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Croce al centro e comunione in ginocchio: arbitrio o possibilità?
Daniele Di Sorco


Premessa
Tra i cambiamenti introdotti di recente nelle funzioni papali su iniziativa di Benedetto XVI, due sono quelli che hanno suscitato maggior interesse: la collocazione della croce[*] al centro dell’altare e la distribuzione della Comunione ai fedeli inginocchiati [1]. È innegabile che queste scelte, pur riallacciandosi all’antica tradizione liturgica della Chiesa latina, costituiscono una novità, non solo rispetto allo stile celebrativo dei precedenti Pontefici, ma anche rispetto alla prassi comune di quasi tutte le Chiese di rito romano.

Il dibattito che ne è seguito basterebbe da solo a testimoniare l’importanza della questione.

In effetti, la posizione della croce e il modo di amministrare la S. Comunione riguardano direttamente, benché in modo diverso, la duplice dimensione, sacrificale e sacramentale, dell’Eucaristia. La croce con l’immagine del Crocifisso, infatti, è l’elemento che rappresenta visivamente tanto il sacrificio di cui la Messa è rinnovazione incruenta [2], quando lo stretto legame che unisce Cristo, offerente e vittima, al sacerdote che agisce in sua persona [3]. La Comunione, poi, è il momento culminante dell’azione liturgica per quei fedeli che, accostandosi alla sacra mensa, ricevono non solo la grazia sacramentale, ma anche la fonte e l’autore della grazia, Gesù Cristo, realmente presente in corpo, sangue, anima e divinità sotto le specie del pane e del vino [4].

Poiché questi due misteri – la morte redentrice del Cristo e la sua riattualizzazione sacramentale – costituiscono il centro della religione cristiana [5], la loro traduzione sul piano rituale non può essere in alcun modo lasciata al caso o trattata con approssimazione. La necessità dei riti liturgici, come mezzo sensibile per elevare la mente dei fedeli alla contemplazione delle realtà spirituali da essi significate, è stata messa bene in luce dai Padri tridentini [6]. Si tratta di una verità che la Chiesa ha sempre creduto e messo in pratica [7]. Chi la ridimensiona o ne sminuisce la portata dimostra di misconoscere la natura umana, la quale, essendo al tempo stesso sensibile e razionale, «non può elevarsi facilmente senza sussidi esteriori alla meditazione delle cose divine» [8]. E, del resto, l’esperienza insegna che, laddove il culto è oggetto di scarse attenzioni, anche la dottrina non gode sorte migliore.

Ho ritenuto necessario mettere in chiaro questi presupposti perché appaia con tutta evidenza che la discussione sull’opportunità di certe scelte liturgiche non è affatto oziosa, vana o inutile. Dall’efficacia del simbolo dipende la possibilità di elevarsi alla verità che esso rappresenta. Perfettamente consapevole di questo principio, sintetizzato dagli antichi nel celebre adagio «lex orandi, lex credendi», la Chiesa ha sempre prestato la massima attenzione, non solo alla dimensione soprannaturale, ma anche all’aspetto esteriore e sensibile del culto. E l’attuale Pontefice, nei suoi scritti e nella pratica, ha più volte ribadito tale concetto.


La prassi attuale

Tornando ai due elementi rituali che sono oggetto del nostro scritto, è possibile osservare che la prassi oggi prevalente nelle chiese di rito romano prevede che la croce sia collocata a fianco dell’altare o dietro di esso, e che i fedeli ricevano la Comunione stando in piedi. Si tratta, com’è noto, di due significativi cambiamenti rispetto alla normativa vigente nel diritto liturgico antico, che voleva la croce al centro dell’altare e la Comunione distribuita ai fedeli inginocchiati.

Introdotte contestualmente alla promulgazione dei Messale riformato (con qualche ritardo o anticipazione a seconda dei luoghi), le due modifiche in questione furono motivate in vario modo. La croce, in seguito alla nuova dislocazione degli altari prevista (anche se non imposta) dalla riforma liturgica, veniva evidentemente considerata un ostacolo che impediva al celebrante e al popolo di guardarsi. Quanto alla Comunione, la possibilità di riceverla in piedi fu giustificata col ripristino di un uso arcaico, ancora osservato in molti riti orientali, che avrebbe avuto, secondo i riformatori, il vantaggio di incentivare la partecipazione attiva e cosciente dei fedeli al sacro rito [9]. Una diffusa tendenza a considerare vincolanti certe indicazioni puramente facoltative ha fatto sì che tali riforme entrassero nella pratica generale.

È noto che da qualche tempo il maestro delle cerimonie pontificie ha ripristinato, per questi due elementi, l’uso antico [10]. Tale decisione ha suscitato reazioni di segno opposto. Alcuni l’hanno giudicata positivamente e hanno auspicato una sua più larga diffusione nelle chiese locali. Per altri, invece, si tratta di una «moda» passeggera, frutto di idee personali del Papa e destinata a non durare a lungo.

Nonostante la divergenza di opinioni, sembra che tanto i primi quanto i secondi si accordino su un punto: la mancanza di idee chiare circa la compatibilità dell’uso antico con le norme liturgiche universali attualmente in vigore. La domanda che molti si pongono può essere così sintetizzata: la prassi introdotta di recente nella cappella papale va considerata una deroga alle leggi generali – consentita al Papa in quanto supremo legislatore, ma non agli altri – oppure una legittima possibilità contemplata dai libri liturgici?

Stante questa situazione di incertezza, ci proponiamo, col presente articolo, di dare uno sguardo al diritto liturgico in vigore per quanto riguarda la posizione della croce e il modo di amministrare la Comunione, di spiegare le ragioni in favore dell’uso antico e, infine, di fornire alcune indicazioni pratiche. Inutile dire che la nostra trattazione si riferisce soltanto alla forma ordinaria del rito romano: nella forma straordinaria la croce dev’essere sempre situata al centro dell’altare [11] e la Comunione ricevuta in ginocchio [12].


Il diritto liturgico

Per quanto riguarda la posizione della croce, l’Ordinamento generale del Messale romano ci fornisce tutte le indicazioni necessarie. Sarà, quindi, sufficiente elencarle, spiegarle e trarne le logiche conseguenze.

Innanzi tutto, la croce è annoverata tra le suppellettili indispensabili per la celebrazione della Messa, non solo all’interno di un luogo sacro, ma anche fuori di esso: «La celebrazione dell’Eucaristia, nel luogo sacro, si deve compiere sopra un altare; fuori del luogo sacro, invece, si può compiere anche sopra un tavolo adatto, purché vi siano sempre una tovaglia e il corporale, la croce e i candelabri» [13].

Alla sua importanza sul piano simbolico si allude nella rubrica precedente, affermando che sull’altare «si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce» [14]. Più oltre si legge che la funzione della croce consiste nel «ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del Signore» [15]: essa, pertanto, dovrebbe restare «vicino all’altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche» [16]. Del resto, se pensiamo che nella tradizione ecclesiastica, tanto occidentale quanto orientale, l’altare rappresenta simbolicamente Gesù Cristo [17], non sarà difficile comprendere che la croce posta sopra di esso assolve l’indispensabile compito di rendere esplicita tale corrispondenza.

Quanto alle caratteristiche e alla posizione della croce, l’Ordinamento generale prescrive: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato» [18]. Collocare la croce sopra l’altare è, dunque, perfettamente legittimo. Ma si può dire di più. Poiché, nella formulazione delle leggi liturgiche, le possibilità alternative vengono di solito disposte in ordine di preferenza, sembra che la dislocazione della croce sopra l’altare sia non soltanto permessa, ma, a parità di condizioni, raccomandata.

Le rubriche non forniscono nessuna indicazione, neppure indiretta, circa il punto preciso dell’altare sul quale dovrebbe trovarsi la croce. La scelta, quindi, spetta ai rettori delle singole chiese. E nulla impedisce loro di conformarsi all’uso antico che prevede la collocazione della croce al centro, davanti al sacerdote celebrante, a condizione che le altre disposizioni stabilite dalle rubriche siano rispettate.

Chiarita la questione della croce, resta da trattare quella della Comunione. Sull’argomento, il testo italiano dell’Ordinamento generale non brilla per perspicuità. In esso si afferma che «i fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi, come stabilito dalla Conferenza Episcopale» [19]. Viene spontanea una domanda: la congiunzione «o» ha valore esclusivo o inclusivo? Nel primo caso i fedeli dovrebbero adeguarsi all’unica modalità prescritta dalla Conferenza Episcopale, mentre nel secondo entrambe le modalità sarebbero possibili, a patto che la Conferenza Episcopale abbia autorizzato la Comunione in piedi.

Per avere una risposta sicura è necessario ricorrere al testo latino, nel quale il termine corrispondente ad «o» è «vel» (inclusivo) [20]. Ne consegue che, secondo il diritto liturgico oggi vigente, ricevere la Comunione in ginocchio non è affatto proibito, neppure nei luoghi in cui la Conferenza Episcopale ha autorizzato la Comunione in piedi, ma si configura, per lo meno, come legittima possibilità.

Bisogna ammettere, tuttavia, che, per come è esposta nelle rubriche del Messale italiano, la norma che abbiamo appena analizzato si presta a numerosi fraintendimenti, dal momento che la sua corretta interpretazione è legata a una sottigliezza linguistica. Molti, in effetti, ritengono in buona fede che la Comunione in piedi, nei paesi in cui è stata autorizzata, sia un obbligo a cui tutti i fedeli devono attenersi. Queste incertezze hanno dato luogo a diverse situazioni incresciose. Appare dunque indispensabile ricorrere ad altre fonti del diritto liturgico nelle quali il problema in esame sia affrontato ex professo e, quel che più conta, con maggior chiarezza.

Per nostra fortuna, esistono due documenti della S. Congregazione per il Culto Divino che consentono di risolvere la questione in modo definitivo.

Si tratta di due lettere del 1° luglio 2002, invitate, rispettivamente, a un Vescovo e a un laico [21]. Costoro, di fronte al fenomeno di alcuni sacerdoti che erano soliti negare la Comunione a chi si presentava a riceverla in ginocchio, si domandavano se tale atteggiamento fosse lecito. In entrambe le risposte, la Congregazione, dopo aver dichiarato che «qualsiasi rifiuto della Santa Comunione ad un fedele sulla base del suo modo di presentarsi sia una grave violazione di uno dei più fondamentali diritti del fedele cristiano, precisamente quello di essere assistito dai suoi Pastori per mezzo dei Sacramenti (CIC 213)», coglie l’occasione per precisare il senso della rubrica sopra esaminata: «Anche ove la Congregazione abbia approvato norme sulla posizione del fedele durante la Santa Comunione, in accordo con gli adeguamenti ammessi alla Conferenza Episcopale dall’Institutio Generalis Missalis Romani, 160, comma 2, ciò è stato fatto colla clausola per cui su tale base non si potrà negare la Santa Comunione ai comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi».

Confrontando queste disposizioni con l’Ordinamento generale del Messale, si possono trarre due conclusioni che riassumono in sé tutta la normativa attuale in materia. Primo, la distribuzione della santa Eucaristia ai fedeli inginocchiati è una prassi del tutto legittima. Secondo, spetta al singolo fedele, senza bisogno di previo accordo col celebrante (salvo ragioni particolari), scegliere la posizione che preferisce: la Congregazione parla infatti di «comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi» [22].

Da tutto ciò emerge che ricevere la Comunione in ginocchio non è semplicemente una legittima possibilità, ma un vero e proprio diritto di ciascun fedele, che nessun sacerdote può negare, limitare o ignorare [23].


Ragioni a favore dell’uso antico

Abbiamo fin qui cercato di rispondere alla domanda che dà il titolo al presente articolo. Prima di concludere con alcune indicazioni pratiche, resta da vedere se questo uso antico, di cui abbiamo dimostrato la legittimità giuridica, offra anche dei vantaggi a livello liturgico e pastorale rispetto alla prassi comune.

A proposito della posizione della croce, il card. Ratzinger osserva: «Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme lui, il trafitto (Zc 12, 10; Ap 1, 7)» [24]. E motiva la sua proposta con argomenti che a me paiono molto convincenti:

«Nella preghiera non è necessario, non è anzi nemmeno conveniente, guardarsi l’uno con l’altro, e tanto meno nel ricevere la comunione. [...] In un uso esagerato e malinteso della “celebrazione rivolta al popolo” si è continuato a rimuovere la croce dal mezzo dell’altare perfino nella basilica di San Pietro a Roma, per non ostacolare la visuale tra il celebrante e il popolo. La croce sull’altare non è però un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento. Essa è l’iconostasi, che è scoperta, non ostacola l’andare l’uno verso l’altro, ma media e significa pure per tutti l’immagine che concentra e unisce i nostri sguardi. Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione “versus populum”. Diverrebbe così nuovamente ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell’annuncio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione “conversi ad Dominum”: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore» [25].

Mi limito ad aggiungere che, per costituire veramente un «punto comune di riferimento», la croce ha bisogno di essere collocata non solo sull’altare, ma anche in posizione centrale. Al centro della mensa eucaristica, l’immagine di Cristo crocifisso attira necessariamente su di sé lo sguardo, assolvendo bene la sua funzione simbolica; a lato dell’altare, per grande che sia, finisce per essere praticamente ignorata.

Per quanto riguarda la Comunione, riceverla in ginocchio, a mio avviso, favorisce nei fedeli un atteggiamento di maggior devozione, esprime in maniera visibile l’adorazione nei confronti di nostro Signore e costituisce una pubblica manifestazione di fede nella presenza reale [26]. A chi obietta che la disposizione interiore del comunicando non dipende dallo stare in ginocchio piuttosto che in piedi, rispondo che una delle funzioni del rito è appunto quella stimolare la pietà dei fedeli mediante un saggio uso dei segni esteriori che ci vengono offerti dalla nostra tradizione liturgica. E se è vero che, presa in se stessa, la posizione in piedi non esprime meno devozione di quella in ginocchio, è anche vero che, in una prospettiva storica, questo si verifica. La ragione è assai semplice. I riti non si limitano ad essere rivestimenti esteriori dell’immutabile Sacrificio dell’altare, ma plasmano la mentalità dei fedeli e, con essa, il loro sensus fidei [27].

Così, se per un orientale ricevere la Comunione in piedi è un atto di massima riverenza, perché così gli ha tramandato la sua tradizione, per un occidentale, abituato da secoli a riceverla in ginocchio, passare improvvisamente da un atto di riverenza maggiore a uno minore non è indifferente. Nel migliore dei casi un simile cambiamento si limita a produrre un’impressione di disagio o di confusione. Nel peggiore indebolisce la fede nella Presenza Reale.

Non è un caso, dunque, che il card. Ratzinger si sia espresso a favore di questa pratica, scrivendo che essa «ha in suo favore una tradizione secolare, ed è un segno particolarmente eloquente di adorazione, completamente adeguato alla luce della presenza vera, reale e sostanziale di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» [28].

Per concludere, mi sembra opportuno rilevare come, nei due casi presi in esame, il ripristino dell’uso antico non si configura affatto come una sterile operazione di archeologia liturgica o di antichizzazione del rito. Si tratta, piuttosto, di un’iniziativa che prende le mosse da un principio tanto evidente quanto trascurato: quando le rubriche ammettono diverse possibilità, la prassi più comune non è necessariamente la migliore. I singoli pastori di anime dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia pastorale delle scelte liturgiche da essi operate, senza avere timore, se le norme lo consentono, di adottare una soluzione diversa. Il popolo, dopo un’opportuna catechesi, capirà e apprezzerà.


Indicazioni pratiche


Concludiamo il presente contributo con una serie di indicazioni utili per tradurre in pratica i princìpi teorici finora esposti.

1) Per la croce è preferibile servirsi del modello generalmente in uso prima della riforma liturgica, composto da una base, da un’alzata e dalla croce propriamente detta con l’immagine del Crocifisso. Esso consente di collocarla sull’altare senza bisogno di piedistalli inutili e poco decorosi, e di rimuoverla facilmente quando sia necessario. Quanto alle dimensioni, si ricordi che la rubrica prescrive una croce «ben visibile allo sguardo del popolo radunato» [29] ed anche, naturalmente, del sacerdote celebrante. Sarebbe bene, a mio avviso, che arrivasse più o meno all’altezza del volto del celebrante. In questo modo fungerebbe davvero da fulcro visivo della funzione, verso cui convergono gli sguardi di tutti, e, al tempo stesso, non impedirebbe al popolo la vista dell’altare e in particolare delle sacre Specie durante l’elevazione. Quando l’altare è versus populum, da che parte dev’essere rivolta l’immagine del Crocifisso? Le rubriche non lo specificano, poiché l’indicazione sulla visibilità appena citata si riferisce genericamente alla croce, non specificamente all’immagine del Cristo morente. Varie ragioni consigliano che il Crocifisso sia rivolto al celebrante. Così, infatti, voleva la tradizione antica [30] e così appare meglio, a mio avviso, lo speciale legame che esiste tra il Cristo raffigurato sulla croce d’altare e il sacerdote che agisce in sua persona. Tale soluzione, del resto, è quella adottata dal Santo Padre nelle funzioni da lui presiedute [31].

2) Avendo parlato del Crocifisso, è impossibile non dire nulla a proposito dei candelieri. Com’è evidente, essi non hanno più da molto tempo la funzione pratica di dar luce all’altare, ma conservano intatto il loro valore simbolico, che allude, con la fiamma, a Cristo luce del mondo, e, con la consumazione della cera, al sacrificio [32]. Si capisce, dunque, che relegarli in un angolo dell’altare (o addirittura fuori da esso), appaiati, piccoli, quasi invisibili, ha poco senso. Molto meglio sarebbe collocarli simmetricamente da una parte e dall’altra della croce [33], cui il loro simbolismo è strettamente connesso: non necessariamente accanto ad essa, ma anche, e preferibilmente, alle estremità laterali dell’altare, quasi a fare da cornice luminosa alla mensa divina. Quanti devono essere? La rubrica ne prescrive almeno due, ma nulla impedisce che siano quattro o sei [34] (sempre in numero pari, per ragioni di simmetria rispetto alla croce); non di più [35], quando l’altare è versus populum, e non troppo alti, per evitare, come ammoniscono le norme, che ostacolino eccessivamente la vista [36].

3) La Comunione può essere distribuita alla balaustra nelle chiese che ancora la conservano? Non credo vi sia nessun ostacolo a questa soluzione. La rubrica, infatti, ordina che i fedeli si rechino all’altare processionalmente [37]; ma non vieta che, una volta giunti davanti ad esso, si dispongano lungo la balaustra. Tuttavia, per chi non potesse o non volesse adottare questo sistema, è consigliabile disporre, all’entrata del presbiterio, un inginocchiatoio piuttosto grande, ricoperto di cuscini, che consenta ai fedeli che intendono comunicarsi in ginocchio di poterlo fare agevolmente. Conviene che la balaustra o la parte superiore dell’inginocchiatoio siano ricoperti, come avveniva anticamente, da una tovaglietta bianca [38], che alluda al loro uso come «tavola della Comunione» dei fedeli, simbolico prolungamento dell’altare [39]. Questa tovaglia non esime dall’uso, obbligatorio, del piattello [40]. Si ricordi che la scelta sul modo di fare la Comunione spetta al singolo fedele; pertanto, la distribuzione dell’Eucaristia alla balaustra o all’inginocchiatoio non deve costituire un impedimento per coloro che vorranno continuare a riceverla in piedi. È compito del celebrante ricordare nei momenti opportuni, sia durante la liturgia che negli incontri di catechesi, la possibilità di comunicarsi in ginocchio e le ragioni a favore di tale scelta, senza tuttavia trasformarla, esplicitamente o implicitamente, in un obbligo.

4) È necessario ricordare, infine, che l’ordinamento delle norme liturgiche universali, come quelle che riguardano la posizione della croce o il modo di ricevere la Comunione, compete unicamente alla Santa Sede [41]. Le Conferenze Episcopali e i singoli Ordinari non hanno la facoltà di abrogarle, modificarle o restringerne il senso, a meno che ciò non sia loro espressamente consentito dal diritto [42] (nel caso da noi preso in esame, alle autorità locali è concessa soltanto la possibilità di autorizzare la Comunione in piedi). Di conseguenza, laddove le rubriche ammettono diverse possibilità, la scelta spetta al sacerdote celebrante o, quando previsto, al fedele.

Note

[1] Cfr. Intervista a mons. Guido Marini: Il Tempo, 29 dic. 2008. Il Papa, quando era ancora Cardinale, ha affrontato più volte l’argomento nei suoi scritti, esprimendosi a favore della collocazione centrale della croce e della possibilità di ricevere la Comunione in ginocchio.
[2] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 1-2: Denz. 938-940; can. 1-4: Denz. 948-951.
[3] Cfr. PIO XI, Enciclica Ad catholici sacerdotii (20 dic. 1935): Denz. 2275; PIO XII, Enciclica Mediator Dei (20 nov. 1947): Denz. 2300; Catechismo della Chiesa cattolica, 1566.
[4] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XIII, cap. 1 e 3: Denz. 874 e 876; can. 1 e 4: Denz. 883 e 886; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., III, q. 65, a. 3.
[5] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 11; GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 apr. 2003), 1.
[6] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 5: Denz. 943.
[7] Cfr. Rom. 1, 20; TERTULLIANO, De corona, c. 2, 3, 4: PL 2, 98-99; S. BASILIO MAGNO, De Spiritu Sancto, 27, 66: PG 32, 188; S. GIROLAMO, Ad Vigilantium, nn. 8-9: PL 23, 362-363; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., II-II, q. 81, a. 7. La definizione dogmatica risale al CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, can. 7: Denz. 954: «Si quis dixerit, caeremonias, vestes sacras et externa signa, quibus in Missarum celebratione Ecclesia catholica utitur, irritabula impietatis esse magis quam officia pietatis: anathema sit».
[8] CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 5: Denz. 943 («non facile queat [natura hominum] sine adminiculis exterioribus ad rerum divinarum meditationem sustolli»). Cfr. S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., II-II, q. 81, a. 7: «Mens autem humana indiget, ad hoc quod coniungatur Deo, sensibilium manuducatione, quia “invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspiciuntur”, ut Apostolus dicit (Rom. 1, 20). Et ideo in divino cultu necesse est aliquibus corporalibus uti, ut eis quasi signis quibusdam mens hominis excitetur ad spirituales actus, quibus Deo coniungitur. Et ideo religio habet quidem interiores actus quasi principales, et per se ad religionem pertinentes; exteriores vero actus, quasi secundarios, et ad interiores actus ordinatos».
[9] Cfr. A. M. ROGUET, La cena del Signore: la Messa oggi, trad. it., Milano, 1970, p. 170.
[10] Cfr. Intervista a mons. Guido Marini: Il Tempo, 29 dic. 2008: «Il cambiamento è diversificato. Uno è stata la collocazione del crocifisso al centro dell’altare per indicare che il celebrante e l’assemblea dei fedeli non si guardano, ma insieme guardano verso il Signore che è il centro della loro preghiera. L’altro aspetto è la comunione data in ginocchio dal Santo Padre e distribuita in bocca. Ciò per mettere in evidenza la dimensione del mistero, la presenza viva di Gesù nella Santissima Eucarestia. Anche l’atteggiamento, la postura sono importanti perché aiutano l’adorazione e la devozione dei fedeli».
[11] Missale Romanum, editio typica 1962, Rubricae generales Missalis romani, 527.
[12] Rituale Romanum (editio prima post typicam, 1954), tit. V, cap. II, n. 4. Sebbene la rubrica che prescrive la genuflessione riguardi direttamente solo i chierici, essa si applica, per evidente analogia, anche ai laici.
[13] Ordinamento generale del Messale romano, terza edizione tipica, 297. Si noti che la terza edizione tipica italiana del Messale romano, il cui testo latino è stato pubblicato nel 2000, è ancora in fase di allestimento. Esiste però una versione ufficiale, approvata il 25 gennaio 2004, della Institutio generalis (= Ordinamento generale), che è quella attualmente vigente, nonostante i messali attualmente in commercio nel nostro Paese seguano ancora la seconda edizione tipica.
[14] Ibid., 296.
[15] Ibid., 308.
[16] Ibid.
[17] Cfr. P. RADÓ, Enchiridion liturgicum, Romae-Friburgi Brisg.-Barcinone, 1961, vol. II, pp. 1408-1409.
[18] Ordinamento generale del Messale romano, 308.
[19] Ibid., 160.
[20] Missale Romanum, ed. typica tertia (2000), Institutio generalis, 160: «Fideles communicant genuflexi vel stantes, prout Conferentia Episcoporum statuerit».
[21] Pubblicate in Notitiae, nov.-dic. 2002.
[22] Ibid. A proposito della Comunione in piedi, è opportuno ricordare qui una norma spesso disattesa: «Quando [i fedeli] si comunicano stando in piedi, si raccomanda che, prima di ricevere il Sacramento, facciano la debita riverenza, da stabilire dalle stesse norme [emanate dalla Conferenza Episcopale]» (Ordinamento generale del Messale romano, 160).
[23] È la stessa Congregazione per il Culto divino, in una delle due lettere menzionate, a mettere bene in luce questo punto: «Datasi l’importanza di tale questione, la Congregazione vorrebbe richiedere alla vostra Eccellenza che s’indaghi specificamente se questo prete abbia effettivamente l’abitudine di rifiutare la Santa Comunione a qualsiasi fedele nelle suddescritte circostanze; e, se la lamentela è comprovata, sia fermamente istruito a lui e ad altri preti che possano aver avuto una tale abitudine di evitare simili comportamenti per il futuro».
[24] J. RATZINGER, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Milano, 1984, pp. 129-136.
[25] Ibid.
[26] Per sottolineare meglio l’importanza degli atti esteriori come manifestazione efficace della fede, non sarà inutile ricordare un significativo episodio della vita di S. Elisabetta Anna Bayley Seton. Assistendo per caso a una Messa solenne nel santuario di Montenero (presso Livorno), la Santa, pur essendo ancora protestante, fu molto colpita dall’atteggiamento di devozione manifestato dai fedeli, tanto che ella stessa, intuendo il mistero della Presenza Reale (come avrebbe poi ammesso nei suoi scritti), si inginocchiò dinanzi all’altare. Si trattò della prima tappa di un percorso che l’avrebbe condotta ad avvicinarsi e poi a convertirsi al cattolicesimo.
[27] È questo, del resto, il senso autentico dell’adagio «lex orandi, lex credendi», messo bene in luce da PIO XI nella Costituzione Apostolica Divini cultus (20 dic. 1925): Denz. 2200: «Hinc intima quaedam necessitudo inter dogma et Liturgiam sacram, itemque inter cultum christianum et populi sanctificationem».
[28] Cit. nella Lettera della Congregazione per il Culto Divino sul diritto di ricevere la Comunione in ginocchio: Notitiae, nov.-dic. 2002.
[29] Ordinamento generale del Messale romano, 308.
[30] Cfr. Dizionario pratico di Liturgia romana, a cura di R. LESAGE, trad. it., Roma, 1956, p. 138.
[31] Non sarebbe meglio, osserveranno alcuni, che il Crocifisso della croce d’altare fosse rivolto non solo verso il celebrante (e i ministri dell’altare), ma anche verso i fedeli? Certamente sì. Tale condizione, però, è realizzabile solo in quelle rare chiese dove si è mantenuta la prassi (perfettamente legittima: cfr. Risposta della Congregazione per il Culto Divino, prot. n° 2036/00/L, 25 settembre 2000) di celebrare verso l’abside. Nelle altre, a meno che non si voglia dotare la croce d’altare di un Crocifisso su entrambi i lati (soluzione che a me pare poco conveniente) si impone una scelta. La migliore, a mio avviso, consiste nel tenere l’immagine del Cristo morente rivolta verso il celebrante, per le ragioni che ho esposto. Nulla impedisce, tuttavia, di collocare nell’abside – come pala d’altare o a completamento della pala già esistente – un’altra croce con Crocifisso rivolta verso i fedeli, in posizione centrale ed elevata. Questa soluzione trova un parziale riscontro nell’architettura tradizionale delle chiese valdostane, dove, sebbene la croce d’altare fosse visibile ai fedeli (poiché la celebrazione avveniva versus Deum), si era soliti collocare un Crocifisso di grandi dimensioni in alto, tra la navata e l’abside.
[32] Cfr. P. RADÓ, op. cit., vol. I, pp. 73-74.
[33] Così prevedevano (e prevedono ancora, per le celebrazioni nella forma straordinaria del rito romano) le norme in vigore prima della riforma liturgica postconciliare: cfr. Missale Romanum, editio typica 1962, Rubricae generales Missalis romani, 527.
[34] Ordinamento generale del Messale romano, 117: «almeno due candelabri con i ceri accesi, o anche quattro o sei, specialmente se si tratta della Messa domenicale o festiva di precetto». Per la Messa «stazionale» del Vescovo diocesano il Caeremoniale Episcoporum (125 c) raccomanda di usare sette candelieri.
[35] Salvo nel caso della Messa «stazionale» del Vescovo diocesano: cfr. la nota precedente.
[36] Secondo l’Ordinamento generale del Messale romano, 117, i candelieri non devono impedire «ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare».
[37] Ordinamento generale del Messale romano, 160: «Poi il sacerdote prende la patena o la pisside e si reca dai comunicandi, che normalmente si avvicinano processionalmente».
[38] Rituale Romanum (editio prima post typicam, 1954), tit. V, cap. II, n. 1.
[39] Cfr. Enciclopedia liturgica, a cura di R. AIGRAIN, trad. it., Alba, 1959, p. 204
[40] S. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Istruzione Redemptionis Sacramentum (25 marzo 2004), 93.
[41] Codex Iuris canonici, can. 838, § 2.
[42] Ibid., §§ 3-4.
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[*] Dall'amico Daniele autore dell'articolo di apertura:

A proposito della presenza della croce sull'altare, è interessante riportare ciò che scrisse Benedetto XIV nell'enciclica Accepimus praestantium (16 luglio 1746):

"Noi stessi abbiamo parlato di questa vecchia usanza di collocare la croce sull'altare, quando si compie il rito sacro, nei Nostri scritti Sul sacrificio della Messa, che da Noi sono stati composti in italiano; molti poi ne abbiamo aggiunti, quando gli stessi, tradotti in latino, sono stati pubblicati una seconda volta.

A questi aggiungiamo anche che, soprattutto a motivo dell’antichità di questa usanza, una grandissima devozione è stata sempre dedicata alla croce, la quale è collocata al centro dell'altare quando si celebra la Messa; gli stessi rinnovatori più ostili hanno avuto grande paura ad allontanarla dal centro, quando consacrano l'Eucaristia; di ciò è testimone il Gretser nel suo Trattato sulla Croce, al cap. 13, tomo I di quell'edizione, che alla fine è stata stampata.

In verità, se osserviamo l'usanza degli orientali, i Greci hanno stabilito di porre presso la porta principale del santuario, da entrambi i lati, le immagini di Cristo Signore e della Beata Vergine, e sopra l'altare la croce assieme al libro dei santi Vangeli.

Nella liturgia copto-araba, che, desunta dai manoscritti Codici Vaticani, è stata stampata nell'anno 1736 nel Collegio Urbano della Propaganda Fide, a p. 33 si prescrive al sacerdote celebrante di impartire al popolo la benedizione con la croce, che poi la baci e che la porga ad un diacono, perché la collochi sopra l’altare.

Infine il rito siriano dei Maroniti stabilisce precisamente le stesse disposizioni che abbiamo indicato più sopra e che sono prescritte nelle Rubriche del Messale Romano. Infatti il Patriarca Stefano così scrive: "Codesta usanza si sviluppò in tutte le Chiese, così che il simbolo della salutifera croce è posto sopra l'altare" (libro 2, trattato 2, 4).

Anche il Sinodo nazionale, che è stato convocato nell’anno 1736 sul monte Libano e che Noi stessi abbiamo convalidato con la Lettera apostolica Sulla sacrosanta Messa, così stabilisce: "Sull'altare sia collocata, nel mezzo, la croce; ai suoi lati, almeno due candelabri con le candele accese, da una parte e dall'altra" (§ 2, cap. 13)".

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