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FSSPX: Lettera Aperta a Don Nicola Bux

 

Sulla Rivista Ufficiale del Distretto italiano della Fraternità S. Pio X, La Tradizione Cattolica, 2009, 1, p. 7 ss., è pubblicata la lunga "Lettera aperta" a mons. Bux - della quale segue il testo - in pratica un commento al suo libro sulla Riforma liturgica di Papa Benedetto.
Ad un esame superficiale si potrebbe propendere più per la tesi di Mons. Bux, ossia del mutuo arricchimento dei due riti, e per ragioni innanzitutto pratiche più che teoretiche: perché sembra irrealistico pensare che la riforma liturgica postconciliare possa essere cancellata; l’unica possibilità praticabile potrebbe apparire quella di cercare di emendarla con gradualità e pazienza. Quel che sta facendo il Papa, tra molti ostacoli, anche per colmare lo iato generazionale che si è creato.
Apprezziamo molto nella lettera l’analisi chiara e approfondita, e inevitabilmente critica, degli elementi salienti che contraddistinguono il nuovo rito rispetto all’antico. E, oggi, la compresenza del Rito Gregoriano molto conforta la nostra fede. 
 

Rev.do don Nicola Bux,

ci è sembrato doveroso prendere in seria considerazione la sua ultima pubblicazione La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, che appare come la continuazione dell’appello che lanciò sull’Osservatore Romano il 18 novembre dello scorso anno, quando invitò a «confrontarsi senza alcun pregiudizio» sulla liturgia. Da allora i suoi sforzi sono sempre andati nella direzione di offrire un contributo di verità per uscire dalla crisi liturgica (e dottrinale) che sta attraversando la Chiesa cattolica. È un appello che non si può lasciar cadere, perché finalmente, dopo anni di riduzione al silenzio di quanti non fossero d’accordo con la vulgata liturgica, una voce autorevole, a seguito di quella del Sommo Pontefice, esce dagli schemi patrocinati sembra dalla corte celeste: almeno da Sant’Anselmo e Santa Giustina. Lei è un uomo di spirito: siamo certi che saprà sorridere, senza vedere in questa battuta alcuna polemica.

Il primo grande merito del suo libro: aver portato all’attenzione del grande pubblico, rinunciando a stile e dimensioni accademiche, i dissensi intestini alla riforma liturgica, particolarmente accennando all’opposizione del Cardinale Ferdinando Antonelli ai diktat di Bugnini. La liturgia è oggi «un campo di battaglia», per usare una sua espressione, perché tale è stata fin dall’inizio della sua riforma. Il secondo merito e non lo affermiamo per una mera captatio benevolentiae è racchiuso nei capitoli primo (La sacra e divina liturgia), secondo (A chi ci avviciniamo con il culto divino) e sesto (Come incontrare il mistero), che costituiscono una bella e profonda introduzione all’essenza dello spirito liturgico. Sono questi dei capitoli che ogni sacerdote ed ogni fedele dovrebbe leggere e meditare. E non possono che allietare le considerazioni sull’essenziale verticalità della liturgia, da riguadagnare anche a partire dalla vexata quaestio del versus liturgico, quell’orientamento verso oriente tutt’uno con l’orientamento verso la croce, per significare nuovamente la centralità di Nostro Signore Gesù Cristo e del Suo Sacrificio. Ora, lei riconosce, ed il suo libro ne è chiara testimonianza, che il Rito tridentino ha saputo incarnare in modo eccellente l’autentico spirito liturgico; tuttavia una delle sue tesi di fondo è che anche «la riforma liturgica nel suo insieme, comprese le parti già attuate, possono essere riesaminate alla luce del vero spirito della liturgia» (p. 59). Lei auspica dunque un movimento degli estremi verso il centro: «Se quanti amano o scoprono la precedente tradizione liturgica devono anche convincersi del valore e della santità del nuovo rito, tutti gli altri dovrebbero riflettere sul fatto che nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura» (pp. 45-46). È su questo punto che vorremmo soffermarci e confrontarci, partendo dalle sue affermazioni e cercando di seguirne la logica interna, che ci porterà però ad una conclusione diversa dalla sua, riconoscendo nel contempo che la sua conclusione sia naturale per un buon cattolico, al quale ripugna a ragione l’idea di una rottura nello sviluppo della liturgia. Ma sono i fatti, che lei ha mostrato e che noi semplicemente riproporremo e arricchiremo, sono i fatti dunque a mostrare il vero volto del nuovo rito. Ed una precisazione previa è d’obbligo: non prenderemo in esame gli abusi illegali, come le messe rock, o quelle stile pic-nic o altre pagliacciate di questo genere. Non ci soffermeremo troppo nemmeno sugli abusi legalizzati, ossia la Comunione ricevuta in piedi, sulla mano, l’uso esclusivo della lingua volgare, etc. Sappiamo bene che tutto questo non è contemplato nel Novus Ordo, ma è frutto di aggiustamenti successivi e di un dinamismo liturgico che pretende essere sempre vivo e operante. Tuttavia anche questi elementi devono essere considerati come il frutto della riforma liturgica, così come è stata concepita e di fatto realizzata da Bugnini & C. Rimandiamo al seguito della lettera per argomentare quest’ultima affermazione, grave senz’altro, ma non frutto di fantasia né di pregiudizio.

Il principio guida

Nelle nostre considerazioni ci facciamo guidare dalla sua brillante spiegazione del termine riforma: «Si sa che non c’è contenuto senza forma; da quando Dio si è fatto uomo, non c’è verità che non abbia una forma che lo richiami. Ri-forma vuol dire migliorare la forma o cambiarla? Non sembra univoco il senso. Secondo i Padri della Chiesa è da rinnovare sempre. Ma la riforma non può essere intesa nel senso di una ricostruzione secondo i gusti del tempo. La riforma, secondo Michelangelo, è quella dell’artista che libera l’immagine dal materiale da cui è ostruita; l’immagine è già presente nel marmo e non c’è che da eliminare le incrostazioni che si sono depositate nei secoli. Riforma è togliere ciò che offusca affinché divenga visibile la forma nobile, il volto della Chiesa e insieme con essa anche il volto di Gesù Adottato per la liturgia il termine riforma può essere accettabile o meno: accettabile se la forma corrisponde al contenuto, non se la forma indica un altro contenuto» (p. 49). In questo brano c’è tutto: riformare significa fare in modo che la forma esprima il contenuto nel modo migliore possibile, tenendo fermo che tale contenuto non è a disposizione dei gusti del tempo. Il volto della Chiesa e di Gesù Cristo non sono vendibili sul mercato dei gusti e delle sensibilità storiche. Il suo principio guida è perfettamente sulla scia di quello che diede Pio XII nella meravigliosa enciclica Mediator Dei: «La gerarchia ecclesiastica ha sempre usato di questo suo diritto in materia liturgica disponendo ed ordinando il culto divino ed arricchendolo di sempre nuovo splendore e decoro a gloria di Dio e per il vantaggio dei fedeli. Non dubitò inoltre salva la sostanza del sacrificio eucaristico e dei sacramenti di mutare ciò che non riteneva conforme, aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all’onore di Gesù Cristo e della Trinità augusta, e all’istruzione e stimolo salutare del popolo cristiano». Non abbiamo nessuna remora a sottoscrivere questo testo; noi riconosciamo alla gerarchia il diritto di intervenire in materia liturgica e tale riconoscimento è stato da noi mostrato nei fatti. Quella di san Pio V non fu una riforma? Anche gli stessi interventi più recenti in materia liturgica, quali quelli da lei stesso ricordati, fino al messale del 1962, sono stati da noi accolti con filiale obbedienza. Il problema non è dunque nella liceità della riforma liturgica, ma nella riforma specifica che è seguita al Concilio e si è concretizzata nel messale di Paolo VI. Questa riforma non è in linea con il principio guida ammesso sia da noi che da lei e pertanto non può essere paragonata alle altre riforme che l’hanno preceduta. Non possiamo concordare quando, richiamandosi alla lettera del Santo Padre che ha accompagnato il Motu Proprio Summorum Pontificum, lei afferma che il messale del 1962 e quello di Paolo VI sono «due stesure conseguenti, come altre volte è avvenuto nei secoli, allo sviluppo dell’unico rito, infatti chi conosce la storia dei libri liturgici sa che in occasione della loro ristampa sono stati emendati e arricchiti di formulari per messe, benedizioni ecc.» (p. 62). Non possiamo essere d’accordo, perché non possiamo negare la realtà, quella realtà che lei stesso ha richiamato in più punti del suo libro e che ora intendiamo ripercorrere.

«Una riforma decisamente radicale»

Citiamo dal suo libro: «Purtroppo il messale di Paolo VI non contiene tutto quello di Pio V - se si sta alle edizioni nelle lingue nazionali - inoltre lo ha mutato in più punti aggiungendo nuovi testi» (p. 72). E poco oltre: «È vero che il papa Paolo VI intendeva restaurare semplicemente il rito di san Pio V ovvero la liturgia di san Gregorio, ma, purtroppo gli esperti in una prima fase presero il sopravvento fabbricando un’altra cosa. Quando il Papa se ne accorse, abbiamo visto cosa accadde; intanto, come si suol dire, i buoi erano scappati dalla stalla. Proprio questo svarione ha prodotto la frattura perché ha svelato che non tutto era andato per il verso giusto» (pp. 72-73). Ecco, appunto. Quello che Paolo VI corresse è in definitiva il noto paragrafo 7 dell’Institutio generalis del 1969, forse a seguito del Breve esame critico degli eminentissimi cardinali Ottaviani e Bacci o di un intervento presso Paolo VI del Cardinal Journet. Certamente si trattò di una correzione importante; ma a cosa servì cambiare quella definizione di Messa se si lasciò inalterato il nuovo messale che di quella definizione è l’espressione? Il summenzionato Breve esame critico non rivolse la propria denuncia solo verso quel punto dell’Institutio, ma verso il Novus Ordo «sia nel suo insieme come nei particolari», affermando che si trattava di «un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa»(1). I buoi erano ormai scappati, come lei ci ricorda, ed il messale di Paolo VI è il frutto di questa fuga che non è stata fermata in tempo. È tempo di mostrare che la forma del nuovo messale non corrisponde al contenuto cattolico, ma ad un altro contenuto e dunque, seguendo il principio guida che lei ci ha fornito, non si è trattato di una riforma ma di una rivoluzione. In un’intervista(2) rilasciata da Andrea Rose, Canonico titolare della cattedra di Namur (Belgio) e consultore del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, il cui segretario era mons. Annibale Bugnini, abbiamo la conferma che la mente della riforma liturgica fu proprio Bugnini: «Ciò che so, è che mons. Martimort non era molto d’accordo con lui [Bugnini]. Egli lo criticava tutte volte che era assente. Mi diceva: "Questo Bugnini fa ciò che vuole!". Un giorno mi ha detto: "Sapete, Bugnini ha fatto una buona scuola media". Era questo il giudizio di Martimort su Bugnini. All’inizio credevo che esagerasse, ma poi mi sono reso conto che aveva ragione. Bugnini non aveva alcuna profondità di pensiero. Fu una cosa grave designare per un posto simile una persona che era come una banderuola. Ma si rende conto? La cura della liturgia lasciata a un pover’uomo come quello, un superficiale». Ed aggiunge: «Bugnini era sempre dal Papa, per informarlo. Un giorno, era all’inizio, quando i problemi non erano ancora così gravi, ero in piazza San Pietro col Padre Dumas. Abbiamo incontrato Bugnini, che ci ha indicato le finestre dell’appartamento di Paolo VI, dicendo: "pregate, pregate perché ci sia conservato questo Papa!". E questo perché egli manovrava Paolo VI. Andava da lui per fargli rapporto, ma gli raccontava le cose come piaceva a lui. Poi ritornava, dicendo: "Il Santo Padre desidera così, il Santo Padre desidera cosà". Ma era lui che, sottobanco...». Affermazioni pesanti, certamente, ma che collimano con quelle del Cardinale Antonelli da lei riportate e che rivelano principalmente il peso determinante che ebbe Bugnini nella compilazione del nuovo messale. Ma Bugnini non era certamente il solo; il Cardinale Antonelli non fa mistero che il clima che prevaleva nel Consilium era tutt’altro che rassicurante: spirito di critica ed insofferenza verso la Santa Sede, razionalismo, nessuna preoccupazione per la vera pietà, impreparazione teologica Non stupisce allora il risultato, che ha solo la maschera di un ritorno alle fonti liturgiche, come rivela ancora don Rose: «Certuni, nel Consilium, volevano il ritorno alla tradizione principale quando faceva loro comodo. Francamente, che si potessero effettuare delle piccole riforme, d’accordo, ma ciò che si è fatto è stato decisamente radicale». La riforma detta di Paolo VI non ha precedenti nella storia liturgica; nemmeno la riforma di Lutero, a detta di Mons. Klaus Gamber, fu così radicale: «La nuova organizzazione della liturgia, e soprattutto le profonde modifiche del rito della messa sorte sotto il pontificato di Paolo VI, e sono anzitempo divenute obbligatorie sono state molto più radicali della riforma liturgica di Lutero - almeno in ciò che riguarda il rito esteriore - ed hanno tenuto meno conto della sensibilità popolare»(3).

La Messa, vero e proprio sacrificio e la transustanziazione

Dicevamo che la forma deve esprimere il contenuto. Le proponiamo una rapida ricognizione della riforma liturgica per verificare se la forma del Novus Ordo corrisponde ai contenuti fondamentali della dottrina sul santo Sacrificio della Messa. «L’augusto sacrificio dell’altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della Passione e Morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla croce, offrendo al Padre tutto Se stesso, Vittima graditissima»(4). Il Messale di San Pio V richiama incessantemente questo aspetto, tanto fondamentale in quanto esso esprime l’essenza della Santa Messa. E lo fa principalmente nell’Offertorio e nel Canone.

 1. La sostituzione dell’Offertorio.

L’Offertorio ha precisamente la funzione di anticipare non l’effetto della consacrazione, ma il suo significato, richiamando così il sacerdote ed i fedeli all’offerta di loro stessi, in unione alla Vittima divina. Il tutto nell’antichità veniva espresso con la sola presentazione del pane e del vino e la santificazione delle oblate. Nei secoli questo significato si è tradotto in una molteplicità di riti. San Pio V, nell’intento di unificare e regolare le cerimonie del culto pubblico, scelse quelle formule che meglio esprimevano il gesto dell’offerta, significato nel sollevare la patena ed il calice. Nel nuovo Offertorio non è rimasto più nulla di tutto questo, neppure il nome Offertorio, sostituito da Presentazione dei doni ; ed effettivamente la nuova formulazione non ha nulla a che vedere con l’intenzione offertoriale. Se ne accorse lo stesso Paolo VI, ma non apportò alcuna modifica. Egli fece notare che le formule «sono due belle espressioni eucologiche, ma che non hanno alcuna intenzionalità oblativa, se si tolgono i due incisi [proposti dal Papa, n.d.A.]: quem tibi offerimus , quod tibi offerimus; non sono, senza di essi, formule dell’offertorio. Perciò sembra che tali due incisi diano valore specifico d’offerta al gesto e alle parole». Ma, a riprova della dittatura di Bugnini e del Consilium, il Papa aggiunse: «Tuttavia si rimette la decisione circa la loro permanenza o la loro soppressione al giudizio collegiale del Consilium»(5). Dunque anche Paolo VI è concorde con noi nel dire che l’Offertorio del Novus Ordo semplicemente non è un offertorio L’aggiunta delle due formule suggerite dal Papa ha finito per aggravare la situazione: pane e vino sono offerti a Dio in luogo dell’unica offerta a Lui gradita, quella del Corpo e del Sangue del suo Figlio, e l’uomo si dichiara capace di offrire a Dio i frutti del proprio lavoro; l’Eucaristia come sacrificio non è contemplata nelle due formule di presentazione dell’ostia e del vino, che invece rinviano subito l’attenzione sull’Eucaristia come sacramento («perché diventi per noi cibo di vita eterna»; «perché diventi per noi bevanda di salvezza»). L’elemento sacrificale risulta così non negato, ma certamente posto in ombra, a grave danno della fede di chi celebra e di chi assiste. L’Offertorio romano è stato devastato con delle pseudo-motivazioni, che manifestano l’assenza di formazione teologica e sensibilità liturgica da parte di molti membri del Consilium. È ancora don Andrea Rose a dirci come andarono i fatti: «Coloro che si sono occupati della Messa sono stati ancora più radicali di quanto lo fummo noi nell’Ufficio Divino. Basta vedere come è stato quasi eliminato l’Offertorio. Dom Capelle non voleva alcun Offertorio. Si parla come se il sacrificio fosse già compiuto. Si rischia di credere che tutto è stato già fatto , diceva. Non si rendeva conto che tutte le liturgie contengono una anticipazione come quella, Ci si pone già nella prospettiva del compimento. Domanda: Non si tratta della mancanza di una prospettiva finalista? Risposta: Sì, e allora si è finito col sopprimere tutto, tutto quello che era preghiera nell’Offertorio, perché, si diceva, non si tratta ancora del sacrificio. Ma, insomma, qui siamo di fronte a delle posizioni molto razionaliste! Una mentalità da scolaresca! Domanda: Nella sua esperienza pastorale ha notato che i fedeli avessero creduto che le oblate fossero già state consacrate? Vale a dire: ha constatato la concretizzazione dei pericoli sottolineati da dom Capelle? Risposta: Ma no, ma no. Mai! E poi, basta guardare come si svolgono i riti orientali. Là è la stessa cosa. E sarebbe interessante comparare tutte queste cose».

2. Dal Canone alle Preghiere eucaristiche

Si è riuscito a far di peggio per quanto riguarda le Preghiere eucaristiche. Accanto al Canone, riproposto nella Preghiera eucaristica I, ma con delle variazioni significative che vedremo più avanti, sono state poste altre anafore (quattro, più due dette della riconciliazione). Tutte queste preghiere sono state fatte a tavolino, compresa la seconda, che del Canone di Ippolito ha si è no l’ispirazione. E per quale profondo motivo teologico? Per porre fine «a secoli di fissismo»(6)! Lei ha ragione quando dice che «la liturgia è un processo vitale, non il prodotto di erudizione specialistica» (p. 50). Ora, le nuove Preghiere eucaristiche sono precisamente il frutto delle mani di una commissione che, secondo il giudizio del Cardinale Antonelli da lei riassunto, era caratterizzato dall’«incompetenza di molti, sete di novità, discussioni affrettate, votazioni caotiche pur di approvare al più presto» (p. 50). È sensato, secondo lei, mettere fine al Canone (perché di fatto il Canone non è più canone, norma) che raccoglie oltre 1500 anni di tradizione liturgica, che, secondo il Concilio tridentino, è «talmente puro da ogni errore, da non contenere niente che non profumi di grande santità e pietà e non innalzi a Dio la mente di quelli che lo offrono»(7), perché nelle adunanze del Consilium «c’era chi sottolineava le difficoltà che l’attuale Canone comportava per la nuova epoca e mentalità moderna»(8)? C’è un altro rilievo da fare: Bugnini affermò che nelle tre Preghiere eucaristiche aggiunte, «per quanto possibile, si è evitato di ripetere concetti, parole e frasi del canone romano»(9). Ma allora che cosa si esprime in quelle preghiere eucaristiche? Se il Canone raccoglie ed esprime la tradizione liturgica sul Santo Sacrificio, armonizzando meravigliosamente l’impetrazione, il ringraziamento, la supplica, l’espiazione, che cosa resta nelle altre Preghiere eucaristiche?

3. L’abominazione nel luogo sacro: la modifica della formula di consacrazione

C’è un altro aspetto, che interessa anche la Preghiera eucaristica I e che colpisce direttamente l’azione sacrificale della consacrazione. Si tratta della modifica della forma della consacrazione; anche in questo caso, Bugnini agì di testa sua, contrariamente all’indicazione del Papa, che chiese di lasciare immutato il Canone e di aggiungere altre due o tre anafore da usare in alcuni tempi(10). In primis, quella che veniva chiamata consacrazione, nel nuovo messale è divenuta il racconto dell’istituzione ; ed il nuovo titolo ci fornisce, purtroppo, l’autentica chiave di lettura delle modifiche della formula consacratoria. L’aggiunta delle parole: «Prendete e mangiatene tutti» e «Prendete e bevetene tutti», che nel Messale di san Pio V sono chiaramente distinte dalla vera e propria formula di consacrazione sia per il punto fermo che le segue che per la differenza dei caratteri tipografici, permettono di considerare la consacrazione più come memoriale narrativo che come vero e proprio sacrificio reso presente esattamente per mezzo della formula pronunciata dal sacerdote. Anche l’«hunc praeclarum calicem» è divenuto semplicemente «il calice»; ma mentre nel primo caso si sottolinea l’azione in persona Christi, per cui quel calice dell’ultima cena è questo calice, nel secondo caso questa sottolineatura è omessa, favorendo ancora una volta lo stile narrativo. Lei sa bene come nella liturgia ogni parola, usata o non usata, ogni gesto, ogni silenzio hanno un valore e veicolano un’idea teologica. Bugnini & C. sono passati come un uragano, mettendo sottosopra una formula consacratoria che mai nessuno aveva osato alterare. Veramente qualcuno l’aveva mutata: i protestanti; e se si va a prendere il loro testo di racconto della Cena, essi hanno precisamente il medesimo testo presente nel nuovo Messale. È veramente incredibile la presunzione di Bugnini quando afferma che la formula consacratoria presente nel Canone «è per se stessa gravemente incompleta dal punto di vista della teologia della messa»(11)! Non meno incredibili sono le motivazioni addotte per la rimozione del «mysterium fidei» dalla formula consacratoria, prima dell’acclamazione dell’assemblea: «non è biblica; si trova solo nel canone romano; è di origine e significato incerti; gli stessi periti discutono sul senso preciso di queste parole. Anzi, alcuni le intendono in senso addirittura pericoloso perché la traducono: segno per la nostra fede; interrompe la frase e ne rende difficile il senso e la traduzione»(12). E invece quel «mysterium fidei» posto immediatamente dopo la consacrazione del vino, ha un valore enorme, perché afferma che è appena avvenuta l’immolazione, per mezzo della doppia consacrazione, che è il mistero dei misteri della nostra santa fede. C’è poi l’aggiunta delle acclamazioni dell’assemblea, secondo tre differenti formulari. A parte l’inopportunità di inserire in questo punto un’acclamazione, che interrompe la sacralità del silenzio, occorre notare che le prime due formule («Annunciamo la tua morte...», e «Ogni volta che mangiamo...») sono davvero molto pericolose, perché spostano l’attenzione dei fedeli alla «seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è veramente, realmente e sostanzialmente presente sull’altare»(13), allorché si parla dell’«attesa della tua venuta». Inoltre la formula «Ogni volta che mangiamo...» è del tutto inadeguata e nociva al senso del sacrificio appena compiuto. Infatti non sottolinea che è la consacrazione ad «annunciare (nel senso di rendere presente) la tua morte, Signore», bensì il «mangiare il pane e bere il calice». Questa acclamazione ha un sapore fortemente protestante.

4. Ancora modifiche

A tutte queste modifiche si aggiungano anche l’eliminazione della quasi totalità dei segni di croce fatti dal celebrante sulle oblate, sulle e con le specie consacrate, per indicare che le specie che si hanno davanti sono realmente la Vittima di cui si parla. Le genuflessioni sono state ridotte da sei a due e sono state tolte quelle tanto importanti che il sacerdote fa appena terminate le parole di consacrazione del pane e del vino. Non è più presente nemmeno la preservazione delle dita del sacerdote dopo la consacrazione e la loro purificazione nel calice, il che affievolisce ancora di più il senso della presenza sostanziale di Cristo in ogni frammento eucaristico. Sono state omesse anche le precise e riverenti prescrizioni nel caso in cui l’Ostia consacrata abbia a cadere. La purificazione dei vasi sacri può essere posticipata E si potrebbe continuare. È chiaro che la nuova forma non esprime più in modo adeguato l’essenza sacrificale della Messa e la presenza sostanziale di Nostro Signore. Non diciamo che neghi questi aspetti, ma certamente non li significa più in modo adeguato, aprendo così la strada a ciò che di fatto è avvenuto e che è denunciato da lei stesso.

La glorificazione di Dio

E dopo l’essenza della Messa, passiamo a considerarne le finalità, la prima delle quali è senza dubbio la glorificazione della SS.ma Trinità per mezzo di Nostro Signore Gesù Cristo. La liturgia ha principalmente e sostanzialmente una dimensione verticale e tutto il rito deve esprimere e favorire questo orientamento. Nel nuovo messale la finalità ultima della liturgia (e di ogni cosa) è quasi scomparsa. Il Gloria Patri nell’antifona all’Introito è stato omesso; il Gloria in excelsis Deo è recitato meno frequentemente; solo la Colletta termina con la formula trinitaria («Per il nostro Signore Gesù Cristo...»), mentre le altre orazioni concludono semplicemente con «Per Cristo nostro Signore»; la medesima conclusione è stata tolta anche dopo le tre preghiere che preparano alla Santa Comunione e dopo il Libera nos Domine che segue il Pater noster; la bellissima preghiera dell’Offertorio Suscipe, Sancta Trinitas, bellissimo compendio della finalità del santo Sacrificio è abolita; il Prefazio della SS.ma Trinità non è più recitato tutte le domeniche ma solo il giorno della Solennità della SS.ma Trinità; è stato rimosso anche il Placeat tibi, Sancta Trinitas, al termine della Messa. Anche in questo caso siamo di fronte ad una vera e propria devastazione che priva i sacerdoti ed i fedeli di quell’abituale riferimento alla gloria della SS.ma Trinità, che è il fine della vita e di tutte le cose.

La propiziazione e l’espiazione

«L’aspetto più evidente di questa rielaborazione [delle orazioni, n.d.A.] è la quasi totale soppressione delle espressioni relative al peccato e al male (peccata nostra, imminentia pericula, mentis nostrae tenebrae), e di quelle relative alla necessità di redenzione e perdono (puriores, mundati, reparatio nostra, purificatis mentibus)»(14). È la necessaria conseguenza del principio di Bugnini, riportato più sopra, di rivedere ciò che non è conforme ai tempi moderni. L’idea di essere peccatori, profondamente debitori verso Dio, meritevoli dei Suoi castighi, radicalmente incapaci di riparare da noi stessi il debito contratto dai nostri peccati è quanto di meno accettato dall’uomo di sempre, e particolarmente quello moderno. E così i tagli fioccano! Prima vittima è l’implorazione «Deus tu conversus vivificabis nos» nelle preghiere ai piedi dell’altare, seguita dalle due orazioni che il sacerdote recita quando è salito all’altare (Aufer a nobis e Oramus te, Domine), nelle quali domanda a Dio di allontanare le proprie iniquità e perdonare i propri peccati. Il Confiteor non è più recitato dal sacerdote profondamente inchinato e dai fedeli in ginocchio, entrambe espressioni di umiltà e supplica. Con l’abolizione dell’Offertorio, sono sparite anche le due suppliche di accettazione dell’offerta immacolata «pro innumerabilibus peccatis et offensionibus et negligentiis meis», come pure l’espressione «tuam deprecantes clementiam». Il gesto di stendere le mani sull’ostia ed il calice, che indica il gesto del Sommo Sacerdote che caricava dei nostri peccati la vittima che stava per essere immolata, nelle Preghiere eucaristiche del nuovo Messale viene associato all’invocazione dello Spirito Santo, smarrendo così il significato espiatorio del Sacrificio di Cristo. Anche i riti appena precedenti la Santa Comunione, che aiutano il sacerdote ed i fedeli a ravvivare disposizioni interiori di contrizione sono stati sensibilmente modificati. Per entrambi il Domine non sum dignus oltre alla variazione del testo è stato ridotto da tre ad uno soltanto, laddove invece la ripetizione permette una sempre maggior consapevolezza della propria indegnità dinanzi a tanto mistero.

La sacralità

Anche su questo aspetto ci sarebbe molto da dire. Ci basti in questa lettera trarre qualche spunto da quanto lei scrive in quel bel primo capitolo sulla Sacra e divina liturgia: «Il sacro nella messa antica è presente e si esprime anche nei segni di croce e nelle genuflessioni. Nel silenzio dei fedeli durante la preghiera eucaristica, non gridata ma pronunciata submissa voce a voler così significare anche il gesto di sottomissione e di umiliazione, dinanzi a Dio, della nostra voce» (p. 23). E poi aggiunge profonde considerazioni sulla lingua sacra. Lei sa come tutto questo è sparito. Se c’è un rimprovero generale che si può fare alla Messa riformata è che essa vuol far capire troppo. Il leitmotiv è che tutti devono capire tutto e subito. Il sacerdote deve sempre parlare ad alta voce, i fedeli devono parlare, le letture devono essere moltiplicate, la lingua deve essere capita, ecc. E c’è sempre meno spazio per il silenzio ed il canto sacro, le due espressioni somme della preghiera e dell’adorazione. «Razionalità nella liturgia e nessuna pietà»(15): era questa l’accusa precisa che muoveva il Cardinal Antonelli. Nulla di più vero. Su questo aspetto ci sarebbero veramente molte considerazioni da fare, a partire dai paramenti, i vasi sacri, gli edifici, il canto, la lingua, gli atteggiamenti del corpo, etc.

Il sacerdozio

Una delle vittime privilegiate della riforma liturgica è il sacerdozio (e conseguentemente l’identità degli stessi sacerdoti e la fedeltà alla loro vocazione). Le annotazioni precedentemente fatte sullo slittamento in senso narrativo della formula di consacrazione incidono fortemente sull’intenzione del sacerdote che le pronuncia. Anche a causa delle carenti indicazioni rubricali circa la posizione, il tono della voce, ecc., il sacerdote è sempre meno condotto ad intendere la celebrazione come actio sacrificalis operata in persona Christi. Il suo ruolo di insostituibile e necessario mediatore e sacrificatore è stato poi posto in ombra dalla riforma liturgica sia per la rimozione di alcuni elementi, che ben sottolineano la differenza essenziale tra il sacerdote e l’assemblea dei fedeli, sia per l’eccessiva e imprecisa insistenza sul sacerdozio comune. Per quanto riguarda il primo aspetto - l’unico che esamineremo - si veda quello che si è verificato con l’atto penitenziale. Il Confiteor, laddove non è sostituito dai formulari alternativi, viene recitato comunemente dal sacerdote e dai fedeli, senza alcuna distinzione; il sacerdote da Pater, diventa uno dei fratres. Inoltre è stata omessa la formula di assoluzione, atto esclusivamente sacerdotale, che anche i protestanti tolsero nella loro messa riformata. Anche nelle nuove Preghiere eucaristiche non si afferma più la distinzione tra il sacrificio offerto dal sacerdote a cui si associano i fedeli («pro quibus tibi offerimus vel qui tibi offerunt»), ma dice in generale «ti offriamo», oppure nella Preghiera eucaristica III si parla di «un popolo che da un confine all’altro della terra offra al tuo nome un sacrificio perfetto». La formula di Comunione del sacerdote è divenuta meno specifica ed è unita a quella dei fedeli. Da due orazione si è passati ad una; il sacerdote poi insieme ai fedeli recita per una sola volta «O Signore, non sono degno» (tralasciamo per brevità la modifica della formula) e quindi si comunica con le sole formule «Il Corpo [vel Sangue] di Cristo mi custodisca per la vita eterna». Quindi amministra subito la comunione dei fedeli. In tal modo si distingue sempre di meno il fatto che la comunione del Sacerdote è necessaria per il compimento del Sacrificio, mentre quella dei fedeli, certamente importante, non è essenziale. Nella nuova impostazione la comunione del sacerdote è semplicemente prima di quella dei fedeli, mentre dovrebbe risultare come parte strutturale e conclusiva del Sacrificio, poiché è la consumazione della Vittima divina.

La forma della ri-forma

Alla luce di tutte queste ed altre modifiche (come la soppressione della Chiesa trionfante, il biblicismo dell’attuale Lezionario, etc.) non ci si può esimere dal chiedersi che cosa sia rimasto della dottrina cattolica sul Santo Sacrificio della Messa. Si resta ancor più attoniti allorché si confronti il Novus Ordo con le modifiche delle liturgie protestanti e gianseniste. Di fronte alla realtà dei fatti non possiamo seguire la sua indicazione per cui «la riforma liturgica non deve essere messa in dubbio...» (p. 68). È invece doveroso per la custodia del tesoro più prezioso che Nostro Signore ci ha lasciato, per la conservazione del Sacerdozio cattolico ed infine per la salvaguardia e l’incremento della fede e pietà dei fedeli, che si abbia il coraggio di rivedere una riforma che dimostra di essere fallita. Lei ha affermato un po’ eufemisticamente: «Se non si può dire che la riforma liturgica non sia decollata, di certo ha volato basso, Dunque, restano ombre da dissipare sul come fu fatta. Si era andati oltre le intenzioni del concilio? Perciò, si faccia tregua nella battaglia: ora l’usus antiquior della messa è tornato a mo’ di specchio accanto al nuovo. Se alcune nuove forme rituali sono sembrate un cedimento allo spirito del mondo, un pacato approfondimento e una revisione o restituzione delle antiche potrà allontanare ogni timore» (p. 59). Se è veramente così, se cioè c’è stato bisogno di far ritornare la Messa tridentina perché la nuova potesse ritrovare la sua identità, ciò significa semplicemente che la riforma ha fallito. Non è stata ri-forma nel senso da lei e da noi auspicato, ma è stato il conferimento di una nuova forma alla Messa, una forma che costituisce «un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa»(16). Non è mai capitato nella storia della liturgia che un Messale riformato dovesse rifarsi al precedente per poter recuperare l’autentico spirito liturgico. Noi celebriamo con il Messale del 1962 e sebbene abbiamo in somma stima le precedenti edizioni, non abbiamo bisogno di riferirci ad esse come ad uno «specchio accanto al nuovo», perché il Messale del 1962 ha conservato lo stesso spirito - e anche la lettera! - dei precedenti. Con tutto ciò non vogliamo affermare che sia eretico chi celebra secondo il nuovo rito; ma quel che è chiaro è che esso favorisce uno spirito ed una pietà che non sono autenticamente cattoliche. Piano piano si assorbe una mentalità che non è più cattolica. E se può essere possibile che chi celebra la Messa secondo il Novus Ordo o vi assiste riesca a conservare uno spirito cattolico, è però realistico ammettere che ciò avviene non grazie a quella Messa, ma nonostante essa. In altri termini se anche la fede cattolica può essere mantenuta nell’intimo, il rito liturgico non ne è più l’espressione esterna. È un po’ come quando si entra nelle nuove chiese di pessima architettura: teoricamente in esse si può pregare, ma è bene chiudere gli occhi... Non c’è nulla in queste chiese che aiuta l’anima ad elevarsi, la mente a raccogliersi, il cuore a scaldarsi di fuoco soprannaturale. Per questo motivo non possiamo essere d’accordo con lei quando afferma che «chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso, e viceversa. Quindi non è ammesso un diniego a celebrare il nuovo per partito preso, non sarebbe segno di comunione rifiutarsi, per esempio, di concelebrare con un vescovo che intendesse farlo secondo il nuovo messale...» (p. 64). Non possumus! Davvero è impossibile coniugare questa riforma con la tradizione; e sottolineiamo ancora il dimostrativo, perché non è lo sviluppo storico che neghiamo, non è la saggezza dell’et-et cattolico in quella meravigliosa sintesi tra «rinnovamento e tradizione, innovazione e continuità, attenzione alla storia e consapevolezza dell’Eterno...» (p. 10), messo in luce da Vittorio Messori nella Prefazione. Non è questo. Non è forse vero che il Patrono della nostra Fraternità, cioè san Pio X, è stato uno dei più grandi riformatori (anche in ambito liturgico) della storia della Chiesa? Quello che noi non possiamo accettare è che questo et-et sia dato hegelianamente, come sintesi di contraddittori, in una identità tra il reale ed il razionale. «Salvare i fenomeni»! Era questo, secondo la profonda lettura di Taylor(17), l’imperativo della filosofia di Hegel: salvare razionalmente la storia ed i suoi momenti, affermando idealisticamente che ognuno di essi è tappa di uno stadio ulteriore. E così Hegel perde l’essenza delle cose, smarrisce il criterio di verità o falsità. «Salvare la riforma» sembra essere il motto di quel nuovo movimento liturgico che lei auspica nell’ultimo capitolo. Ma non si era detto di confrontarsi sulla liturgia «senza alcun pregiudizio»?

Rev.do don Bux, tiriamo le fila di questa lunga lettera, anzitutto con un invito alla speranza. Per lei e per noi. Non è impossibile uscire da questa situazione e forse su questo lei sarà d’accordo con noi; Nostro Signore non abbandona mai chi cerca la Sua gloria ed il bene delle anime. Ma forse non sarà sulla nostra stessa linea d’onda, allorché le confessiamo che siamo certi che il ritorno al sacro non si farà cercando di mettere insieme il Vetus ed il Novus Ordo. Umanamente può sembrare l’unica via percorribile per non provocare rotture, a scandalo della fede di tanti credenti già largamente provata. Ma non è così. La situazione liturgica nella Francia del XVIII ed inizio del XIX secolo non era meno drammatica della nostra. L’anarchia liturgica era all’ordine del giorno e si diffondevano riti fai da te , con lo scopo più che nobile di ritrovare l’autentico spirito liturgico. Dom Prosper Guéranger, il grande abate di Solesmes, dopo aver presentato l’incredibile situazione di quel momento così conclude: «Tale era dunque lo sconvolgimento di idee nel diciottesimo secolo che vide dei prelati combattere gli eretici e nello stesso tempo, per uno zelo inspiegabile, attaccare la tradizione nelle sacre preghiere del messale; confessare che la Chiesa ha una voce propria, e far tacere questa voce per dare la parola a qualche dottore senza autorità. Tale fu la sciocca tracotanza dei nuovi liturgisti, che non si proponevano niente meno, e ne convenivano, che di ricondurre la Chiesa del loro tempo al vero spirito di preghiera; di purgare la Liturgia dagli elementi poco puri, poco esatti, poco misurati, piatti, difficili da capire correttamente, che la Chiesa, nei pii moti della sua ispirazione, aveva sventuratamente prodotto ed adottato. Per il più giusto di tutti i giudizi, tale era la barbarie entro la quale erano caduti i francesi riguardo al culto divino, essendo stata distrutta l’armonia liturgica, che la musica, la pittura, la scultura, l’architettura, che sono le arti tributarie della Liturgia, la seguirono in una decadenza che non ha fatto altro che accrescersi negli anni»(18). Tale era dunque la situazione, che ha una rassomiglianza impressionante con la nostra. E come si uscì da questa situazione? Con il rito romano di sempre, puro e semplice. Lei chiede una "tregua" sulla liturgia ora che il Rito tradizionale "è ritornato a casa"; tuttavia pur cogliendo il suo intento ci sembra che su questa ipotetica tregua gravi ufficialmente proprio uno di quei pregiudizi che lei invita ad evitare: quello di far soffrire al Messale del 1962 condizioni di inferiorità rispetto al messale di Paolo VI. Le facciamo notare che, mentre oggi si parla di forma "ordinaria" e "straordinaria", perfino Mons. Gamber, molti anni or sono, nel libro già citato (che poté godere della prefazione di quattro illustri prelati: Mons. Nyssen, i Cardinali Stickler e Oddi e l’allora Cardinal Ratzinger) proponeva una tregua in termini diversi (e in un certo senso opposti) ai suoi: «La forma della messa attualmente in vigore non potrà più passare per rito romano in senso stretto, ma per un rito particolare ad experimentum. Solo l’avvenire mostrerà se questo nuovo rito potrà un giorno imporsi in modo generale e per un lungo periodo. Si può supporre che i nuovi libri liturgici non resteranno per molto tempo in uso, perché gli elementi progressisti della Chiesa nel frattempo avranno certamente sviluppato nuove concezioni riguardo l’ organizzazione della celebrazione della messa»(19). In ogni caso restiamo profondamente convinti che il Rito tridentino, con l’impianto dottrinale su cui si fonda, che esprime e che veicola non possa che evidenziare la sostanziale incompatibilità del rito di Paolo VI con la dottrina cattolica. Riteniamo che i due riti possano coesistere solo se non se ne coglie l’opposta valenza dottrinale, oppure se ci si basa su una filosofia che coniuga i contraddittori; una liturgia infatti presuppone sempre, attraverso e al di là dei segni che utilizza, una precisa dimensione dottrinale e spirituale che non può essere in alcun modo dissociata dal rito stesso. Celebrare in un modo, credendo in qualcosa di diverso non è normale e in ultima analisi non sarebbe nemmeno onesto. Illustriamo la cosa con un esempio semplice e alla portata di chiunque. Come può un medesimo sacerdote offrire sullo stesso altare "La Vittima Immacolata" e il "pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo", credendo e facendo credere che le due espressioni si equivalgano? Come può la medesima istituzione fare suoi due segni così manifestamente opposti illudendosi di spiegare l’uno attraverso l’altro senza perdere ulteriormente la propria identità e senza aumentare ulteriormente la confusione dei semplici? Che ci sarebbe in comune tra questo nuovo linguaggio liturgico e il sì sì-no no evangelico? Non c’è in noi alcun dubbio che chiunque si accosti senza pregiudizi al Messale romano tradizionale possa ripetere l’esperienza che ebbe dom Guéranger, quando per la prima volta, da semplice prete, si accostò accidentalmente al rito romano, egli che di quel rito fino ad allora era tutt’altro che simpatizzante: «Malgrado la mia poca simpatia per la liturgia romana, che d’altronde non avevo mai studiato seriamente, mi sentii subito penetrato dalla grandezza e dalla maestà dello stile impiegato in questo messale. L’uso della Sacra Scrittura, così grave e così pieno d’autorità, il profumo di antichità che emana questo libro, i suoi caratteri rosso e nero, tutto ciò mi trascinava a capire che stavo scoprendo dentro questo messale l’opera ancora vivente di questa antichità ecclesiastica per la quale ero appassionato. Il tono dei messali moderni mi parvero allora sprovvisti d’autorità e di unzione, avvertendo l’opera di un secolo e di un paese e nel contempo di un lavoro personale»(20). È l’esperienza che auguriamo di cuore a Lei e a tutti i confratelli del mondo! Con stima.
Note
(1) Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
(2) L’intervista, pubblicata in lingua francese da Courrier de Rome del giugno 2004, è integralmente consultabile sul sito www.unavox.it.
(3) K. Gamber, La Réforme liturgique en question, 1992, p.42.
(4) Pio XII, Mediator Dei, 20 novembre 1947.
(5) M. Barba, La riforma conciliare dell’«Ordo Missae», Roma, 2002, p. 214.
(6) A Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, 1997, p. 443.
(7) Concilio di Trento, Sessione XXIII, 17 settembre 1562, Decreto e canoni sulla Messa, c. IV:
(8) M. Barba, La riforma conciliare …, cit., p. 137.
(9) A Bugnini, La riforma liturgica…, cit., p. 446.
(10) Cfr. ibid., p. 444.
(11) ibid., p. 448.
(12) ibid., pp. 448-449.
(13) Breve esame critico del Novus Ordo Missae, Le formule consacratorie.
(14) L. Bianchi, Liturgia. Memoria o istruzioni per l’uso?, Milano, 2002, p. 59.
(15) N. Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Roma, 1988, p. 234.
(16) Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
(17) Cfr. C. Taylor, Hegel, Cambridge, 1975, p. 494.
(18) P. Guéranger, Institution liturgique, t. II, c. XX, pp. 393-394.
(19) K. Gamber, La Réforme liturgique…, cit., p.76.
(20) P. Guéranger, Mémoires autobiographiques (1805-1833), Solesmes, 2005, p. 81
 
7/4/2009 (la premessa è stata rielaborata dal redattore del sito)

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