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Il latino non c'entra, celebrare la Messa secondo
il rito di S. Pio V non è una questione linguistica

Francesco Agnoli

Ci sono sacerdoti, vescovi e fedeli, per i quali la chiesa cattolica è un giovane virgulto di una quarantina d’anni. Daterebbe, la sua nascita, all’incirca 1960 anni dopo Cristo, e coinciderebbe con il Concilio Vaticano II e poi, ancor più, con la riforma liturgica del 1970. Un po’ come i testimoni di Geova, o i mormoni, il cui fondatore vantava di aver ritrovato in una vecchia cassa il vero Vangelo smarrito per secoli, anche certi cattolici ritengono che il verbo di Cristo abbia risuonato inutilmente, incompreso, per interminabili anni, sino a una leggendaria “primavera conciliare”.

Costoro, quando si parla della liturgia di sempre, descrivono, con un velato “razzismo”, scenari lugubri, tenebre di ignoranza, miserie intellettuali indicibili: prima della liturgia in volgare, le “donnine biascicavano preghiere che non comprendevano”, gli uomini uscivano dalla chiesa durante la predica, i preti tuonavano e imprecavano dai pulpiti… roba, insomma, da preistoria, da gente delle caverne, da fede infantile e superstiziosa, sorta per sbaglio insieme a cattedrali e opere d’arte meravigliose.
 
Potrei crederci, se non avessi mai assistito a una Messa antica e non avessi mai sentito cantare il “Pange lingua”, lo “Jesus dulcis memoria”, o la “Missa de angelis”; oppure se non dovessi sorbirmi, talora, i tamburi, le schitarrate, le prediche insulse, e il disprezzo, involontario, dell’Eucarestia, protagonisti di tante messe odierne in cui si è smarrito il senso del sacro e del mistero.

Certo, vi saranno stati anche dei piccoli ritocchi, giustamente auspicabili anche per il vecchio rito, per adeguare ai tempi, non la sostanza, ma il linguaggio, e del resto anche i padri conciliari più tradizionalisti non lo negarono affatto. Ma nella sua essenza la Messa di un tempo continua oggi ad affascinare uomini e donne che desiderano ancora credere nella continuità della storia della Chiesa, che si sentono in comunione con duemila anni di storia, perlomeno per il debito di gratitudine che occorre avere verso chi la fede ce la ha tramandata.
“Vi ho tramandato, affermava san Paolo, ciò che anch’io ho ricevuto”.
Per questo vi sono fedeli in tutta Italia che richiedono sempre di più di poter conoscere il vecchio rito, benché tra i “sapienti” del tempio vi sia talora indignazione e perfino disprezzo. Lo capisco leggendo un piccolo librino appena scritto da Manlio Sodi, noto direttore nientemeno che della Rivista Liturgica, intitolato: “Il messale di san Pio V. Perché la Messa in latino nel III millennio”.

Si tratta di una critica al motu proprio, fatta con apparente garbo, ma dimostrando in realtà immenso fastidio per chi non capisce, e cioè, tra gli altri, per lo stesso Benedetto XVI.
Sodi inizia la sua denigrazione mettendo subito in confusione il povero lettore.
Parlando del messale di Pio V dice a pag. 3 che è stato “abrogato” e poi “abolito”, mentre a pagina 5 scrive: “ma la Messa in latino è sempre stato possibile celebrarla!
Dunque il problema è altrove”. Poi a pagina 26 afferma: “Anche il messale del Vaticano II (sic) è pubblicato in latino… un ulteriore segno che mai è stata abolita la Messa in latino”. Si mena il can per l’aia, dicendo e contraddicendo, e infine riducendo il problema liturgico a una questione essenzialmente linguistica.

Una lezione di storia in abiti eccentrici

I concetti ribaditi di continuo da Sodi sono i soliti: il nuovo messale è più ricco, ha più letture, ha tante preghiere eucaristiche, mentre il messale di Pio V è povero, quasi rudimentale… Sempre, il discorso cade sulle letture, sull’ascolto della parola: la centralità dell’Eucarestia, l’incontro con Cristo fattosi carne, è assolutamente secondario, assente. La Messa, per Sodi, è “un’esperienza viva di comunità celebrante”, mentre il vecchio rito “non ha contribuito a sottolineare che Cristo è presente nella sua Parola quando questa si proclama nell’assemblea”. Si tratta a ben vedere, di una definizione della Messa non cattolica, assai simile, se non identica, a quella protestante, che propone l’idea del sacerdozio universale e riduce la Messa a un puro memoriale, in cui l’incontro con Cristo non è reale, fisico, in “corpo, sangue, anima e divinità”, ma passa dall’ascolto della sua parola e dalla presenza di persone disposte, bontà loro, a ricordarlo e a rileggerne gli insegnamenti che furono. La Messa come una lezione di storia, insomma, con abiti un po’ eccentrici. In quest’ottica Cristo sarebbe l’Emmanuele, il “Dio con noi”, principalmente, se non esclusivamente, con la sua Parola, alla condizione, per di più, che questa si proclami alla presenza dei fedeli, e, come scrive a pagina 30, dei “loro educatori, i presidenti dell’assemblea”.

Non servono discorsi per commentare una visione così razionalista, estranea alla retta dottrina sulla Messa: basti pensare alla figura di padre Pio, che rappresenta nella storia del cristianesimo uno dei santi che più ha saputo incarnare l’idea di sacerdote come ponte tra Dio e gli uomini.

Padre Pio non si è mai considerato un “presidente di assemblea”, un semplice “educatore”, non solo perché celebrò innumerevoli volte da solo, senza fedeli, ma soprattutto perché viveva nella sua carne l’incontro con Gesù crocifisso, viveva, cioè, ogni momento, la sua Messa. Le folle non accorrevano a lui per come leggeva le Sacre Scritture: rimanevano affascinati dal modo in cui pronunciava le parole della consacrazione, da come si inginocchiava davanti al corpo di Cristo, dalla tenerezza con cui lo teneva tra le mani, dalle gocce di sangue che sgorgavano dalle sue palme, dalla consapevolezza che aveva di essere, nonostante tutta l’umana abiezione, un altro Cristo.


© Copyright Il Foglio, 15 novembre 2007

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