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La grande guerra del Concilio
di Brunero Gherardini

Alla ricerca della continuità evolutiva del Vaticano II tra interpretazioni ufficiali e forzature "neoteriche".

Proprio così: "la grande guerra del Concilio". E forse anche al Concilio. Lo dichiara o lo lascia capire Maurizio Crippa dalla prima pagina de "Il Foglio" (XII, n. 266), interamente dedicata all'argomento; e rincara la dose: "la più ponderosa battaglia culturale del Novecento". Si riferisce al convegno celebrato ad Ancona il 10 nov. 2007, per iniziativa del Centro Studi "Oriente Occidente" sul filosofo e filologo svizzero Romano Amerio, ben noto per la sua opera principale Jota unum (1985).

Chi avesse osato citare anche solo occasionalmente Jota unum o il successivo Stat veritas, uscito subito dopo la morte dell'Autore (1997), avrebbe corso il rischio d'esser additato al pubblico ludibrio. Con un linguaggio un po' aulico ma anche con indubbia preparazione filosofica, filologica e teologica, Amerio aveva messo il dito sulla piaga più scottante del momento: la rottura che i "neoterici", come lui chiamava gli'innovatori del Vaticano II, avevan operato ai danni della Tradizione. Era, la sua, un'opera di paziente analisi dell'innovazioni avventatamente introdotte, dei forzati cambiamenti di senso, degli errori evidenti e di quelli più sotterranei ma non per questo meno pericolosi; insomma, un'aperta e coraggiosa denuncia. Un immediato successo, poi un silenzio di tomba. E chi si provava a far della denuncia l'oggetto d'un dibattito serio e responsabile, veniva bollato, con superficiale indelicatezza e mancanza di carità, come anticonciliare. Una mazzolata.

Se non che, oggi anche Amerio potrebbe dire: "Post fata resurgo". Nel 2005 fu al centro d'un convegno a Lugano (i cui Atti son già di pubblico dominio) su "L'umanista, il luganese, il cattolico"; e sempre in quell'anno comparve una sua biografia. È annunciata per il 2008 una nuova edizione di Jota unum. E gli Atti del convegno d'Ancona son già sotto i torchi della benemerita editrice "Fede & Cultura". Come se non bastasse, "L'Osservatore Romano", "La Civiltà Cattolica" ed uomini di vertice sembrano avallare il convincimento di Divo Barsotti sull'opportunità di fa cadere un tabù a difesa "d'un vero cristiano". Su questo vero cristiano, ecco il convegno d'Ancona.

Ed ecco pure, all'interno di esso, la netta presa di posizione di S.E. Rev.ma Mons. Agostino Marchetto il quale, senza mai nominar Amerio, passa al vaglio le idee dei "neoterici" bolognesi e ne fa polpette. Distrugge, cioè, le conclusioni della scuola fondata da Dossetti (anche a me nota, per averne frequentato da giovanissimo il Centro di Documentazione, dove trovavo ciò che non trovavo altrove su Lutero e la Riforma) e diventata con Alberigo, Melloni ed altri una centrale potentissima dell'avanguardismo cattolico. Il condensato di codesto avanguardismo, ammantatosi di dignità conciliare, si sprigiona da ogni pagina della monumentale storia del vaticano II (specie del V volume) a cura di Giuseppe Alberigo, dove il Vaticano II è studiato, analizzato e descritto non solo come la zona di confine fra un cattolicesimo di tradizione, di dogmi e di canoni ed un cattolicesimo propulsivo, acculturato e comunionale, ma come la forza dirompente che neutralizza il primo ed inaugura il secondo.

In realtà, nella serrata critica di Mons. Marchetto non c’è nulla di nuovo; tutto era già stato detto, papale papale, a varie riprese in articoli e studi poi confluiti nei due grossi volumi: Chiesa e papato nella storia e nel diritto, Vaticano 2002 e Il Concilio Ecumenico Vaticano II, ivi 2005. La sua stella è la Tradizione; e la chiave di lettura della Tradizione stessa e di tutto quanto si muove nella storia è il metodo critico. C’è in lui un piglio battagliero, non disgiunto dalla gioia di rimetter le cose nella loro giusta prospettiva; incarna il “felix qui potuit rerum cognoscere causas” (1). Ciò che oggi colpisce è non solamente e soprattutto l’ermeneutica conciliare della continuità-discontinuità. Pure il Papa ne ha parlato alla Curia Romana il 22 dicembre 2005. Non mi consta che i “neoterici” abbian cambiato convinzione.

Una riaffermazione così perentoria della perenne attualità ed immutato valore della Tradizione era, fin a poco fa, quasi impensabile. Che il Concilio fosse presentato nella linea della continuità evolutiva o in quella d’una netta contrapposizione al passato, l’interesse veniva con forza richiamato dalle “novità” conciliari. D’accordo, “aliter tamen ac taliter”, per motivi nettamente diversi, non impedendo gli uni la preferenza del passato nel presente, precludendola gli altri. Ma, in pratica, il discorso si fermava sul nuovo o perché in esso confluiva l’impeto inarrestabile della pastoralità conciliare, o perché esso costituiva il voltafaccia conciliare al primato verticistico, intellettualistico, giuridico.

Forse sta proprio qui, nell’enfasi della novità, il punto d’incontro tra critico e criticati. Il critico non lesina riconoscimenti al Vaticano II in quanto tale: lo chiama “icona” del mondo cattolico, “identità in evoluzione, fedeltà al rinnovamento”, e non esita a qualificarlo come “magno”, perché grande sarebbe il valore “dottrinale, spirituale e pastorale”. I criticati ne fanno l’evento che rompe i ponti col passato ed inaugura la novità in assoluto. Formalmente l’uno e gli altri divergono; materialmente ed almeno parzialmente concordano. Ed è su questo che mi permetto di dire la mia. E dirla con la stessa convinzione che muove critico e criticati.

Vissi tutta la stagione conciliare, dalla sua fase preparatoria alla sua celebrazione e successiva ricezione. Dal 1965, l’anno in cui il Vaticano II si chiuse, ad oggi è passato quasi mezzo secolo. A fronte dell’agguerrito staff bolognese, strettamente collegato con spiriti inquieti di Francia, Olanda, Germania, Africa, Asia e Nuovo Mondo, operò in esemplare silenzio un’istituzione vaticana per la retta interpretazione dei documenti conciliari e la pubblicazione integrale dei documenti ufficiali. Da parte sua, il Magistero non cessò mai d’appellarsi al Concilio, auspicandone la fedele applicazione. Tra lo staff bolognese e l’interpretazione ufficiale, storici e teologi di varia estrazione, con differenze riconducibili ai rispettivi ambiti, levavan intanto la loro voce, in appoggio o all’una o all’altra parte.

In quella che ho chiamato interpretazione ufficiale si nascondeva un difetto che, comprensibilmente ma non legittimamente, contagiava la produzione storico-teologica, o almeno quanti, fra storici e teologi, più che della ricerca sulle rispettive fonti, si preoccupavano di riecheggiar il Vaticano II e la sua ufficiale volgata. Un grave difetto, a mio modesto parere: non senza qualche rara eccezione, si giustificava il Vaticano II riproponendolo. Lo stesso difetto si nota nella volgata opposta, alla quale S.E. Mons. Marchetto ha sbarrato la strada, guadagnandosi la stima e la gratitudine di chi né s’entusiasmava alla richiesta d’un Vaticano III, né supinamente accettava la riduzione del II ad una funzione di rottura.

Ciò nonostante, gli spiriti inquieti di casa nostra e di fuorivia non han mai cessato d’esternare il loro scontento per l’inconcludenza del Concilio e, soprattutto, per la sua ricezione a loro giudizio parziale, manovrata da Roma con l’intento di neutralizzare le novità conciliari e ritornar un poco alla volta allo status quo. Lo affermo per esperienza. Almeno due volte, nell’immediato postconcilio, mi ritrovai gomito a gomito col prof. Alberigo, da poco scomparso, a discutere di collegialità, “Nota explicativa praevia” ed ecumenismo. Alberigo aveva sposato la politica detta allora “del carciofo” per ridurre ai minimi termini, foglia dopo foglia, il primato del Romano Pontefice e la sua infallibilità “ex cathedra”, le prerogative della Chiesa e del suo Magistero. In me non poca meraviglia suscitava la “personale infallibilità” del Professore nell’imporre la sua interpretazione, ch’era poi un progetto: sostituire alla Chiesa della dottrina, del magistero e della compattezza unilaterale una Chiesa della comunione. E – ovviamente – della libertà. Qualche anno prima Hans Küng aveva lanciato dalle cattedre dell’antico e del nuovo mondo un patetico appello alla “libertà nella Chiesa”; il sottoscritto gli chiese, senz’averne risposta, come e perché potesse parlare tanto “liberamente”.

A mio modo di vedere, il fatto preoccupante è la coincidenza che ho detto materiale fra la non scientificità dell’interpretazione ufficiale e l’esasperato criticismo dei “neoterici”. Dall’una e dall’altra parte si diffonde un’immagine del Concilio distorta e contraddittoria, che pertanto dovrebb’esser riveduta e corretta. Mons. Marchetto ha lodevolmente riveduto e corretto quella, del tutto mistificatrice, proveniente dalla scuola bolognese. Sarebbe ora opportuno rettificare anche quella ufficiale. Nessuno può negare che il Vaticano II sia stato grande: un Concilio che allinea nell’Aula conciliare oltre 2540 vescovi, 42 uditori laici e 90 osservatori non cattolici (2), ed allarga il proprio orizzonte su quasi tutte le tematiche teologico-culturali del momento, non è una bagatella. Ma proprio questo Concilio, e per sua diretta confessione, rinunzia ad incidere dottrinalmente sul mondo contemporaneo, dichiarando che il valore dogmatico dei propri asserti è quello delle singole verità precedentemente definite, cui tali asserti si riferiscano. Tutto il resto va sotto l’etichetta “pastorale”, ovvero dell’adattamento, dell’inculturazione, del dialogo: insomma di ciò che formalmente è altro rispetto al dogma e alla dottrina. Stando così le cose, non sembra corretto continuar ad esaltare oltre il dovuto il valore “dottrinale” del Vaticano II.

C’è di più. Io pure penso che l’unica chiave di lettura del Vaticano II sia quella della continuità evolutiva. È possibile esprimerla in vari modi, ma il concetto dovrebbe restar sempre quello del valore tradizionale che s’affaccia sulla soglia del presente, concorre ad illuminare e risolverne i problemi e prepara il futuro.
Questo ho ininterrottamente insegnato ai miei alunni dal 1964 in poi. Avrei dovuto, forse, aggiungere anche quanto per prudenza tacevo: e cioè che, almeno su alcuni punti, sia il Vaticano II sia la sua interpretazione ufficiale han dato spago ai “neoterici” di Bologna e fuorivia, presentando dottrine nuove, e perfino assolutamente nuove, come se riposassero sul piedistallo della Tradizione. Faccio due soli esempi, emblematici: quello del famoso “subsistit in” e quello della collegialità dei vescovi.

Per dare dell’uno e dell’altro un’interpretazione il più possibile in linea con la dottrina tradizionale m’arrampicai sugli specchi. Richiamai immediatamente l’attenzione al valore metafisico del verbo “subsistere” sia per confermare con esso l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa una santa cattolica ed apostolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, sia per neutralizzare sul nascere la visione d’una nuova cattolicità, fondata dai “molteplici elementi di santificazione e di verità” esistenti anche oltre i confini della Chiesa romana. Lezione inascoltata. Non solo i “neoterici”, ma gli stessi commentatori di tutt’altro sentire annuivano alla tesi della cattolicità allargata e non pochi decisamente la sostenevano. Più tardi, quando lo stesso Magistero volle per almeno due volte (3) riaffermare l’identità fra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, si richiamò pure – forse per addolcire la pillola e tacitare le reazioni facilmente prevedibili – al famoso “subsistit in” e non certo in senso restrittivo. Il risultato? Gli acattolici, purtroppo, videro in tutto ciò soltanto il ritorno da “in” del Vaticano II ad “est” della precedente ecclesiologia e se ne lamentarono altamente. Ma un tale lamentato ritorno è una conferma dell’innovazione conciliare circa il concetto e la portata della cattolicità.

Quanto alla collegialità, mi riferisco in particolar modo alle affermazioni di Lumen gentium 22/b, secondo le quali il Romano Pontefice ed il Collegio dei Vescovi hanno sulla Chiesa “piena suprema ed universale potestà”, che tuttavia il Pontefice “può sempre esercitare liberamente”, mentre il Collegio non può “se non consenziente il Romano Pontefice”. Non sfugge all’attenzione del lettore, e soprattutto dello studioso, l’affermazione d’un “a pari” a mala pena temperato. Introdotto da un “subiectum quoque” (è esso pure soggetto) che mette il Collegio sullo stesso piano del Papa, “l’a pari” opera un’insostenibile innovazione rispetto alla struttura piramidale della Chiesa, al concetto di Collegio di per sé sempre composto da membri di pari grado e all’assurdo d’una “potestà piena suprema universale” nelle mani di due distinti titolari. Ad evitare che si movessero al Concilio obiezioni di tale e tanta gravità, escogitai la distinzione tra “quoque” predicativo (oltre a ciò, è anche) e “quoque” reduplicativo (è questo ma è anche altro), negando il reduplicativo a favore del predicativo, cosicché fosse chiaro che il Collegio, nelle forme previste e definite, era “anche” partecipe, col Papa e sotto il Papa, alla piena suprema universale potestà sulla Chiesa, ma non “anch’esso” dotato di tale potestà. La conclusione, pertanto, era quella d’una collegialità intesa quale continuità dei Dodici, sotto la primazialità di Pietro e mai contro o senza di essa. Una continuità, quindi, che fa del Papa, in quanto vescovo, un membro del Collegio, ma che, in quanto vescovo di Roma, cioè in quanto Papa, lo costituisce principio e forma perfettiva del Collegio. Con questa conseguenza: non si danno nella Chiesa due soggetti di pari potestà, ma due esercizi d’una sola e medesima potestà: l’uno del Papa e l’altro del Papa con i Vescovi. i commentatori, tuttavia, ufficiali o no, continuarono e continuano (4) ad enfatizzar una collegialità innovativa e antistorica, agganciandola a precedenti che con essa – ossia con la collegialità da loro declamata – han quasi nulla in comune.

L’innovazione, per lo storico non meno che per il teologo, è evidente. Ed almeno in riferimento a tale innovazione, sia da parte di chi inneggia al Concilio-evento, sia da parte di chi inneggia invece al Concilio-continuità ed evoluzione, non si dicon cose diverse. Resta, peraltro, incontrovertibile la posizione dei “rerum novarum cupidi” che non han mai cessato d’opporre la propria all’interpretazione ufficiale. Disponendo di mezzi ingenti, han potuto affidare la loro volgata del Vaticano II non a qualche bollettino parrocchiale – anche se va detto che in non pochi di questi bollettini, nel quotidiano della Cei ed in quasi tutt’i settimanali cattolici proprio codesta volgata trovò le porte spalancate – bensì a case editrici di grande prestigio e di non inferiore potenza economica.

Ciò che a me, tuttavia, sembrava e sembra inspiegabile, è il modo acritico con il quale dall’una e dall’altra parte si faceva perno sul Vaticano II: lo si giustificava appellandosi ad esso. Non mancava qualcuno – ma era un’eccezione – che andasse alla ricerca delle discussioni preconciliari e di quelle conciliari. Non mancava nemmeno il critico che affondasse le sue ricerche nel terreno della Tradizione e delle fonti. Tuttavia il metodo veramente scientifico o latitava, o era raro. Perfino in alcuni documenti curiali il Concilio vien presentato ed esaltato indipendentemente da una sua analisi storico-scientifica. C’è in ciò una vaga analogia all’Autopistia protestante: un’autogiustificazione intrinseca ai documenti stessi, come se l’esegesi d’un testo conciliare godesse d’una sua immanente evidenza o si risolvesse nella tautologia del medesimo.

Eppure, per un “esegeta” di buona volontà non mancava la possibilità di procedere sulla scorta d’una documentazione sicura. È vero che gli Atti ufficiali del Concilio sono stati integralmente pubblicati in tempi relativamente recenti; ma è anche vero ch’eran disponibili singole documentazioni, ricostruzioni diaristi che, testimonianze di privati, atti delle varie Commissioni. A questo materiale attingevamo a larghe mani, per illustrar dalla cattedra il Concilio ed approfondirne il valore alla luce della Tradizione. Peccato che il metodo critico non sia stato il punto forte dell’esegesi stampata né di quella ufficiale.

A render ancor più ingarbugliata la matassa, prima con una certa cautela, poi, specie in clima voitiliano, sempre più apertamente e spavaldamente, operò il c.d. dialogo ecumenico. Scorrendo i volumi dell’Enchiridion oecumenicum, c’è da spaventarsi: la difesa d’una verità o d’un asserto teologico cattolico sembra, quando c’è, una timida e garbata richiesta di scusa; prevalente è l’aperturismo sempre meno controllato, il cui esito, in nome del Concilio, rivela in non pochi casi il rovesciamento delle posizioni conciliari.

È vero, allora, quanto Mons. Marchetto rimprovera ai progressisti, forse volutamente ignorando che, almeno in parte, anche sul versante opposto qualcuno meriterebbe il medesimo rimprovero: che cioè “la fede e la Chiesa non appaiono più coestensive con la dottrina, la quale non ne costituisce neppure la dimensione più importante… L’adesione alla dottrina e soprattutto ad una singola formulazione dottrinale” ha ormai cessato “d’essere il criterio ultimo per discernere l’appartenenza all’Unam Sanctam”. c’è allora un criterio nuovo? Alberigo l’aveva fatto consistere nel trittico: “fede-comunione-servizio”. Peccato che, d’un siffatto criterio, né il Professore bolognese né i suoi accoliti cogliessero il significato profondo:
* il servizio è comunione in atto, tanto verticale quanto orizzontale;
* la comunioneè un vincolo misterico-sacramentale e giuridico, che trasferisce sul piano della carità fraterna il rapporto personale e sociale con Dio;
* la fede è l’accettazione della rivelazione cristiana quale viene dalla Chiesa proposta a edificazione del singolo e di tutta la compagine cristiana.

Mi chiedo allora se sia davvero questa “la grande guerra del Concilio” e se non sarebbe meglio dire “per” il Concilio. La mia, sia ben chiaro, non è affatto guerra. È adesione alla Fede e fedeltà alla Chiesa.

Note

(1) VIRGILIO, Georgiche, II 489.
(2) LATOURELLE R., Introduzione a AA.VV., Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo, Assisi 1987, p. 14. Al suo confronto ogni altro Concilio, anche il celebratissimo Tridentino, s’annebbia.
(3) Alludo alla Dichiarazione Dominus Jesus del 2000 ed ai cinque quesiti del 2007 “riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”; ma bisognerebbe fermar l’attenzione anche sulla Dichiarazione Mysterium Ecclesiae del 1973, sulla lettera ai vescovi Communionis notio del 1992, nonché alla Costituzione dogmatica Lumen gentium ed ai decreti Unitatis redintegratio Orientalium Ecclesiarum.
(4) Uno degli ultimi, ma non ultimo è KEHL M., Die Kirche. Eine katholische Ekklesiologie, Würzburg 1992.


[Tratto da "Divinitas. Rivista internazionale di ricerca e critica teologica, n.3" (2008), pp. 320 e ss. - Per gentile concessione di Mons. Gherardini]

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