L'introvabile aria di morte- l'omaggio nelle Grotte vaticane
Marina Corradi, su "Avvenire" del 14 aprile 2005

In attesa davanti all'ingresso delle Grotte vaticane una folla composta, ma continua. Polacchi irriducibili, pellegrini da ogni dove, e qualcuno che da tempo aveva fissato di partecipare all'udienza settimanale, di recarsi dal Papa per una benedizione. Veniamo a prendercela ora, dicono tranquilli, come se quella lastra di marmo bianca non fosse che una faccenda incidentale - sovranamente certi che non sia, quella pietra fredda, l'ultima parola.

E nello scorrere mite ma ostinato dei fedeli sulla tomba del Papa rivedi in un momento i giorni dall'agonia al funerale, dall'attesa sotto a quella finestra ancora illuminata all'annuncio nel battere delle campane, alla folla oceanica che di ora in ora premeva sempre più sui vecchi muri di Borgo Pio: muta, incontenibile, agli occhi di molti inquietante. Per tutti, e anche per i cronisti, spiazzante: perché si era venuti credendo di dovere scrivere della morte di un Papa. Di morte, dunque. E che l'evento perciò fosse quello delle ventuno e trentasette del 2 aprile: il dolore, il pianto, la folla smarrita. Le preghiere, naturalmente, gli occhi di tutti verso la finestra abbandonata. Sì, certo, ci sarebbe stata poi la messa di suffragio, e tutti i previsti riti. Ma, si pensava insomma quella sera ascoltando i rintocchi di San Pietro a morto, il centro di ciò che doveva accadere ormai era accaduto.

Tutto doveva invece ancora incominciare. All'alba sotto al colonnato avremmo trovato le prime avanguardie dei ragazzi arrivati da ogni dove, intirizziti nei sacchi a pelo. La faccia di chi ha pianto, benché nessuna telecamera fosse a filmarli, ma quelli per cui la piazza colma era "fenomeno mediatico", in quell'alba, erano a letto. Eppure nella domanda di quei ventenni - «e ora, chi si occuperà di noi?» - non c'era lutto, ma la voglia di andare avanti che si ha a vent'anni, anche nella tristezza. Non c'era senso di fine nella messa in suffragio in San Pietro, piena di famiglie e di bambini. Né alito di morte quando la processione col feretro ha fatto il suo ingresso dal portone di bronzo. Un attimo di silenzio intensissimo, la coscienza piena di un addio fra uomini, doloroso come sono i nostri addii. Ma non per sempre.

Nella folla che tendeva le braccia, nelle madri che alzavano i bambini - nel gesto che si fa con chi parte, perché si ricordi di noi - era percepibile che quella storia non finiva lì, in quella apparente irraggiungibile lontananza. E, per chi era lì a scrivere, era chiaro che parlare solo di morte sarebbe stato un falsare la realtà della piazza. Di quella gente che alle cinque del mattino del primo giorno di esposizione in basilica correva, dal fondo di via della Conciliazione, i figli addormentati in braccio, per mettersi in coda e salutare il Papa. In centinaia di migliaia in attesa, nella notte fonda, e nessuna telecamera ancora.

La morte? Mai avevamo visto la morte tanto oscurata dalla vita, dalla speranza dei vivi, sfiniti, le braccia conserte, ostinati. Capita a volte anche ai figli distratti, morendo il padre, di accorgersi d'improvviso di chi, e cos'era, con un battito brusco della mano sulla fronte. Un oceano di figli tristi, eppure certi di un altro destino. E i cronisti con le parole di lutto pronte, ma inutili. Ben altro da raccontare. La morte ridotta quasi a un fatto secondario («morte, dov'è la tua vittoria?») perché milioni di uomini sono venuti a cercare un vivo.

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