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Istanze ecumeniche del Vaticano II ambiguamente applicate, che sono alla radice delle ambiguità e degli sviamenti dalla retta fede nella Chiesa cattolica

Gli autori progressisti, riguardo alla Messa di Paolo VI, cercano di dimostrare che la Nuova Messa non è eretica rispetto alla tradizionale dottrina cattolica, ma solo "ecumenica", nel senso che sono state limate alcune parti della dottrina tradizionale per venire incontro ai protestanti. Ebbene, se anche essi avessero ragione, emergono dal testo proprio le profonde ambiguità che consentono ai neocatecumenali di portare avanti le loro tesi deliranti, ad esempio sulla Messa come sacrificio, sul sacerdote che agisce in persona Christi, sulla Presenza Reale come transusanziazione... tutto ciò che costituisce la sana dottrina cattolica come è stata definita da Trento in poi è stato reso ambiguo necessitando in seguito perfino di modifiche successive. Il capitolo più penoso è quello sulla Presenza Reale, dove le ambiguità e le successive correzioni sono a dir poco scandalose. E ci chiediamo da dove vengono le eresie e le ambiguità che imperano nei movimenti MA ANCHE NEGLI ORDINI RELIGIOSI, fra i sacerdoti e fra i prelati? Lo scisma strisciante è nato proprio da queste ambiguità, qualcuno forse voleva veramente in buona fede avvicinare i protestanti, ma il risultato dell'operazione è stato un allontanamento di buona parte dei cattolici dalla retta dottrina. È terribile, le cose che si sentono dire anche in alcuni monasteri, la Parola come sacramento, la presenza nella Parola (e avrete presente il velomerale neocatecumenale... e per giustificare questo "sola scriptura" si cita in questo testo addirittura S. Roberto Bellarmino!!!), l'intercomunione coi protestanti in barba a Sacramentum caritatis, al nuovo codice di diritto canonico e alla Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo... Tutto questo ha la sua genesi nell'ecumenismo scriteriato del Vaticano II espresso anche nelle mega-ambiguità dell' Institutio Generalis Missalis Romani (IGMR).

Riportiamo un passaggio dal testo che è "Novus Ordo Missae e Fede Cattolica" di Piero Cantoni, del 1988, che per difendere il Novus Ordo non ha neppure gli specchi sui quali salire. Ci auguriamo che il Papa dia il via libera alla S. Messa di S. Pio V (che qualche superprogressista già indica come eretica perché non in linea col Vaticano II). Che il Signore ci perdoni.

NOVUS ORDO MISSAE E PRESENZA REALE

ABBREVIAZIONI

AAS = Acta Apostolicae Sedis (Roma 1909 ss.).

DS = Denziger-Schoenmetzer, Enchiridion Symbolorum Definitio­num et Declarationum de rebus fidei et morum (Herder, 1973).

DThC = Dictionnaire de théologie catholique (Parigi 1930 ss.).

EM = Instructio Eucharisticum mysterium de cultu mysterii eucharistici, 25 maggio 1967.

EV = Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali del Concilio Vaticano II e della Santa Sede 1962-1981. Testo ufficiale e versione italiana. Sette volumi finora usciti (Ed. Dehoniane, Bologna 1966-1982).

FdC = Neuner – Roos – Rahner, La Fede della Chiesa nei documenti del magistero ecclesiastico (Studium, Roma 1967).

IGMR = Institutio generalis Missalis Romani.

LG = Constitutio dogmatica Lumen gentium de Ecclesia.

MF = Lettera enciclica Mysterium fidei de doctrina et cultu ss. Eucharistiae, 3 settembre 1965.

NOM = Novus ordo missae.

PO = Decretum Presbyterorum ordinis de Presbyterorum ministerio et vita.

SC = Constitutio Sacrosanctum concilium de sacra liturgia.

UR = Decretum Unitatis redintegratio de oecumenismo.

W = Weimarana. Edizione critica delle opere di Lutero.

Come ha affermato recentemente il Papa, il Concilio di Trento ha richiamato e interpretato «con autorità definitiva le parole espresse da Gesù sia nel discorso del Pane di Vita (Gv c. 6) sia nell'ultima Cena»[i].

Il dogma tridentino della presenza reale si articola in tre punti:

  1. La presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo sotto le specie del pane e del vino;
  2. L'assenza della sostanza del pane e del vino sotto le specie sacramentali;
  3. La presenza del corpo e del sangue di Cristo e l'assenza del pane e del vino si spiegano con la conversione totale della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù.

Il Tridentino afferma che questa «mirabile conversione» è stata rettamente denominata dalla Chiesa «transustanziazione». La definizione porta dunque sul fatto della conversione totale, non sul termine in se stesso. Questo termine però la Chiesa lo considera indispensabile per la preservazione del dogma. Non si può quindi rifiutarlo senza attentare, almeno indirettamente, all'integrità del dogma e all'infallibilità e santità della Chiesa[ii].

Questo terzo punto è sempre stato considerato particolarmente importante. Lo testimonia soprattutto[iii] l'episodio del Sinodo di Pistoia.

Dal 18 al 28 settembre 1786 il vescovo di Pistoia Scipione Ricci convocò un sinodo diocesano in cui furono emanati decreti di riforma orientati in senso decisamente giansenistico. Nel 1794, il Papa Pio VI intervenne condannando 85 proposizioni estratte da questi decreti. La proposizione 29 riguarda il dogma della presenza reale e condanna l'omissione del termine «transustanziazione». Il sinodo aveva formulato una dottrina eucaristica esatta in ciò che enunciava positivamente. Anziché però parlare di «conversione» si limitava ad affermare la cessazione del pane e del vino per lasciar posto alla presenza di Cristo.

«La dottrina del Sinodo nella parte in cui intende insegnare la dottrina della fede sul rito della consacrazione, che lascia da parte le questioni scolastiche sul modo per cui Cristo è nell'Eucaristia, da cui il parroco è esortato ad astenersi, e proporre soltanto questi due punti: 1) Cristo dopo la consacrazione è veramente, realmente, sostanzialmente presente sotto le specie; 2) allora cessa ogni sostanza del pane e del vino e rimangono solo le specie, omettendo completamente di far menzione della transustanziazione (cioè della conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel sangue, che il Concilio di Trento aveva definito come articolo di fede e che è contenuta nella solenne professione di fede [dello stesso Concilio]); in quanto, a causa di questa inconsulta e sospetta omissione, non dà conoscenza sia dell'articolo di fede, sia anche del termine consacrato dalla Chiesa per garantirne la professione contro gli eretici, e tende perciò ad indurre alla sua dimenticanza, quasi che si tratti di una questione soltanto scolastica: – pericolosa, manchevole quanto all'esposizione della verità cattolica sul dogma della transustanziazione, favorevole agli eretici» (DS 2629).

La prassi di omettere nella predicazione, quando si spiega la presenza reale, il punto di dottrina riguardante il modo della sua realizzazione, cioè la «conversione totale», nonché l'omissione di quel termine che la Chiesa indica come adatto per designarla è considerata da Pio VI pericolosa per la fede. Al di là del punto specifico, questa prassi continua ad essere stigmatizzata anche oggi dalla Chiesa. L'ecumenismo non deve significare, secondo il pensiero ufficiale della Chiesa espresso nei documenti del Vaticano II, omissione dei punti di dottrina controversi: «Bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutta intera la dottrina. Niente è più alieno dall'ecumenismo, quanto quel falso irenismo, dal quale ne viene a soffrire la purezza della dottrina cattolica e ne viene oscurato il suo senso genuino e preciso» (Unitatis redintegratio, n. 11: EV 1, 534). L'ecumenismo riguarda piuttosto il «modo» con cui esporre la dottrina: «con più profondità ed esattezza» (Ibid.: 535); «con amore della verità, con carità e umiltà» (Ibid.: 536), cioè evitando le spigolosità polemiche gratuite e le terminologie che aggravano inutilmente le differenze. Si tratterà cioè di aver riguardo alla «gerarchia nelle verità» (Ibidem): cioè al fatto che non tutte le verità hanno la stessa importanza[iv]. Questo però sempre nell'adesione a tutta la verità e nella professione di tutta intera la verità.

L'«ecumenismo per omissione» non si giustifica (così come non si giustifica una «catechesi per omissione»[v] (5)...).

Dobbiamo considerare anche il nostro testo (IGMR) come affetto da un tale ecumenismo distorto?

Xavier da Silveira[vi] rivolge ad esso, dallo specifico punto di vista del dogma della presenza reale, tre accuse:

  1. Le espressioni «presenza reale» e «transustanziazione» sono assenti nell'edizione del '69.

  2. Il passo di Mt 18, 20 «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro», che si riferisce senz'altro alla presenza morale di Cristo in mezzo ai suoi, nel n. 7 è applicato, senz'altra spiegazione, alla presenza di Cristo nell'eucaristia, che è presenza sostanziale.

  3. Il testo parla con insistenza di «presenza» di Cristo oltre a quella eucaristica.

L'accusa più grave è quella del punto «a» che concerne una grave omissione. Anticipando le conclusioni, diciamo che la dobbiamo senz'altro rilevare e, in una certa misura, anche deprecare. Nello stesso tempo però, consideriamo anche due cose: 1) L'eventuale errore di omissione è stato corretto nella versione del '70, che è quella definitiva; 2) Entrambe le versioni si muovono in un contesto magisteriale che riafferma vigorosamente la dottrina della «transustanziazione» (la Mysterium fidei è dello stesso Paolo VI che ha promulgato l'IGMR). Un esatto parallelo con il caso del sinodo di Pistoia non è dunque fattibile.

Certamente non troviamo nell'IGMR una dottrina organica e completa sul dogma della presenza reale e della transustanziazione. Non soltanto il termine «transustanziazione», nella versione del '69, è assente, ma anche la realtà non vi figura neppure in termini equivalenti.

Vi sono espressioni che la lasciano supporre come: «Nella Preghiera eucaristica si rendono grazie a Dio per tutta l'opera della salvezza, e le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo. Mediante la frazione di un unico pane si manifesta la unità dei fedeli, e per mezzo della comunione i fedeli ricevono il Corpo e il Sangue del Signore allo stesso modo col quale gli apostoli li hanno ricevuti dalle mani del medesimo Cristo» (n. 48).

«All'inizio della liturgia eucaristica si portano all'altare i doni, che diventeranno il Corpo e il Sangue di Cristo» (n. 49).

«Epiclesi: per mezzo della quale la Chiesa con particolari invocazioni implora la virtù divina affinché vengano consacrati i doni offerti dagli uomini, cioè diventino il Corpo e il Sangue di Cristo, e perché l'ostia immacolata ricevuta in comunione giovi per la salvezza di coloro che vi partecipano» (n. 55).

«I sacri pastori abbiano cura di ricordare nel modo più opportuno ai fedeli che partecipano al rito o che vi assistono, la dottrina cattolica sulla forma della comunione, secondo il Concilio di Trento. E innanzitutto ricordino ai fedeli che la fede cattolica insegna che, anche sotto una sola specie si riceve Cristo nella sua totalità e nella sua integrità...» (n. 241).

«Si raccomanda vivamente che il luogo della conservazione della santissima Eucaristia sia posto in una cappella idonea per la preghiera (la versione del '70 aggiunge: "e l'adorazione") privata dei fedeli» (n. 276).

L'espressione «le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo» e similari (48, 49, 55) non sono, come abbiamo visto, sufficienti – di per sé – per distinguere la dottrina cattolica da quella protestantica che vanifica il significato ovvio e pieno delle parole dell'istituzione.

Tuttavia, già nel n. 55 troviamo un'espressione che ha sapore inequivocabilmente cattolico: «l'ostia immacolata ricevuta in comunione». Il riferimento sacrificale soprattutto la pone nell'ambito semantico del dogma, ma essa parla anche il linguaggio del realismo eucaristico.

Ciò è ancora più evidente per i nn. 241 e 276. Il n. 241, nel mentre ristabilisce la possibilità della comunione sotto le due specie, richiama la dottrina di Trento sulla totalità della presenza di Cristo anche sotto una sola specie. Come abbiamo già visto, infatti, in forza delle parole sono resi presenti, separatamente, il Corpo e il Sangue. Sono però il Corpo e il Sangue di Gesù come si trova ora: cioè Gesù risorto e vivo. Dunque, per concomitanza naturale, è presente – sotto ogni specie – tutta l'umanità di Gesù e, in virtù dell'unione ipostatica, anche la divinità. Sotto ogni specie è presente Gesù – lo stesso Gesù nato dalla Vergine Maria, che è morto e risorto e ora siede alla destra del Padre – in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Quello che ci interessa è (oltre al richiamo al Tridentino) la terminologia («sotto una sola specie si riceve Cristo») che fa parte dell'ambito semantico del dogma.

Ancora più importante e decisivo è il n. 276. Più importante perché enuncia un atteggiamento pratico, in consonanza con le finalità proprie dell'IGMR e la natura della liturgia. Decisivo perché esprime una differenza radicale con la prassi protestantica. Vi si parla infatti della conservazione e del culto dell'Eucaristia «post Missam». Questa prassi implica necessariamente la dottrina della presenza permanente, quindi sostanziale, di Cristo nell'Eucaristia. Dottrina che fa corpo con tutto il dogma della presenza reale e anche con la transustanziazione. Prova ne è che i protestanti più vicini alle posizioni cattoliche, pur disposti a tollerare il termine «transustanziazione», ridotto al rango di espressione di una particolare tradizione teologica, continuano a manifestare fortissime perplessità nei confronti di una presenza eucaristica permanente, che dura fin tanto che durano le specie[vii].

Certo l'assenza del termine «transustanziazione» è difficilmente giustificabile in un documento che non è soltanto pratico-liturgico (anche se lo è certamente principalmente). Tuttavia si tratta di un peccato di omissione che è stato provvidenzialmente corretto (le critiche non sono state inutili..). Il Proemio aggiunto nel '70 dedica un importante passaggio al dogma della presenza reale. Innanzitutto viene evidenziato il legame dell'IGMR con il contesto del Magistero passato e recente: dal Concilio di Trento al Vaticano II, passando attraverso l'Humani generis e la Mysterium Fidei. Quindi, mentre qualifica chiaramente il modus praesentiae come «transustanziazione», pone l'indice sugli elementi rituali che enunciano, col linguaggio proprio del gesto, questo dogma[viii].

Altro punto critico è quello costituito dall'articolo 7. La redazione primitiva di questo articolo era certamente – come constateremo anche in seguito – fortemente equivoca: «La Cena del Signore, ossia la Messa, è la sacra assemblea o adunanza del popolo di Dio, che si riunisce insieme, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore. Pertanto a riguardo dell'adunanza locale della santa Chiesa, vale in modo eminente la promessa di Cristo: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro" (Mt 18, 20)». Soprattutto l'inserimento del passo scritturistico di Mt 18, 20 in un contesto in cui ci si aspetterebbe un chiaro riferimento alla presenza sostanziale di Cristo è tale da deviare facilmente l'interpretazione. Il passo infatti si riferisce chiaramente ad una presenza reale di Cristo di natura morale[ix]. L'espressione «in modo eminente» è insufficiente per mettere inequivocabilmente sulla strada di una lettura essenzialmente differenziata di questa presenza. L'articolo andava certamente corretto.

La correzione riporta il testo nell'alveo della concezione della Mysterium fidei, che vede la presenza reale di Cristo che si differenzia in varie modalità, di cui la principale è quella eucaristica perché sostanziale e permanente (vedremo in seguito più dettagliatamente questa importantissima dottrina). La nuova versione infatti interpreta il passo biblico come rivolto alla presenza differenziata di Cristo: «Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato a riunirsi insieme sotto la presidenza del sacerdote, che agisce nella persona di Cristo, per celebrare il memoriale del Signore, cioè il sacrificio eucaristico.

Per questa riunione locale della santa chiesa vale perciò in modo eminente la promessa di Cristo: (...). Infatti nella celebrazione della messa, nella quale si perpetua il sacrificio della croce, Cristo è realmente presente nell'assemblea dei fedeli, riunita in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola e in modo sostanziale e permanente sotto le specie eucaristiche». Il riferimento a Mt 18, 20 continua a rimanere accomodatizio e a rendere l'articolo disorganico e impreciso (forse non lo si è eliminato del tutto solo per non dare un riconoscimento troppo aperto alle contestazioni...), tuttavia l'inciso spiega inequivocabilmente in che senso si deve intendere la «presenza eminente» di Cristo nella celebrazione della Messa.

La nota 15 all'art. 7, anch'essa aggiunta nel '70, rimanda a Sacrosanctum Concilium, n. 7; Mysterium fidei, n. 41 e Eucharisticum mysterium, n. 9. Sono i documenti che enunciano la dottrina della presenza differenziata di Cristo, che culmina nella presenza eucaristica, reale non per esclusione ma «per antonomasia».

Giungiamo così al problema costituito dalla particolare insistenza del testo sui modi di presenza altri che la presenza eucaristica. Viene soprattutto sottolineata la presenza di Cristo nella sua parola.

Oltre all'art. 7, già esaminato, in cui si fa cenno alla presenza nell'assemblea, nel ministro e nella parola, abbiamo:

«Nella Messa si imbandisce la mensa tanto della parola di Dio quanto del Corpo di Cristo perché da essa i fedeli vengono istruiti e nutriti» (n. 8).

«Quando si legge la sacra Scrittura nella Chiesa, è Dio stesso che parla al suo popolo e Cristo, presente nella sua parola, annuncia il Vangelo» (n. 9).

«Lo stesso Cristo per mezzo della sua parola è presente in mezzo ai fedeli» (n. 33).

«Alla lettura evangelica si deve attribuire la massima venerazione ... sia da parte del ministro ... sia da parte dei fedeli che per mezzo delle acclamazioni riconoscono e professano essere Cristo presente, che parla loro» (n. 35).

Notiamo innanzitutto che il parallelismo mensa della parola/mensa del Corpo di Cristo ha solide radici nella Tradizione.

Senza citare le fonti patristiche (e scritturistiche!)[x], basti richiamare il più caratteristico degli autori post-tridentini, san Roberto Bellarmino. «Il sacramento dell'altare – dice il santo dottore – che è uno dei principali sussidi dell'anima, è detto pane in Gv 6, 51-58 e in 1 Cor 11, 26-28; e la parola di Dio, della cui predicazione pure ci nutriamo, può essere detta anche essa pane, come dice l'Apostolo in 1 Tim 4, 6: "nutrito dalle parole della fede"; e Ebr 6,5: "e gustarono la buona parola di Dio"»[xi].

La nota 15 al n. 8 (poi diventata 17) rimanda al fondamentale passo conciliare su questa dottrina:

«La Chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei verbum, n. 21).

Il come del testo conciliare non significa uguale venerazione. Significa che a Scrittura e a Eucaristia è dovuta ugualmente venerazione, però in modo e aspetto diverso, come si arguisce da SC 7, MF 41 e EM 9[xii].

Il n. 7 della SC (importante, come vedremo, per la dottrina della presenza «differenziata» di Cristo) è richiamato in nota due volte: nella nota 16 (n. 9) e 30 (n. 33) della versione del '69 e nella nota 15 (n. 7) e 32 (n. 33) della versione del '70.

L'insistenza dunque è soltanto una sottolineatura, nel contesto della dottrina sulla presenza reale «differenziata». Questa dottrina è – come è evidente – di particolare importanza per capire le affermazioni dell'IGMR. Si tratta di una concezione non nuova nella sostanza, anche se nuova nella sua formulazione sistematica. Enunciata innanzitutto nella SC al n. 7 è stata ripresa e spiegata, nel contesto di una profonda e impeccabile esposizione del Mistero Eucaristico, dalla Mysterium fidei (Ibid., n. 38), per essere poi riassunta e codificata al fine di informare la prassi liturgica, nell'istruzione Eucharisticum mysterium (Ibid., n. 41). L'IGMR non può essere dissociata da questa dottrina e da questi documenti.

Dopo aver affermato che Cristo è presente nella sua Chiesa che prega, che esercita le opere di misericordia, che anela al porto della vita eterna, che predica, che regge e governa il popolo di Dio, che celebra il sacrificio della Messa e amministra i sacramenti – specificando che ciò avviene con modalità diverse e «intensità» diverse – Paolo VI, nella MF, sottolinea che «ben altro è il modo, veramente sublime, con cui Cristo è presente alla sua Chiesa nel sacramento della Eucaristia... Tale presenza si dice reale non per esclusione, quasi che le altre non siano reali, ma per antonomasia, perché anche corporale e sostanziale, e in forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente».

Certamente questa dottrina (come quella della hierarchia veritatum dell'UR) risponde ad una istanza ecumenica. Vi si vede la volontà di «decongestionare» l'arroccamento cattolico post-tridentino sul bastione della presenza reale eucaristica, che ha portato a lasciare (comprensibilmente) nell'ombra le altre, pur realissime, presenze di Cristo.

Questa volontà ecumenica passa massicciamente (prudentemente?) nella riforma liturgica. Si riflette in particolare nell'IGMR quando si parla di presenza senza specificazione, sottolinea con insistenza la presenza nella Parola, lascia alle note il compito di rimandare alla dottrina integrale e tace – nella sua prima versione – il termine imbarazzante transustanziazione. Se questa massiccia tensione ecumenica dà la netta impressione di uno squilibrio, tuttavia non esce – essendo soprattutto intervenute importanti correzioni – dal contesto di una strategia che sottolinea ciò che unisce senza rinnegare la dottrina integrale.

[i] Giovanni Paolo II, Alle religiose di Milano e della Lombardia, 20 maggio 1983: La Traccia 5 (1983) p. 495.

[ii] «Factum transubstantiationis, scilicet desitio totius substantiae panis et vini et conversio eius in Corpus et Sanguinem Christi, est de fide divina et catholica definitum. Vocem ipsam transubstantiationis aptissimam esse ac retinendam, est doctrine catholica» (J.A. De Aldama, De sacramento unitatis christianae seu de sanctissima Eucharistia: Sacrae Theologiae Summa, vol. IV [BAC, Madrid 19624] p. 276).

[iii] Non è l'unico testo. L'importanza di questo punto di dottrina per l'integrità del dogma della presenza reale, nonché del termine dogmatico atto a preservarlo con sicurezza, sarà nuovamente ribadita dall'Humani generis di Pio XII, dalla Mysterium fidei di Paolo VI e, recentemente da Giovanni Paolo II. Cfr. Giovanni Paolo II, Omelia del 23 febbraio 1980: La parola di Giovanni Paolo II 2-3 (1980) p. 23; Idem, Omelia a Rio de Janeiro, 1 luglio 1980: Ibid. 7 (1980) pp. 31-32; Idem, Allocuzione ai pellegrinaggi delle diocesi di Milano e Alessandria, 14 novembre 1981: La Traccia 10 (1981) p. 680.

[iv] Su questo punto, fondamentale per l'ecumenismo, si veda l'ottima puntualizzazione di Carlos Cardona, La «Jerarquia de las verdades» y el orden de lo real, in: Scripta theologica 4 (1972), pp. 123-144.

[v] Cfr. Card. Joseph Ratzinger, Trasmissione della fede e fonti della fede, in: Cristianità 96 (1983), pp. 5-11.

[vi] Cfr. Op. cit., pp. 16-20, 38-40, 118-119.

[vii] «Una divergenza che rimane consiste certamente nel problema della conservazione e adorazione dell'ostia consacrata, non distribuita, dopo la celebrazione eucaristica... Essa è strettamente connessa con i diversi modi di intendere il modus praesentiae...» (Gemeinsame römisch-katolische evangelisch-lutherische Kommission, Das Herrenmahl, cit., pp. 89-90). Max Thurian, che può rappresentare la posizione protestantica «ecumenicamente» più vicina, si attesta – nel suo importante libro del 1963 – su posizioni agnostiche: «Sebbene il fine dell'eucaristia sia la comunione..., noi non oseremmo definire la natura della relazione di Cristo con le specie eucaristiche che rimangono dopo la comunione. Non ci sentiamo autorizzati a pronunciarci né per la permanenza della presenza reale, né per la sua cessazione. Qui è necessario rispettare il mistero. In questo atteggiamento di rispetto, è bene che le specie eucaristiche che rimangono siano consumate dopo la celebrazione» (L'Eucaristia memoriale del Signore, cit., pp. 299-300). La sua posizione sembra però mutata in un testo più recente: «La presenza del corpo risorto di Cristo rimane legata ai segni eucaristici, perché la chiesa non dispone di quella presenza che è frutto della Parola di Dio e dell'azione dello Spirito Santo. Con quale diritto potrebbe essa fissare il momento in cui le specie del pane e del vino non sarebbero più segni del corpo e del sangue di Cristo? Ciò sarebbe contrario alla fede nella grazia efficace di Dio. "I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rm 11, 29). La certezza che la presenza di Cristo continua dopo la celebrazione e la comunione, sotto le specie del pane e del vino che restano, è un importante segno della fede eucaristica» (Il mistero dell'eucaristia, Roma 1982, p. 99).

[viii] «Anche il mistero mirabile della presenza reale del Signore sotto le specie eucaristiche è affermato dal Concilio Vaticano II (SC 7, 47; PO 5, 18) e dagli altri documenti del magistero della Chiesa (Pio XII, Humani generis; Paolo VI, Mysterium fidei; Solenne professione di fede; Eucharisticum mysterium), nel medesimo senso e con la medesima dottrina con cui il concilio di Trento l'aveva proposto alla nostra fede (Trid., sess. XIII: DS 1635-1661). Nella celebrazione della messa, questo mistero è posto in luce non soltanto dalle parole stesse della consacrazione, che rendono il Cristo presente per mezzo della transustanziazione, ma anche dal senso e dall'espressione esterna di sommo rispetto e di adorazione di cui è fatto oggetto nel corso della liturgia eucaristica. Per lo stesso motivo, al giovedì santo e nella solennità del corpo e del sangue del Signore, il popolo cristiano è chiamato a onorare in modo particolare, con l'adorazione, questo ammirabile sacramento» (EV 3, 2021).

[ix] Cfr. Mysterium fidei: EV 2, 422.

[x] Cfr. C.M. Martini, La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa, in: La Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione (LDC, Torino-Leumann 1967), pp. 423-425 (con bibl.). Classico è il cap. XI del libro IV dell'Imitazione di Cristo: «Due cose sento che mi sono sommamente necessarie in questa vita... Esse si potrebbero anche chiamare due mense situate di qua e di là nel tesoro di Santa Chiesa. L'una è la mensa del Sacro Altare che ha il Pane santo, cioè il Corpo prezioso di Cristo. L'altra è la mensa delle legge divina ...».

[xi] Opera oratoria postuma, vol. VI (Roma 1945) p. 255. Sottolineo come queste espressioni si ritrovano nel vivo della predicazione del santo. Predicazione biblica quant'altre mai. Una scorsa lo testimonia anche al più disattento dei lettori. Prova che le accuse di allontanamento dalla Scrittura lanciate affrettatamente alla (cosiddetta) Controriforma (ma si pensi anche al Catechismo del Concilio di Trento!) poggiano su una superficiale conoscenza degli autori. Per Bellarmino la Parola di Dio predicata e ascoltata ha un valore sacramentale: «signum et effectus gratiae praesentis, et simul... causa eiusdem» (Ibid., vol. I, p. 339). Ha un valore più grande della stessa parola soltanto letta. «Anche le persone colte, pur potendo capire da sole la Scrittura, debbono andare alle prediche perché la parola pronunciata ha una energia che non possiede la parola scritta» (Ibid., p. 215). La predicazione poi deve sempre essere spiegazione della Parola di Dio e non deve perdersi in considerazioni teologiche, filosofiche o storiche...

[xii] Si veda a questo proposito la risposta della Pontificia Commissione per l'interpretazione dei decreti del Concilio Vaticano II del 5 febbraio 1968 (AAS 60, 1968, p. 362).

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