga le iniziative memorabili del mio predecessore Paolo VI, quella che lo conduceva prima a Gerusalemme, ove ebbe luogo per la prima volta l’abbraccio commovente e il primo dialogo orale con il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, nel luogo stesso dove si compì il mistero della Redenzione per la riunione dei figli di Dio dispersi; poi l’incontro avvenne qui, oltre dodici anni fa, in attesa che il Patriarca Atenagora venisse a sua volta a rendere visita a Paolo VI nella sua sede di Roma. Queste due grandi figure ci hanno lasciato per raggiungere Dio: essi hanno compiuto il loro ministero, l’uno e l’altro protesi verso la piena comunione e quasi impazienti di realizzarla finché erano ancora in vita. Da parte mia non ho voluto tardare ancora per venire a pregare con voi, presso di voi; fra i miei viaggi apostolici già realizzati o progettati, questo rivestiva ai miei occhi un’urgenza e un’importanza particolari. Oso anche sperare che, di nuovo, noi potremo pregare insieme, Sua Santità il Patriarca Dimitrios I e io, e questa volta sulla tomba dell’apostolo Pietro. Tali iniziative esprimono davanti a Dio e davanti a tutto il Popolo di Dio la nostra impazienza per l’unità.
Nel corso di quasi un millennio le due Chiese-sorelle sono fiorite l’una accanto all’altra, come due grandi tradizioni vitali e complementari della stessa Chiesa di Cristo, conservando non soltanto relazioni pacifiche e fruttuose, ma l’aiuto dell’indispensabile comunione nella fede, nella preghiera e nella carità, che a nessun costo volevano rimettere in discussione, malgrado le differenti sensibilità.

Il secondo millennio, al contrario, è stato offuscato, a parte qualche fuggevole schiarita, dalla distanza che le due Chiese hanno preso reciprocamente con tutte le funeste conseguenze. La piaga non è ancor guarita.

Ma il Signore può guarirla, e ci ingiunge di fare il meglio possibile. Eccoci ormai al termine del secondo millennio: non sarebbe tempo di affrettare il passo verso la perfetta riconciliazione fraterna affinché l’alba del terzo millennio ci trovi di nuovo fianco a fianco, nella piena comunione, per testimoniare insieme la salvezza di fronte al mondo, la cui evangelizzazione attende questo segno di unità?

Sul piano concreto, la visita odierna dimostra anche l’importanza che la Chiesa cattolica attribuisce al dialogo teologico che sta per iniziare con la Chiesa ortodossa. Con realismo e saggezza, in conformità all’auspicio della Sede Apostolica di Roma e anche al desiderio delle Conferenze panortodosse, era stato deciso di riannodare tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse relazioni e contatti che avessero permesso di riconoscersi e di creare l’atmosfera necessaria per un fruttuoso dialogo teologico. Bisognava ricostituire il contesto prima di tentare di rifare insieme i testi. Questo periodo è stato giustamente chiamato il dialogo della carità. Questo dialogo ha permesso di prendere coscienza della profonda comunione che già ci unisce, e fa sì che possiamo guardarci e trattarci come Chiese-sorelle. Molto è già stato realizzato, ma bisogna continuare questo sforzo.

Bisogna trarre le conseguenze di questa reciproca riscoperta teologica, in ogni luogo ove cattolici e ortodossi vivono insieme.

Bisogna superare le abitudini all’isolamento per collaborare in tutti i settori dell’azione pastorale, ove una tale collaborazione è resa possibile dalla comunione quasi totale che già esiste fra noi. Non bisogna aver paura di riconsiderare, da una parte e dall’altra, e in consultazione reciproca, le regole canoniche stabilite quando la coscienza della nostra comunione – ormai stretta anche se ancora incompleta – era ancora oscurata, regole che forse non corrispondono più ai risultati del dialogo della carità e alle possibilità che sono state aperte. È importante perché i fedeli dell’una e dell’altra parte si rendano conto dei progressi compiuti, e sarebbe auspicabile che quanti stanno per essere incaricati del dialogo abbiano la preoccupazione di trarne le conseguenze, per la vita dei fedeli, dei progressi futuri.

Questo dialogo teologico che sta per iniziare avrà lo scopo di superare i malintesi e i disaccordi che esistono ancora fra noi se non a livello di fede, almeno a livello della formulazione teologica. E dovrebbe svolgersi non soltanto nell’atmosfera del dialogo e della carità che deve svilupparsi e intensificarsi, ma anche in un’atmosfera di adorazione e di disponibilità.

È soltanto nell’adorazione, con un senso acuto della trascendenza del mistero indicibile che “sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3,19) che si potranno situare le nostre divergenze e “niente imporre che non sia necessario” (cf. Unitatis Redintegratio, 18).

Mi sembra in effetti che la domanda che dobbiamo porci non è tanto di sapere se possiamo ristabilire la piena comunione, ma ancor più se abbiamo il diritto di restare separati. Questa domanda dobbiamo porcela in nome anche della nostra fedeltà alla volontà di Cristo sulla sua Chiesa, cui una preghiera incessante deve renderci gli uni e gli altri sempre più disponibili nel corso del dialogo teologico.

Se la Chiesa è chiamata a riunire gli uomini nella lode di Dio, Sant’Ireneo, grande Dottore dell’Oriente e dell’Occidente, ci ricorda che “la gloria di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo, Adversus haereses, IV, 20,7). Tutto nella Chiesa è ordinato per permettere che l’uomo viva veramente in questa piena libertà che deriva dalla comunione con il Padre, attraverso il Figlio, nello Spirito. Sant’Ireneo in effetti afferma “e la vita dell’uomo è la visione di Dio”, la visione del Padre manifestata nel Verbo.

La Chiesa non può pienamente rispondere a questa vocazione se non testimoniando con la sua l’unità la novità di questa vita data nel Cristo. “Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17,23).

Sicuro che la nostra speranza non può essere delusa (cf. Rm 5,5), torno a dirvi, fratelli amatissimi, la gioia di trovarmi fra voi, e con voi ne rendo grazie al Padre da cui viene ogni dono perfetto (cf. Gc 1,17).
 

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