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PAPA PAOLO VI

DICHIARAZIONE CIRCA LA DOTTRINA CATTOLICA SULLA CHIESA
PER DIFENDERLA DA ALCUNI ERRORI ODIERNI

IL MISTERO DELLA CHIESA, illuminato di luce nuova dal Concilio Vaticano II, è stato poi ripetutamente riconsiderato in numerosi scritti di teologi. Mentre non pochi di essi hanno di certo contribuito a farlo meglio comprendere, altri invece, a causa del linguaggio ambiguo o addirittura erroneo, hanno oscurato la dottrina cattolica, giungendo, talvolta, al punto di opporsi alla fede cattolica anche in cose fondamentali.

Quando, dunque, è stato necessario, non sono mancati Vescovi di varie nazioni, i quali, nella loro responsabilità « di conservare puro ed integro il deposito della fede » e nel loro dovere « di annunciare incessantemente il Vangelo », hanno avuto premura, con dichiarazioni convergenti, di premunire dal pericolo di errore i fedeli affidati alle loro cure. Ed anche la seconda Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, trattando del sacerdozio ministeriale, ha esposto alcuni punti dottrinali, importanti per quel che riguarda la costruzione della Chiesa.

Parimenti, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il cui compito è quello di « tutelare la dottrina circa la fede e i costumi in tutto il mondo cattolico », rifacendosi anzitutto ai due Concili Vaticani, intende riassumere e spiegare alcune verità attinenti al mistero della Chiesa, le quali sono oggi negate o messe in pericolo.

1. L’UNICITÀ DELLA CHIESA DI CRISTO

Unica è la Chiesa « che il nostro Salvatore, dopo la sua risurrezione, lasciò alla cura pastorale di Pietro (cf Gv 21,17), della quale affidò a lui e agli altri Apostoli la diffusione e la guida (cf Mt 18,18ss.), e che costituì per sempre come colonna e sostegno della verità (cf 1 Tim 3,15) »; e tale Chiesa di Cristo, « costituita e organizzata come società in questo mondo, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui ». Questa dichiarazione del Concilio Vaticano II è illustrata dalle parole dello stesso Concilio, quando afferma che « solo… mediante la Chiesa cattolica di Cristo, strumento universale di salvezza, è possibile entrare nel pieno possesso di tutti i mezzi di salvezza »; e che la medesima Chiesa cattolica « è stata arricchita di tutta la verità divinamente rivelata e di tutti i mezzi di grazia », di cui Cristo ha voluto dotare la sua comunità messianica. Ciò non toglie che essa, mentre è ancora pellegrina sulla terra, « poiché comprende peccatori nel suo seno, sia insieme santa e bisognosa di continua purificazione »; e nemmeno che « al di fuori della sua struttura » e, più espressamente, nelle Chiese o comunità ecclesiali, che non sono in perfetta comunione con la Chiesa cattolica, « si trovino in quantità elementi di santificazione e di verità che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono all’unità cattolica ».

Per tali ragioni, « è necessario che i cattolici riconoscano con gioia ed apprezzino i valori genuinamente cristiani, derivanti dallo stesso patrimonio comune, che si riscontrano presso i fratelli da noi separati »; e che, in un comune sforzo di purificazione e di rinnovamento, si impegnino per la ricomposizione dell’unità tra tutti i cristiani, affinché la volontà di Cristo si compia e la divisione dei cristiani più non continui ad ostacolare la proclamazione del Vangelo nel mondo. Ma, al tempo stesso, i cattolici sono tenuti a professare di appartenere, per misericordioso dono di Dio, alla Chiesa fondata da Cristo e guidata dai successori di Pietro e degli altri Apostoli, presso i quali permane, intatta e viva, l’originaria tradizione apostolica, che è patrimonio perenne di verità e di santità della medesima Chiesa. Non possono, quindi, i fedeli immaginarsi la Chiesa di Cristo come la somma – differenziata ed in qualche modo unitaria insieme – delle Chiese e comunità ecclesiali; né hanno facoltà di pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che, perciò, debba esser soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e comunità.

2. L’INFALLIBILITÀ DI TUTTA LA CHIESA

« Nella sua immensa bontà Dio dispose che la Rivelazione, da lui fatta per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre nella sua interezza ». A tal fine, egli ha affidato alla Chiesa il tesoro della parola di Dio, alla cui conservazione, penetrazione ed applicazione alla vita concorrano insieme i Pastori e il Popolo santo.

Dio stesso, dunque, l’assolutamente infallibile, ha voluto dotare il suo Popolo nuovo, che è la Chiesa, di un’infallibilità partecipata, circoscritta alle cose riguardanti la fede e i costumi; essa appunto si verifica quando tutto il Popolo di Dio ritiene senza incertezze qualche punto dottrinale attinente a tali cose; essa, ancora, è in permanente dipendenza dallo Spirito Santo che, con sapiente provvidenza e con l’unzione della sua grazia, guida la Chiesa alla verità intera, fino alla venuta gloriosa del suo Signore. Circa questa infallibilità del Popolo di Dio il Concilio Vaticano II dichiara: « L’universalità dei fedeli, che hanno l’unzione ricevuta dal Santo (cf 1 Gv 2,20 e 27), non può ingannarsi nel credere, e manifesta questa sua singolare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici” (S. Agostino, De Praed. Sanct. 14,27) esprime l’unanime suo consenso in cose riguardanti la fede e i costumi ».

Ma lo Spirito Santo illumina e soccorre il Popolo di Dio, in quanto è il corpo di Cristo, unito in comunione gerarchica. Lo dice il Concilio Vaticano II, quando alle parole ora riferite aggiunge: « Mediante quel senso della fede, suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro Magistero, nella cui obbedienza fedele accoglie non già una parola d’uomini, ma, qual è veramente, la parola di Dio (cf 1 Ts 2,13), indefettibilmente aderisce “alla fede trasmessa ai credenti una volta per tutte” (Gd 3), con retto giudizio la penetra più a fondo e più perfettamente la applica nella vita ».

Senza dubbio i fedeli, partecipi anch’essi, in certa misura, dell’ufficio profetico di Cristo, in tante maniere contribuiscono ad accrescere la comprensione della fede nella Chiesa. « Cresce infatti – così dice il Concilio Vaticano II – la percezione delle realtà e delle parole trasmesse, sia mediante la riflessione e lo studio dei credenti che le meditano nel loro cuore (cf Lc 2,19 e 51), sia mediante l’intelligenza interiormente sperimentata delle realtà spirituali, sia mediante la predicazione di coloro che, con la successione episcopale, hanno ricevuto un sicuro carisma di verità », ed il Sommo Pontefice Paolo VI osservava che la « testimonianza » che è data dai Pastori della Chiesa è « saldamente ancorata nella sacra Tradizione e nella sacra Scrittura, e alimentata dalla vita di tutto il Popolo di Dio ».

Tuttavia, per istituzione divina, ammaestrare i fedeli autenticamente, cioè con l’autorità di Cristo a diverso titolo loro partecipata, è competenza esclusiva di quei Pastori, successori di Pietro e degli altri Apostoli; per questo i fedeli, lungi dal limitarsi ad ascoltarli semplicemente quali esperti della dottrina cattolica, son tenuti ad aderire al loro insegnamento impartito in nome di Cristo, proporzionalmente all’autorità che possiedono e che intendono esercitare. Perciò il Concilio Vaticano II, in sintonia col Concilio Vaticano I, ha insegnato che Cristo ha stabilito in Pietro « il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità di fede e di comunione »; e il Sommo Pontefice Paolo VI ha affermato che « il magistero dei Vescovi è, per i credenti, il segno e il tramite che consente loro di ricevere e di riconoscere la parola di Dio ». Per quanto, dunque, il sacro Magistero si avvalga della contemplazione, della condotta e della ricerca dei fedeli, il suo ufficio non si riduce, però, a ratificare il consenso da loro già espresso; anzi, nell’interpretazione e nella spiegazione della parola di Dio scritta o trasmessa, esso può prevenire ed esigere tale consenso. Ed infine, dell’intervento ed aiuto del Magistero il Popolo di Dio ha particolarmente bisogno, quando dissensi interni insorgono e si diffondono su una dottrina che dev’essere creduta o ritenuta; ciò ad evitare che, all’interno dell’unico corpo del suo Signore, esso sia privato della comunione in un’unica fede (cf Ef 4,4 e 5).

3. L’INFALLIBILITÀ DEL MAGISTERO DELLA CHIESA

Gesù Cristo, nell’affidare ai Pastori l’incarico di insegnare il Vangelo a tutto il suo Popolo e all’intera famiglia umana, volle dotare il loro Magistero di un adeguato carisma di infallibilità in cose riguardanti la fede e i costumi. Poiché tali carisma non proviene da nuove rivelazioni, di cui sarebbero gratificati il Successore di Pietro e il Collegio episcopale, esso non li dispensa dall’impegno di scrutare, con l’uso di mezzi appropriati, il tesoro della divina Rivelazione contenuto nei Sacri Libri, che ci insegnano intatta la verità che Dio ha voluto fosse scritta in vista della nostra salvezza, e nella viva Tradizione apostolica. Ma nell’esercizio della loro funzione i Pastori della Chiesa sono convenientemente assistiti dallo Spirito Santo; e questa assistenza raggiunge il vertice, quando ammaestrano il Popolo di Dio in modo tale che, per le promesse di Cristo a Pietro e agli altri Apostoli, il loro insegnamento è necessariamente immune da errore.

Questo si verifica quando i Vescovi dispersi nel mondo, ma in comunione di magistero col Successore di Pietro, convergono in un’unica sentenza da ritenersi come definitiva. Lo stesso avviene ancora in modo più evidente, sia quando i Vescovi con atto collegiale – come nel caso dei Concili ecumenici – unitariamente al loro Capo visibile definiscono che una dottrina dev’esser ritenuta, sia quando il Romano Pontefice « parla ex cathedra, quando cioè, nell’adempimento dell’ufficio di pastore e dottore di tutti i cristiani, con la sua suprema potestà apostolica definisce che una dottrina sulla fede o sui costumi dev’esser tenuta dalla Chiesa universale ».

Secondo la dottrina cattolica, l’infallibilità del Magistero della Chiesa si estende non solo al deposito della fede, ma anche a tutto ciò che è necessario perché esso possa esser custodito od esposto come si deve. L’estensione, poi, di tale infallibilità al deposito stesso della fede è una verità che la Chiesa, fin dalle origini, ha ricevuto come certamente rivelata nelle promesse di Cristo. Fondandosi appunto su questa verità, il Concilio Vaticano I definì qual è l’oggetto della fede cattolica: « Si devono credere con fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o trasmessa, e che dalla Chiesa, con solenne giudizio o nel magistero ordinario e universale, sono proposte a credere come divinamente rivelate ». Di conseguenza, l’oggetto della fede cattolica – che specificamente va sotto il nome di dogmi – come necessariamente è ed è sempre stato la norma immutabile per la fede, altrettanto lo è per la scienza teologica.

4. NON SI DEVE ATTENUARE IL DONO DELL’INFALLIBILITÀ DELLA CHIESA

Da quanto è stato detto circa l’estensione e le condizioni dell’infallibilità del Popolo di Dio e del Magistero ecclesiastico, consegue che in nessun modo è consentito ai fedeli di riconoscere nella Chiesa soltanto una « fondamentale » permanenza nella verità, conciliabile – come vorrebbero alcuni – con errori qua e là disseminati nelle sentenze insegnate come definitive dal Magistero della Chiesa, ovvero nel consenso senza incertezze del Popolo di Dio in cose di fede e di costumi.

È vero, sì, che è mediante la fede salvifica che gli uomini si orientano verso Dio, rivelatesi nel Figlio suo, Gesù Cristo. Ma a torto da ciò si dedurrebbe che si possano deprezzare o addirittura negare i dogmi della Chiesa, che esprimono altri misteri. Anzi, il doveroso orientamento verso Dio mediante la fede è proprio un’obbedienza (cf Rm 16,26), tale da importare piena conformità alla natura della Rivelazione divina ed alle sue esigenze. Ora questa Rivelazione, in tutto l’ambito della salvezza, svela il mistero di Dio che ha mandato il suo Figlio nel mondo (cf 1 Gv 4,4) e ne insegna l’applicazione alla condotta cristiana; essa esige, inoltre, che, in piena obbedienza dell’intelletto e della volontà a Dio rivelante, sia accettato il lieto annuncio della salvezza, com’è infallibilmente insegnato dai Pastori della Chiesa. I fedeli, dunque, mediante la fede si orientano verso Dio, rivelatesi in Cristo, come si deve, aderendo a lui nella dottrina integrale della fede cattolica.

Esiste, certo, un ordine e come una gerarchia dei dogmi della Chiesa, dato che diverso è il loro nesso col fondamento della fede. Ma questa gerarchia significa che alcuni dogmi si fondano su altri come principali e ne sono illuminati. Tutti i dogmi, però, perché rivelati, devono essere ugualmente creduti per fede divina.

5. NON SI DEVE FALSIFICARE IL CONCETTO DI INFALLIBILITÀ DELLA CHIESA

La trasmissione della divina Rivelazione da parte della Chiesa incontra difficoltà di vario genere. Esse derivano, primariamente, dal fatto che gli arcani misteri di Dio « per loro natura trascendono tanto l’intelletto umano che, quantunque comunicati dalla rivelazione ed accettati per fede, restano tuttavia velati dalla fede stessa e come avvolti d’oscurità »; e derivano, poi, dal condizionamento storico che incide sull’espressione della Rivelazione.

In merito a tale condizionamento storico, si deve anzitutto osservare che il senso contenuto nelle enunciazioni di fede dipende, in parte, dalla peculiarità espressiva di una lingua usata in una data epoca ed in determinate circostanze. Inoltre, avviene talora che qualche verità dogmatica in un primo tempo sia espressa in modo incompleto, anche se falso mai, e che in seguito, considerata in un più ampio contesto di fede o anche di conoscenze umane, riceva più completa e perfetta espressione. La Chiesa, ancora, quando fa enunciazioni nuove, intende confermare o chiarire quel che, in qualche modo, è già contenuto nella Scrittura o in antecedenti espressioni della Tradizione, ma abitualmente si preoccupa anche di dirimere certe controversie o di sradicare errori; e di tutto questo si deve tener conto, perché quelle enunciazioni siano rettamente interpretate. Da aggiungere, infine, che, sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni.

Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall’inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano per sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente. Ma questo non vuol dire che ciascuna di esse lo sia stata o lo resterà in pari misura. Per tale motivo, i teologi si sforzano di delimitare con esattezza qual è l’intenzionalità d’insegnamento che è propria di quelle diverse formule, e con questo loro lavoro offrono una qualificata collaborazione al Magistero vivo della Chiesa, al quale rimangono subordinati. Per lo stesso motivo può, inoltre, accadere che antiche formule dogmatiche o altre ad esse connesse rimangano vive e feconde nell’uso abituale della Chiesa, ma con opportune aggiunte espositive ed esplicative, che ne mantengano e chiariscano il senso congenito. D’altra parte, è anche avvenuto che, nel medesimo uso abituale della Chiesa, ad alcune di quelle formule sono subentrate espressioni nuove che, proposte o approvate dal sacro Magistero, ne indicano l’identico significato in modo più chiaro e completo.

Quanto poi al significato stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre vero e coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio compreso. Devono, quindi, i fedeli rifuggire dall’opinione la quale ritiene che le formule dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti, che sono, in certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima; e che le stesse formule, inoltre, manifestano soltanto in modo indefinito la verità, la quale dev’esser continuamente cercata attraverso quelle approssimazioni. Chi la pensasse così, non sfuggirebbe al relativismo dogmatico e falsificherebbe il concetto di infallibilità della Chiesa, relativo alla verità da insegnare e ritenere in modo determinato.

Un’opinione del genere è in aperto contrasto con le dichiarazioni del Concilio Vaticano I, il quale, pur consapevole del progresso della Chiesa nella conoscenza della verità rivelata, ha tuttavia insegnato: « Ai sacri (…) dogmi dev’esser sempre mantenuto il senso dichiarato una volta per tutte dalla santa madre Chiesa, e mai è permesso allontanarsi da quel senso col pretesto ed in nome di un’intelligenza più progredita ». Esso ha, inoltre, condannato la sentenza secondo la quale potrebbe accadere « che ai dogmi proposti dalla Chiesa si debba talvolta dare, in base al progresso della scienza, un senso diverso da quello che la Chiesa ha inteso ed intende ». Non c’è dubbio, secondo tali testi del Concilio, che il senso dei dogmi dichiarato dalla Chiesa sia ben determinato ed irreformabile.

Detta opinione è pure in disaccordo con quanto disse sulla dottrina cristiana il Sommo Pontefice Giovanni XXIII, durante l’inaugurazione del Concilio Vaticano II: « Bisogna che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l’epoca nostra richiede. Una cosa è, infatti, il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo della loro enunciazione, sempre però nel medesimo senso e significato ». Poiché il Successore di Pietro parla qui di dottrina cristiana certa ed immutabile, di deposito della fede da identificare con le verità contenute in tale dottrina, e di verità che devono esser conservate nel medesimo senso, è chiaro che egli ammette che il senso dei dogmi può esser da noi conosciuto, e che questo è esatto ed immutabile. E la novità da lui raccomandata, in considerazione delle esigenze dei nostri tempi, riguarda soltanto i modi di ricerca, di esposizione e di enunciazione della stessa dottrina nel suo senso permanente. In modo analogo, il Sommo Pontefice Paolo VI, nell’esortazione ai Pastori della Chiesa, ha dichiarato: « Da noi si richiede oggi un serio sforzo, perché la dottrina della fede conservi la pienezza del suo contenuto e del suo significato, pur esprimendola in maniera che le consenta di raggiungere la mente e il cuore degli uomini, ai quali è diretta ».

6. LA CHIESA ASSOCIATA AL SACERDOZIO DI CRISTO

Cristo Signore, Pontefice della nuova ed eterna alleanza, ha voluto associare e conformare al suo sacerdozio perfetto il popolo acquistato col proprio sangue (cf Eb 7,20-22 e 26-28; 10,14 e 21). Egli, perciò, ha partecipato, come dono, alla Chiesa il suo sacerdozio, e ciò mediante il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale o gerarchico, i quali, sebbene differenti per essenza e non solo per grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro nella comunione ecclesiale.

Il sacerdozio comune dei fedeli, chiamato giustamente anche sacerdozio regale (cf 1 Pt 2,9; Ap 1,6; 5,9s.), poiché effettua il congiungimento dei fedeli, in quanto membri del popolo messianico, col loro Re celeste, è conferito nel Sacramento del battesimo. In forza di questo Sacramento, a causa del segno inammissibile chiamato carattere, i fedeli « incorporati nella Chiesa, sono abilitati al culto della religione cristiana », ed insieme « essendo rigenerati in figli di Dio, son tenuti a professare pubblicamente la fede, da lui ricevuta attraverso la Chiesa ». Tutti quelli, dunque, che son rigenerati nel battesimo, « in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano tale sacerdozio col ricevere i Sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa ».

Oltre a ciò, Cristo, Capo del suo corpo mistico che è la Chiesa, perché rappresentassero lui in persona nella Chiesa, costituì come ministri del suo sacerdozio gli Apostoli e, per loro tramite, i Vescovi loro successori; e questi, a loro volta, comunicarono legittimamente il sacro ministero ricevuto, sebbene in grado subordinato, anche ai Presbiteri. Si instaurò così nella Chiesa la successione apostolica del sacerdozio ministeriale, a gloria di Dio ed a servizio del suo Popolo e di tutta la famiglia umana, che a Dio dev’esser diretta.

In forza di questo sacerdozio, i Vescovi e i Presbiteri « sono in certo modo segregati in seno al Popolo di Dio, non però per esser separati da esso o da qualsiasi uomo, ma perché siano consacrati totalmente all’opera, per la quale il Signore li assume », cioè alla funzione di santificare, di insegnare e di governare, il cui esercizio è precisato in concreto dalla comunione gerarchica. Questa opera multiforme ha come principio e fondamento l’ininterrotta predicazione del Vangelo, mentre come culmine e sorgente di tutta la vita cristiana ha il Sacrificio eucaristico, che i sacerdoti, come rappresentanti di Cristo Capo in persona, in nome suo ed in nome delle membra del suo corpo mistico, offrono nello Spirito Santo a Dio Padre; e che è poi integrato nella sacra Cena, nella quale i fedeli, partecipando all’unico corpo di Cristo, tutti diventano un corpo solo (cf 1 Cor 10,16s.).

La Chiesa ha cercato di indagare sempre più e meglio sulla natura del sacerdozio ministeriale, che fin dall’età apostolica risulta costantemente conferito mediante un rito sacro (cf 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6). Con l’assistenza della Spirito Santo, essa è così gradatamente arrivata alla chiara persuasione che Dio ha voluto manifestarle che questo rito conferisce ai sacerdoti non soltanto un aumento di grazia per compiere santamente le funzioni ecclesiali, ma imprime anche un sigillo permanente di Cristo, cioè il carattere, in forza del quale, dotati di appropriata potestà derivata dalla suprema potestà di cristo, sono abilitati a compiere quelle funzioni. La permanenza poi di questo carattere, la cui natura è peraltro diversamente spiegata dai teologi, è stata insegnata dal Concilio di Firenze e confermata in due decreti del Concilio di Trento. Recentemente essa è stata, altresì, più volte ricordata dal Concilio Vaticano II, e la seconda Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi giustamente ha rilevato che la permanenza per tutta la vita del carattere sacerdotale appartiene alla dottrina della fede. Questa stabile permanenza del carattere sacerdotale dev’essere ammessa dai fedeli, e di essa si deve tener conto per dare un retto giudizio sulla natura del ministero sacerdotale e sulle corrispondenti modalità del suo esercizio.

Quanto, poi, alla potestà che è propria del sacerdozio ministeriale, il Concilio Vaticano II, in accordo con la sacra Tradizione e con numerosi documenti del Magistero, ha insegnato: « Se chiunque può battezzare i credenti, è tuttavia potestà esclusiva dei sacerdoti completare l’edificazione del Corpo col Sacrificio eucaristico »; e ancora: « Il Signore stesso, affinché i fedeli fossero uniti in un unico corpo, nel quale però “le membra non hanno la medesima funzione” (Rm 12,4), costituì alcuni di loro come ministri, perché avessero, in seno alla società dei fedeli, la sacra potestà dell’Ordine per offrire il Sacrificio e rimettere i peccati ». Parimenti, la seconda Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi ha a buon diritto affermato che solo il sacerdote, quale rappresentante di Cristo in persona, può presiedere e compiere il convito sacrificale, nel quale il Popolo di Dio è associato all’oblazione di Cristo. Senza voler ora toccare le questioni sui ministri dei singoli Sacramenti, stando alla testimonianza della sacra Tradizione e del sacro Magistero, è evidente che i fedeli i quali, senza aver ricevuto l’ordinazione sacerdotale, di proprio arbitrio si arrogassero la funzione di fare l’Eucaristia, agirebbero, oltre che in modo gravemente illecito, in modo anche invalido. Ed è evidente che abusi del genere, qualora si siano introdotti, devono essere stroncati dai Pastori della Chiesa.

* * *

La presente Dichiarazione non ha inteso – né era questo il suo scopo – dimostrare, con apposito studio circa i fondamenti della nostra fede, che la Rivelazione divina è stata affidata alla Chiesa, perché da essa fosse in futuro mantenuta inalterata nel mondo. Ma, insieme con altre verità attinenti al mistero della Chiesa, è stato richiamato anche questo dogma che è all’origine stessa della fede cattolica, affinché, nell’attuale turbamento delle menti, appaia chiaramente quale sia la fede e la dottrina che i fedeli devono fermamente tenere.

La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede è ben lieta che i teologi si applichino con grande impegno all’approfondimento del mistero della Chiesa. Essa riconosce pure che il loro lavoro, non di rado, tocca questioni che solo da ricerche complementari e da vari tentativi e congetture possono esser chiarite. Tuttavia, la giusta libertà dei teologi deve sempre mantenersi limitata dalla parola di Dio, così com’è stata fedelmente conservata ed esposta nella Chiesa, e com’è insegnata e spiegata dal vivo Magistero dei Pastori e, in primo luogo, dal Pastore di tutto il Popolo di Dio.

La stessa Sacra Congregazione affida la presente Dichiarazione alla sollecitudine attenta dei Vescovi e di tutti quelli che, a qualunque titolo, condividono la responsabilità di salvaguardare il patrimonio di verità, che da Cristo e dagli Apostoli è stato consegnato alla Chiesa. E con fiducia la indirizza anche ai fedeli e, in particolare, a causa dell’importanza del loro incarico nella Chiesa, ai sacerdoti e ai teologi, perché tutti siano concordi nella fede e in sincera consonanza con la Chiesa.

Il Sommo Pontefice per divina Provvidenza Papa Paolo VI, nell’Udienza concessa al sottoscritto Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il giorno 11 del mese di maggio 1973, ha ratificato e confermato questa Dichiarazione circa la dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori d’oggi, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Dato a Roma, dalla sede della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il 24 giugno 1973, nella solennità di San Giovanni Battista.

FRANCESCO Card. ŠEPER
Prefetto

GIROLAMO HAMER O. P.
Segretario

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