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[Estratto Da Piero Cantoni, «Novus Ordo Missae e Fede cattolica»]

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Va innanzitutto notato come la controversia eucaristica sia uno dei punti più importanti nel più vasto contesto della controversia protestantica. È noto il detto di Lutero: «triumphata vero Missa puto nos totum Papam triumphare». Questo ci conferma nella convinzione che, con l'eucaristia e la Messa, ci troviamo al centro della fede e della vita della Chiesa.

Il Protestantesimo si presenta esteriormente come una reazione contro degli abusi, come un movimento di «Riforma» che intende purificare e rinnovare la Chiesa riportandola all'autenticità originaria.

Non è difficile però constatare come, dietro la polemica contro l'abuso, si celi la negazione di qualcosa di sostanziale della dottrina cattolica, qualcosa che la Chiesa ha sempre creduto e praticato e considerato come irrinunciabile.

Riguardo al nostro tema specifico questi punti sostanziali sono fondamentalmente tre :

  1. il carattere sacrificale della Messa,
  2. la presenza reale sostanziale di Cristo nell'Eucaristia,
  3. il sacerdozio ministeriale essenzialmente distinto da quello dei semplici fedeli.

Attorno a questi tre punti ruota tutta la polemica.

Da parte cattolica si reagì sottolineando fortemente la stretta connessione fra vero sacrificio sacramentale e sacerdozio sacramentale, senza però negare che si dava anche un sacerdozio spirituale e interiore (quello di 1 Pt 2, 9). Se il Concilio di Trento ne parla solo implicitamente, il Catechismo Tridentino conta l'argomento in esplicito.

Tutti i fedeli sono sacerdoti nel senso che sono chiamati ad offrire se stessi, tutta la loro vita, prestando in questo modo a Dio un «culto spirituale» (Rm 12, 1). Tutti i fedeli sono, in altri termini, chiamati a riprodurre in sé il sacrificio perfetto di Cristo che fu insieme sacerdote e vittima. Questo sacrificio spirituale è insieme il modo più proprio di partecipare al sacrificio della Messa e l'effetto di questo sacrificio. Il sacrificio sacramentale infatti è ordinato a portare a compimento, unendoli a quello di Cristo, i sacrifici dei cristiani. Nello stesso tempo rende possibili questi sacrifici con la sua virtù salvifica.

Tuttavia, poiché Cristo ha lasciato alla Chiesa il sacramento del suo sacrificio da perpetuare fino alla sua definitiva venuta, deve esserci anche un sacerdozio a ciò deputato: un sacerdozio pubblico che, per la Chiesa e a nome della Chiesa, compia il segno sacramentale che riattualizza e applica il sacrificio di Cristo. Dire che esiste un sacerdozio esterno e visibile (oggi si preferisce chiamarlo «ministeriale») e un sacerdozio interno e spirituale («universale» o «comune») non significa affermare che quest'ultimo non abbia nessun ruolo esterno anche liturgico da compiere o che questo ruolo sia soltanto passivo. Affermare che solo il sacerdote-ministro compie il gesto sacramentale che riattualizza il sacrificio, non significa escludere il sacerdote-fedele da ogni attiva partecipazione. È comprensibile che questo punto di dottrina, proprio come reazione alle negazioni protestantiche, abbia subito una certa eclissi. Tuttavia è sempre stato almeno implicito nella dottrina e nella prassi della Chiesa.

San Tommaso aveva già ben chiaro che il carattere, in generale (e quindi anche quello battesimale), importat quamdam potentiam spiritualem ordinatam ad ea quae sunt divini cultus (III, q. 63, a. 2, c). Se questa potenza è principalmente «recettiva» (il potere di ricevere i sacramenti), è secondariamente anche attiva: statim baptizati idonei sunt ad spirituales actiones (Contra Gentes, 1. IV, c. 59). Questa partecipazione attiva si esprime liturgicamente nel consenso manifestato all'azione del sacerdote (implicito nella presenza devota, esplicito nel dialogo). Si esprime compiutamente nella comunione sacramentale e può esprimersi anche nell'offerta dei doni, simbolo dell'offerta dei propri sacrifici spirituali.

Il punto discriminante col protestantesimo non consiste dunque nell'attribuzione o meno ai fedeli di una certa funzione sacerdotale e quindi nel riconoscimento di una parte attiva nella celebrazione eucaristica, quanto nel fatto che i cattolici ammettono due modi, essenzialmente distinti41, di partecipare all'unico sacerdozio di Cristo, mentre i protestanti ne riconoscono uno solo. È ovvio che il riconoscimento di due partecipazioni essenzialmente diverse comporta due relazioni essenzialmente diverse rispetto all'eucaristia (agere sequitur esse). Solo il sacerdote-ministro agisce in persona Christi e compie immediatamente il gesto sacrificale. Il sacerdote-fedele partecipa a questo sacrificio della Chiesa come membro del Corpo mistico di risto, agendo il ministro nella persona di Cristo Capo, immola il sacrificio solo mediante il sacerdote e offre i suoi sacrifici personali, unendoli al sacrificio di Cristo, insieme con lui.

Questa partecipazione si differenzia essenzialmente da quella del ministro perché non è tale da porre in essere il sacrificio sacramentale, quindi non è strettamente richiesta perché esso ci sia (di qui la validità e la legittimità delle Messe celebrate dal solo sacerdote-ministro).

Tuttavia il sacrificio compiuto dal solo presbitero non diventa per questo affare privato, perché egli non cessa di prestare la sua persona come strumento della virtù divina di Cristo in quanto ministro della Chiesa e non cessa di rappresentare tutta la Chiesa essendo anche – anzi, in certo senso, soprattutto – sacerdote-fedele.

La negazione di questa partecipazione differenziata che costituisce l'ossatura della gerarchia della Chiesa, che va, logicamente, di pari passo con la negazione della sua visibilità, costituisce lo specificum protestantico in tema di ministero.

Col Concilio di Trento la Chiesa si leva per difendere il deposito della fede. Le proteste dei «riformatori», se si agganciano a veri o pretesi abusi, coinvolgono però verità che i cristiani hanno sempre creduto con fede fermissima. Non su tutti questi punti esiste, è vero, una teologia perfettamente elaborata.

Esistono, anzi, opinioni molto varie fra i teologi cattolici. In tutti però vi è la convinzione che, quale che sia la spiegazione (il «come») che di certe verità si può dare, il «fatto» che queste verità enunciano è fuori discussione.

In questo caso il Magistero non interviene per dirimere controversie di scuola, ma per difendere la fede, per chiarire quali sono i limiti che non si possono superare senza «far naufragio nella fede» (1Tim 1, 19) e compromettere così, oggettivamente, la propria salvezza.

L'autorità si premura anche di difendere certe pratiche ecclesiastiche che, anche se non costituiscono, di per sé, oggetto di fede, sono tuttavia strettamente collegate a dogmi e sono come barriere per la sua difesa.

In particolare il Concilio si preoccupa di difendere la Chiesa dall'accusa di aver favorito, con la sua disciplina, pratiche superstiziose, idolatriche e contrarie al Vangelo. Anche in questo caso è, indirettamente, in gioco un dogma, quello della santità della Chiesa. Quindi ci si preoccupa, mediante canoni disciplinari, di attuare la vera Riforma della Chiesa.

Una Riforma che sopprima gli abusi senza sconvolgere gli usi legittimi e, soprattutto, senza coinvolgere in alcun modo la sostanza intangibile della fede. Che risponda insomma, autenticamente, al principio dell'Ecclesia semper reformanda. D'altra parte sappiamo – e questo rende problematica la terminologia recepta di «Riforma-Controriforma» – che la vera Riforma cattolica non aveva aspettato la ribellione di Lutero, ma aveva avuto inizio ben prima e con ben altri orientamenti. Segno che la Sposa di Cristo ha sempre in se stessa le risorse per superare le sue crisi, senza che nessuno possa mai sentirsi autorizzato a dettarle dall'esterno quello che deve fare.

Noi qui ci occuperemo degli aspetti disciplinari, sia per quanto riguarda la difesa della disciplina vigente, sia per quanto riguarda la disciplina da introdursi; ci occuperemo innanzitutto di ciò che è strettamente dogmatico.

È facile comprendere che lo scopo del Concilio Tridentino, in campo dogmatico, non è quello di fare una esposizione completa della dottrina sull'Eucaristia e sulla Messa, ma soltanto quello di distinguere con chiarezza ciò che il cattolico deve credere in contrapposizione agli errori e alle deformazioni dei protestanti. Per questo si guarda bene dall'esplicitare oltre quello che è necessario per difendere punti di dottrina ben precisi, dall'entrare nelle questioni ancora disputate fra teologi cattolici, dal toccare tutta quanta la materia. Trattandosi di attacchi a punti essenziali, ne risulta una risposta che esplicita quanto vi è di essenziale, ma che non esclude integrazioni.

  1. Innanzitutto il Concilio chiarisce che la Messa è un vero e proprio sacrificio.

    Nostro Signore Gesù Cristo «nell'ultima Cena (...) per lasciare alla Chiesa, sua diletta sposa, un sacrificio visibile (come esige la natura umana), col quale fosse rappresentato [repraesentaretur] quel sacrificio cruento da compiersi una volta sulla croce, e la sua memoria perdurasse fino alla fine del tempo, e inoltre la sua salutare virtù si applicasse in remissione di quei peccati che si commettono da noi ogni giorno (...), offrì il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del

    vino a Dio Padre e sotto le medesime specie lo diede, perché ne mangiassero, agli Apostoli (che allora costituiva sacerdoti del Nuovo Testamento) e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio, che l'offrissero, con queste parole "Fate questo in memoria di me"».

    Il Concilio, nell'esporre la dottrina, ha presente sullo sfondo la fondamentale obiezione protestantica che fa leva sulla unicità e irripetibilità del sacrificio del Calvario. A Trento si risponde che il sacrificio della Messa non deroga a quello del Calvario perché non è un altro sacrificio ma ne è la rappresentazione e l'applicazione. Croce e Messa sono unum et idem infatti: «Una sola e medesima è l'offerta, lo stesso è anche ora l'offerente per il ministero dei sacerdoti, il quale un giorno offrì se stesso sulla croce, soltanto diverso è il modo di offrire».

    Quindi, nei canoni, si afferma perentoriamente che la Messa è «vero e proprio sacrificio» (can. 1). Possiamo dire che questa è l'affermazione centrale. Per valutarla nella sua reale portata, dobbiamo ricordare, lo abbiamo già accennato, che i protestanti parlano anch'essi di «sacrificio». Il termine è però assunto in sensi impropri. Sacrificio perché nell'Eucaristia il pane e il vino sono offerti in cibo ai fedeli, perché offriamo al Padre le nostre preghiere in cui gli ricordiamo il sacrificio del Figlio ... Non sacrificio «vero e proprio», cioè avente in se stesso una efficacia propiziatoria (per la remissione dei peccati). La stessa efficacia del Sacrificio del Calvario. Nel cap. 2 della XXII sessione, che espone il fine propiziatorio della Messa, il Concilio argomenta a partire dall'identità fra il sacrificio della Croce e il sacrificio della Messa.

    Questo ultimo è propiziatorio perché, essendo sacramentalmente lo stesso del Calvario, ne ha la stessa efficacia. Un pasto, per quanto sacro, o una semplice preghiera che ricorda quel sacrificio avvenuto una volta per tutte, non ha nessuna efficacia propiziatoria propria.

    Il Concilio, contro queste riduzioni, dà un significato preciso all'espressione «sacrificio vero e proprio»:

    1. Esso non consiste soltanto nel «darsi di Cristo a noi in cibo» (can. 1).
    2. Non è «soltanto (un sacrificio) di lode e di ringraziamento» (can. 3). Non soltanto una preghiera («sacrificio delle labbra»).
    3. Non è «una memoria vuota (nudam commemorationem) del sacrificio compiuto sulla croce» (ibidem).
    4. È «propiziatorio» (ibidem). Contiene cioè la stessa virtus del Calvario.

    Il Concilio difende anche la liceità della Messa in cui «solo il sacerdote partecipa sacramentalmente» (can. 8). Abbiamo visto come, per Lutero, sono messe «private» non soltanto quelle in cui celebra il solo sacerdote, ma anche quelle in cui solo il sacerdote fa la comunione sacramentale. E questo perché la Messa si riduce per lui sostanzialmente alla comunione. Queste Messe invece non sono da condannarsi come «private», perché in realtà, essendo sempre offerte da un ministro pubblico per tutti i fedeli, sono sempre «Messe veramente comunitarie (Missae vere communes)» (cap. 6).

    Prima di affrontare il secondo punto dottrinale, soffermiamoci un momento sugli interrogativi che solleva la dottrina prospettata dal Concilio. Come è possibile che la Messa «sacrificio vero e proprio» non deroghi al Calvario, posto che sono indubbiamente, almeno dal punto di vista storico-fenomenico, due realtà diverse? La risposta più tecnica il Concilio la lascia ai teologi. Suo compito è quello di difendere la fede, mostrando dove si situano le verità da credere. Ogni spiegazione teologica, per non svuotare il mistero, deve tenere i due anelli della catena: la Messa è vero e proprio sacrificio, tuttavia non «un altro» sacrificio rispetto a quello del Calvario.

    Per non avventurarsi in un campo che era ancora assai disputato anche fra i teologi cattolici, il Concilio ripropone la terminologia tradizionale: la Messa non deroga al Calvario perché è repraesentatio di quest'ultimo. Solo che questa repraesentatio(1) non equivale a una nuda commemoratio. Nel linguaggio tradizionale troviamo i termini: figura, sacramento, memoria o memoriale, rappresentazione o ripresentazione (è l'ambiguità non casuale del termine repraesentatio, rinnovamento, applicazione. Tutti questi termini sono legittimi e convengono in uno stesso, fondamentale (anche se sempre misterioso) significato. Non è del tutto corretto invece parlare di «ripetizione», perché il sacrificio della Croce è avvenuto una volta per tutte e non può più essere ripetuto.

    Il Concilio dunque non condanna l'espressione commemoratio applicata alla Messa. La condanna porta non sul termine in se stesso, ma sull'aggettivo nuda. Il Concilio intende cioè condannare la concezione soggettiva di memoriale dei protestanti, non la nozione in se stessa che è assolutamente tradizionale. È comprensibile tuttavia che, in seguito, i teologi abbiano abbandonato (meglio: relegato in un canto) questo termine, a causa dell'ambiguità di cui l'interpretazione protestantica lo aveva rivestito.

    L'insistenza del Concilio sulla natura veramente sacrificale dell'eucaristia non deve neppure far dimenticare la ricchezza del mistero che non si esaurisce qui. Questa sottolineatura non intende escludere altri aspetti. Per esempio, accanto alla verità che la Messa è sacrificio vero e proprio, resta vero che essa è anche convito, comunione, «sinassi» (cfr. III q. 73, a. 4), ecc.(2).
     

  2. In una sessione distinta (la XIII), il Concilio afferma che nel sacramento dell'Eucaristia Cristo è presente «veramente, realmente e sostanzialmente». Il modo con cui si opera questa presenza è una «mirabile conversione» che si dice appropriatamente «transustanziazione».

    «Mediante la consacrazione del pane e del vino si ha una trasformazione (conversione) di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui. E questa trasformazione convenientemente e propriamente è stata chiamata dalla santa Chiesa cattolica transustanziazione».

    «Se alcuno dicesse che nel SS. Sacramento dell'Eucaristia rimanesse la sostanza del pane e del vino insieme con il corpo e il sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, e negasse quella mirabile e singolare trasformazione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue, rimanendo soltanto le specie del pane e del vino, la quale trasformazione viene chiamata molto opportunamente transustanziazione dalla Chiesa cattolica: sia scomunicato».

    Le verità affermate sono dunque fondamentalmente tre:

    1. Il corpo e il sangue di Gesù Cristo sono presenti sotto le specie (apparenze) del pane e del vino.
    2. Sotto le specie sacramentali non vi è più la sostanza del pane e del vino.
    3. La presenza del corpo e del sangue di Cristo e l'assenza del pane e del vino si spiegano con la conversione totale della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù. Questa conversione totale si chiama transustanziazione.

    Questa dottrina ha come conseguenza due importanti pratiche rituali, nelle quali si trova come verificata in concreto:

    • quella della conservazione dell'Eucaristia (cann. 4 e 7)
    • e quella della sua adorazione (can. 6).
       
  3. Per poter pronunciare efficacemente le parole della consacrazione, dando luogo alla presenza reale di Cristo e realizzando il sacrificio, occorre essere investiti di un potere dall'alto che abilita ad agire in persona Christi. Potere con origine sacramentale, radicato in un carattere indelebile.

    Il Concilio ha già fatto una importante affermazione sul sacramento dell'ordine nella XXII sessione, quando ha detto che Cristo ha costituito sacerdoti del Nuovo Testamento gli Apostoli nell'ultima Cena, comandando loro di offrire il suo corpo e il suo sangue: «Se alcuno dicesse, che con quelle parole "Fate questo in memoria di me" (...) Cristo non abbia costituito gli Apostoli sacerdoti oppure non abbia ordinato che essi stessi e gli altri sacerdoti offrissero il suo corpo e il suo sangue: sia scomunicato» (can. 2).

    Nella XXIII sessione però viene affrontato ex professo l'argomento.

    Argomento importante e complesso: accanto a quello sulla giustificazione questo decreto è quello che ha richiesto la più difficile fase di preparazione. Lo stretto legame col tema del sacrificio è rilevato in partenza e costituisce come la base di tutta l'esposizione: «Il sacrificio e il sacerdozio sono talmente uniti nei disegni di Dio, che si ebbero entrambi sotto ogni legge. Avendo la Chiesa cattolica ricevuto nel Nuovo Testamento, per istituzione del Signore, il santo sacrificio visibile dell'Eucaristia, occorre anche affermare, che in essa vi è un nuovo sacerdozio visibile ed esterno (...) nel quale l'antico sacerdozio è stato trasferito (...). La S. Scrittura lo mostra, e la tradizione della Chiesa cattolica ha sempre insegnato, che questo sacerdozio fu istituito dallo stesso Signore, nostro Salvatore, e fu dato il potere agli Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio di consacrare, di offrire e di distribuire il suo corpo e il suo sangue nonché di rimettere e di ritenere i peccati».

    All'origine del ministero sacerdotale vi è un vero e proprio sacramento (cap. III e can. 3) che imprime un carattere indelebile (cap. IV e can. 4). Non tutti i cristiani sono «indifferentemente sacerdoti del Nuovo Testamento»; non «tutti godono di eguale potere spirituale». Chi affermasse il contrario proporrebbe un'immagine inorganica della Chiesa: «come se, contro l'insegnamento di S. Paolo, tutti fossero Apostoli, Profeti, Evangelisti, Pastori e Dottori (cfr. 1 Cor 12, 29; Ef 4, 11)».



(1) Il termine repraesentare è portatore di una certa ambiguità, non solo perché oscilla fra due significati storicamente dati: quello classico di praesens sistere aliquid e quello moderno di rappresentare, raffigurare, simboleggiare (cfr. BRUNERO GHERARDINI, Prefectio omnium prefectionum, IV Sent 8, 1, 1, 1 ad 1. La SS. Eucaristia in un recente volume di Mons. A. Piolanti, in: Divinitas 2 (1984) pp. 157-159), ma anche perché il suo originario senso forte – che è quello caseliano di Vergegenwärtigung, Gegenwärtigsetzung – non perde l'allusione ad un render presente in signo, in imagine.
Il termine stesso cioè si trova ad essere portatore di una intrinseca affinità con la misteriosa dinamica del sacramento che significando causat. Il significato di «rappresentare» sottolinea che la realtà è resa presente nel modo misterioso del segno. Quando si traduce repraesentatio con rappresentazione, occorre allora precisare che è una rappresentazione efficace e di una efficacia non soltanto psicologico-morale.
Il significato di «render presente di nuovo» sottolinea che la realtà stessa irrompe di nuovo nel presente, creandosi fra la rappresentazione e la realtà una sostanziale identità. Per dare ragione però del fatto che questa identità rimane velata nel segno e non deve essere intesa come una iterazione o come un impossibile annullamento delle circostanze di spazio e di tempo, occorre qualificarla come «mistica, misterica, sacramentale».

(2) Tuttavia bisogna sottolineare, contro la tendenza odierna a mettere tutti questi aspetti sullo stesso piano (tendenza a cui il NOM non ci sembra estraneo), come essi si gerarchizzano sotto la nozione di sacrificio. Solo questa nozione dà il reale significato a tutti gli altri aspetti secondari. Necesse est invenire principium in omnibus in quibus est ordo (san Tommaso, In Iohannem, cap. I, lect. I).
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