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"Se per sostenere
un'idea si cambia la realtà, significa che quell'idea non è
formidabile"
Annalena Benini, su Il Foglio -
sabato 23 ottobre 2004 |
Genova.
"Tanti buchi fatti sul tavolo di cucina, ecco quel che mi
ricordo".
Il padre ritornava la sera dall'Italsider, operaio tutta la vita, e quel
bambino con gli occhi a mandorla che a tre anni era sempre stanco
svogliato pallido pallido lo preoccupava. E allora prelievi, buchi, un
sacco di buchi, analisi a pagamento ogni tre giorni, analisi per
escludere, analisi per trovare. Fino alla diagnosi di un pediatra
specializzato: "Lui d'ora in poi lo curo io, ha la talassemia".
Millenovecentosessantaquattro, i bambini talassemici non superavano la
pubertà.
Loris Brunetta aveva tre anni e si ricorda solo i buchi, scappava sotto il
tavolo per non farseli fare. Suo fratello no, suo fratello era nato sano,
fortunato. Non è difficile imparare la regoletta, la insegnano alle
scuole medie, piselli rossi e piselli bianchi: è la legge di Mendel,
quello dell'ereditarietà. Per due genitori microcitemici, cioè portatori
sani di talassemia, tre possibilità: venticinque per cento figlio
completamente sano, cinquanta per cento figlio portatore sano, venticinque
per cento figlio malato.
Talassemico.
Condannato a morte. Anche deforme, con le ossa del cranio un po'
schiacciate,
nei favolosi anni Sessanta: globuli rossi piccoli, pallidi, in numero
ridotto e con vita breve, trasfusioni sbagliate o approssimative, genitori
rassegnati alla malasorte di un figlio a termine, con gli occhi troppo
allungati.
Loris Brunetta non aveva più la madre, morta prima di sapere che a uno
dei due bambini era andata male, morta senza sapere nulla nemmeno della
microcitemia e delle leggi di Mendel.
Pochi
anni dopo, nelle zone più colpite, Bassa padana, delta del Po, Sardegna,
Meridione, ci si cominciava a fare le analisi prematrimoniali, e nel 1974
la talassemia ebbe un bel peso nel referendum sull'aborto.
Meglio un figlio non nato di un figlio condannato a una mezza vita.
Brunetta tira il fiato, oggi che ha 41 anni e la faccia da ragazzo, la
fede al dito e un impiego in comune, a Genova (per un periodo ha fatto le
consegne, carico e scarico, lavoro pesante che gli ha procurato un paio di
ernie al disco, poi ha vinto il concorso, è contento, in centro ci va con
la moto).
Nessuno
l'ha buttato nel cestino quando lui non poteva farci nulla, e mai nessuno,
anche dopo tutti quei buchi e la diagnosi, ha pensato che il cestino
sarebbe stato meglio.
"Mi
portava mio padre a fare le trasfusioni, quando non lavorava, sennò mio
nonno, e qualche volta ci andavamo direttamente col donatore: un collega
di lavoro, un cugino, chiunque. Prelievo e via, un'ora dopo nel mio
braccio il suo sangue ancora caldo". Funzionava così, negli anni
Sessanta: controlli zero, adesso non si può donare il sangue nemmeno se
si è sovrappeso.
Dice Brunetta, mentre beve un prosecco - "certo, mangio noccioline,
bevo, cosa credevi?" - che le complicazioni più pesanti le ha avute
dopo le trasfusioni, febbri da cavallo e vomito per il corpo estraneo,
magari non sano, magari non compatibile. Anche l'epatite C si è beccato
con le trasfusioni, il 70 per cento dei talassemici ce l'ha, e amen.
Quando
era bambino, condannato dalla legge di Mendel a vita breve e smunta, non
c'era nessuno a fissargli l'appuntamento per la provvista di sangue,
funzionava così: il padre osservava il piccolo, che poco a poco andava
spegnendosi, sempre più pallido, sempre più stanco, e allora capiva che
era l'ora delle provviste.
"Era
un tirare a campare, non c'era altra possibilità che questa".
Ospedale, trasfusione, ricovero anche lungo, lunghissime assenze da
scuola, non come adesso con il day hospital, e la ferocia degli altri
bambini: non ti picchio perché sei malato, hai preso un bel voto solo
perché sei malato, mia madre dice che devo essere buono con te perché
sei malato. Gli dava fastidio, allora a pallone voleva essere il più
bravo di tutti. Col fiatone, ma il più bravo di tutti.
"Sono un mostro, io?"
"Con poco ferro si muore, con molto ferro si muore".
Lo dice il primario del centro di talassemia a Genova, che prima era uno
scantinato dell'ospedale e adesso è qualcosa di più e cura duecento
persone.
Vanno lì alle undici, seduti in poltrona con l'ago nel braccio,
trasfusione e alle tre tornano a lavorare, o vanno a fare i compiti, i più
piccoli piangono un po'. Con molto ferro si muore, e infatti di quello
muore un talassemico: di accumulo. Le trasfusioni fanno accumulare il
ferro, a poco a poco, dove non si deve: cuore, fegato, pancreas.
Tra gli ottomila talassemici italiani sta una maggioranza silenziosa e
cardiopatica, il settanta per cento muore con un cuore sovraccarico, che
non riesce più a funzionare.
Brunetta non è cardiopatico, per adesso, ma ha alle spalle dieci anni di
non cure, fino al 1974, quando finalmente hanno cominciato a eliminargli
il ferro dal sangue con l'infusione, un ago sottocutaneo attaccato a una
macchinetta portatile. Quell'anno ha cambiato la vita ai malati, cioè
gliel'ha allungata per sempre: "Nel 1974 c'erano ragazzini di cui i
medici aspettavano la morte da un momento all'altro, e adesso sono ancora
qui".
Adesso sui grafici la curva è ascendente, e l'estate scorsa a Genova è
morto il paziente più anziano: quarantasette anni. Brunetta ne ha
quarantuno, sa che i miracoli sono rari, dice che con la paura si impara a
convivere, e che la morte non è il suo primo pensiero la mattina né
l'ultimo la sera: "La paura ce l'hanno tutti, la paura ce l'hai anche
tu, basta non farsi prendere dal panico. E un malato ha troppe cose da
fare per farsi prendere dal panico". Troppe cose sono le trasfusioni,
i controlli, la terapia per eliminare il ferro.
Fino
al 1997 solo aghi sotto la pelle per dodici ore al giorno, cinque giorni
alla settimana, adesso finalmente c'è una pastiglia. Tutti i giorni, come
per la pressione. Nessuna vergogna, "mentre la macchinina con la
pompetta faceva vergognare".
Perché
si può anche dormire con un ago piantato nel braccio, o nell'addome; ma
uscire con una ragazza, a sedici anni, come si fa? E allora c'era chi si
rifiutava, e poi ne moriva. "Io se uscivo con una ragazza cercavo di
fare presto e poi correvo a mettermi l'ago, qualcuno faceva finta di
niente e andava a toglierselo, però era meglio quando glielo
spiegavo".
Vallo a spiegare a quelli che guardano le cellule da un microscopio e ne
trovano una sbagliata, una da gettare, che fare l'amore con una ragazza,
anche con l'ago nel braccio che magari fa prurito, non è così male, come
vita.
A un certo punto Brunetta si è incazzato. Parecchio.
Quando è stata approvata la legge sulla fecondazione assistita e i
radicali, i genetisti, le madri in provetta, hanno scatenato il dramma.
Vietata la selezione eugenetica degli embrioni, ma come, mica partorirete
un figlio talassemico? Oscurantisti, cattivi, autoritari.
Un figlio così è una condanna alla sofferenza, e via col ripescaggio
dall'oblio della talassemia. "Come se esistessimo soltanto come prova
di non diritto alla vita, come esempio di spazzatura di cui liberarsi,
qualcosa che disturba la perfezione della non sofferenza, e allora giù
per lo scarico del water".
Brunetta si è incazzato, dice che anche gli altri pazienti sono furiosi,
ma non con le madri per le quali talassemico è troppo, alle quali non
bastano le forze. "Non potrei mai criticare la scelta di una coppia
dilaniata dal dubbio, che alla fine rinuncia", dice, lui che avrebbe
fatto volentieri un altro figlio, "e sarebbe stato quasi sicuramente
malato, perché mia moglie è portatrice sana, ma sono successe troppe
cose, e abbiamo perso il treno: adesso è tardi".
Ma l'arrabbiatura resta. "Io mi arrabbio con chi non vuole più
ricordarsi di essere stato un embrione, con chi studia le cellule e non
vede oltre, con chi ci considera mostri da non far nascere: sono un
mostro, io?".
Sui giornali è stato scritto anche questo, Miriam Mafai
si è chiesta sulla prima pagina della Repubblica che cosa farà
una madre quando al bambino di due anni comincerà a gonfiarsi la testa e
gli si allungheranno le ossa del femore.
Il fatto è che quarant'anni fa succedeva davvero, da trenta non succede,
non succederà mai più, almeno in Italia.
Brunetta si è infuriato e ha mandato una lettera alla Mafai, le ha
chiesto perché raccontasse frottole, lei che è così brava e autorevole,
lei che la gente l'ascolta; lei gli ha risposto, privatamente, che quel
che ha scritto l'ha detto una senatrice della Lega in Parlamento, e che
comunque loro due hanno idee diverse: lei è contraria alla legge e lui
no, lei è per la ricerca sulle staminali e lui no, lei è per la
selezione eugenetica e lui no.
"Ma
allora, se per sostenere un'idea bisogna cambiare la realtà, vuol dire
che l'idea non è così formidabile".
La realtà però è che la sofferenza è certa, la cura incerta, la vita
ancora troppo breve. "Io non sostengo che dobbiamo per forza far
nascere dei bambini talassemici, vorrei solo che la gente sapesse cos'è
la malattia oggi, e sapesse che si può vivere; ed è anche una bella
vita, questa, non fa mica schifo, sai?". E non esiste al mondo,
"mai mai mai" un malato di talassemia che preferirebbe essere
non nato, "la sofferenza è niente, in confronto all'essere qui
adesso, a incazzarmi".
Loris Brunetta ha un figlio adottivo, talassemico, ventidue anni.
Dipinge benissimo, va all'Accademia di belle arti, è un tipo un po'
"intellettualoide, legge Dostoevskij e fa tardi la sera". Loris
l'ha incontrato da piccolissimo, quando la madre, che adesso è sua
moglie, è arrivata al centro trasfusionale di Genova, un bimbo malato e
non saper dove sbattere la testa. Il padre era sparito subito, senza
nemmeno sapere della talassemia. Non una storia sconvolgente, anche
banale. Lei era disperata, aveva ventiquattro anni e da sola non era
facile. Loris le ha spiegato che le trasfusioni non sono una tragedia, se
il bambino piange poi smette, avrebbe potuto andare anche all'asilo e lei
poteva lavorare, se voleva. Lei a poco a poco ha imparato questa cosa
scandalosa che è vivere con la sofferenza, con l'imperfezione che ha
bisogno di sangue, e di aghi sottopelle per eliminare il ferro. Poi loro
due si sono innamorati, sono andati a vivere tutti e tre insieme, dieci
anni fa si sono sposati.
"Siamo cementati l'uno all'altra" dice Brunetta, e prima
dell'ernia facevano le vacanze in tenda. Il ragazzo è cresciuto e non è
come il padre, non frequenta granché il centro di talassemia
dell'ospedale Galliera, ci va quasi solo per le trasfusioni e i controlli,
non si occupa dell'attività dell'associazione, non ha tempo, non gli
frega: ci sono le ragazze, e l'università, e i vicoli pieni di vita
notturna.
Però quando il padre è andato a Roma per partecipare a una puntata di
"Porta a Porta", qualche settimana fa, a dire che lui è vivo e
contento di esserlo (e Daniele Capezzone non se l'aspettava, e il biologo
che guarda le cellule al microscopio nemmeno, lui quelle cellule
imperfette le butterebbe tutte nel cestino), quella sera è rimasto in
casa con la madre a guardarlo alla tivù, e gli ha mandato un messaggio
sul cellulare: "Quel che è grave nel tentativo di creare geni non è
tanto l'idea di migliorare il genere umano quanto quella di sopprimere gli
altri, considerati come degli avanzi umani, come dei sottouomini. Il
superuomo potremmo anche accettarlo, a condizione che non abbia in testa
di eliminare altri uomini. Ciao".
Perché loro, i malati, passano tutta la vita a combattere un male non
immaginario e a dimostrare che non sono da meno di quelli con i globuli a
posto, "poi arriva un radicale o un genetista o un giornalista che
non sa un tubo e dice che è meglio non farci nascere, perché soffriamo
troppo e facciamo soffrire troppo loro, e perché siamo troppo diversi,
troppo sfigati", sorride Brunetta, e anche il sorriso è da ragazzo.
Quella sera, da Vespa, avrebbe potuto seppellire, e non l'ha fatto, il
biologo fissato con le cellule. "Mi ha detto che loro curano i
bambini, e che lo fanno per i bambini di sostenere la selezione
eugenetica, la diagnosi prenatale, la ricerca sulle staminali. A me non
risulta che i biologi curino i bambini, sono i medici a curare i bambini,
è diverso. E i nostri medici la pensano come noi, e pensano che la
selezione degli embrioni sia una follia: leggono i giornali e scuotono la
testa, loro quegli embrioni che altri preferirebbero buttare li seguono,
li sgridano, li controllano, li consolano fino a quando, alla fine,
muoiono. Loro sanno di cosa parlano, sanno anche che osservare le cellule
non dà mai la certezza di quel che nascerà. Non vanno a raccontarlo in
televisione, però, dicono che se vedi troppo spesso un medico in video, o
sui giornali, allora forse non è un granché, come medico".
Lì al centro per la talassemia di Genova i medici e i pazienti hanno
raccolto un sacco di ritagli, tutti degli ultimi mesi: pagine strappate
dall'Espresso, dal Venerdì, dai quotidiani, pagine che raccontano di
tecniche di frontiera, pagine sul luminare Guido Lucarelli, quello della
tecnica rivoluzionaria che dovrebbe "salvare novanta talassemici su
cento: il trapianto di midollo osseo".
Solo che qualche anno fa sono morti nove pazienti su undici, infettati
dall'epatite B. Un complotto, una specie di sabotaggio omicida, una cosa
di interessi contrastanti, diceva l'articolo. E comunque, c'era scritto,
"il trapianto di midollo è l'unica possibilità per salvare il
malato da una vita da incubo".
L'hanno sottolineato con l'evidenziatore, lì al centro, e un po' si
arrabbiano un po' ci ridono sopra, un po' chissenefrega, almeno parlano di
noi, "però hanno rotto con la vita da incubo". Il trapianto
vale solo per i bambini piccoli, fino a otto anni, e si rischia la vita.
Fino a otto anni e con un fratello compatibile si può provare a guarire,
dopo no. "I tre quarti dei talassemici non avranno mai un
trapianto", spiega Brunetta, e intanto dietro una porta a vetri c'è
un ragazzino pallido che sta facendo una trasfusione, con la mamma
accanto. Tra un'ora finirà, il ragazzino pallido potrà andare a giocare
a pallone. "La vostra vita è perfetta, la nostra ci piace"
Al centro di talassemia c'è una ragazzina iraniana, il padre lavorava a
Genova, ingegnere minerario. Si è trasferito con la moglie e la figlia,
per farla vivere meglio, perché venga curata meglio, perché non si
vergogni più. "Non ho intenzione di tornare in Iran, non voglio che
mia figlia muoia", diceva. Poi è morto lui, e adesso è più
difficile, la moglie ha paura, anche se ogni tanto si toglie il velo, ma
se ci sono uomini intorno non parla. Però non torna in Iran, prova a
mantenerla a Genova, perché là sarebbe la fine, anche se i talassemici
sono tanti, seimila solo a Teheran. I padri in genere se ne
disinteressano, figli imperfetti da dimenticare, errori di cui chiedere
perdono ad Allah. Fanno come se non esistessero. Tocca alle madri,
colpevoli dello sbaglio, occuparsene, ma loro sono donne, quindi inferiori
che vogliono curare inferiori.
Non
c'è scampo, soprattutto se sono femmine, piccole donne che devono fare le
infusioni, ago nel braccio e si vergognano troppo, preferiscono morire. In
Iran i talassemici che sopravvivono un po' di più sono costretti a
sposarsi solo tra di loro, per non infettare la razza. "Una
rudimentale selezione eugenetica", dice Brunetta, "un modo per
non dover pensare a noi mostri".
E
dal Marocco è arrivato un bambino "undici anni e ne dimostra a
stento cinque", mal curato perché la cura da quelle parti è una
vergogna. "O sei perfetto o dai fastidio, là la vita conta meno
della rispettabilità".
Qui
certo che è diverso, qui i talassemici vengono curati (quelli che
nascono, e sono sempre di meno, a Ferrara non succede dal 1983), qui si
cerca un modo per evitare la sofferenza, si prova a garantire un po' di
felicità. "Però bisognerebbe chiedere ai malati cosa pensano della
sofferenza, invece dappertutto continua a pontificare chi non lo sa:
questa cellula è sana però non è proprio come quella là, potrebbe
nascere qualcosa che soffrirà, allora la butto. Voi soffrite per altre
cose, perché siete grassi o infelici o non abbastanza intelligenti, perché
pensate di essere malati e magari non avete niente di niente. Non è molto
diverso, e allora io, in mezzo a tutti i vostri meravigliosi diritti alla
felicità, pretendo il mio diritto alla sofferenza in vita".
I bambini che ancora nascono, e non superano mai il dieci per cento delle
diagnosi prenatali di talassemia, anche se ultimamente c'è stata una
piccola crescita, imparano in fretta che cos'è la sofferenza, e imparano
in fretta, anzi subito, "che la sofferenza non priva della
vita".
Le ragazze di trent'anni sono quasi tutte sposate, e fanno figli con
uomini "normali". Ce
n'è qualcuna che invece quasi non esce di casa, i genitori hanno paura,
"le tengono sotto una campana di vetro e loro non hanno la forza di
staccarsi". C'è uno che
fa politica. Ci sono i laureati e gli operai specializzati. Ci sono quelli
che si piangono addosso e dicono che però Brunetta ha un po' minimizzato
la malattia, da Vespa. Ci sono quelli antipatici. C'è una ragazza di
ventidue anni che fa i concorsi di bellezza, e li vince anche, è bella e
non porta nessun segno della malattia.
Loris
è di un'altra generazione, vent'anni fanno la differenza, qualche segno
ce l'ha: non è alto, ha le mani piccole, il naso corto e all'insù, è
molto magro, i vestiti può comprarli nei negozi per ragazzi. Un ragazzo
di quarantun'anni.
"Non farò nessun concorso di bellezza, io, ma sto bene così, e
faccio un pesto buonissimo". Non è laureato, ha avuto problemi in
famiglia e c'era bisogno di soldi, ha lasciato l'università al secondo
anno, gli dispiace.
Non
si sente malato. "So bene di esserlo, ma mi sono sempre occupato di
me stesso, un po' prendendomi sul serio un po' anche scherzando:
questa è la mia condizione e non mi pesa, forse pesa a mio padre che non
l'ha mai dato a vedere. Non so, forse pesa a mio fratello che ha sempre
voluto difendermi, e io gli voglio bene anche per questo, ma lui lo sa che
io mi sono sempre difeso benissimo da solo".
Lo incontrano, in piazza delle Erbe, e gli gridano "ehi, Loris, ti ho
visto in tivù, ti sarai mica montato la testa?". "Accidenti,
Loris, non invecchi mai". Lui sorride e grida di rimando: "Già,
ho fatto un patto col diavolo". Poi lo sconforto arriva, ma non è
niente di speciale, dice che basta accontentarsi e non mollare.
A
un certo punto, però, capitano una serie di complicazioni tutte insieme,
il cuore, l'epatite, il ventricolo sinistro che s'ingrossa, e allora uno
pensa: questa volta non ce la faccio. Poi magari non è vero. Ma qualche
volta, invece, è vero.
"Io non voglio insegnare niente a nessuno, non dico che ho ragione
io, non dico che non bisogna abortire, anche se sono cattolico praticante;
non dico che una coppia non può scegliere di non avere un figlio
talassemico, anche se io sono talassemico e felice di esserci; non dico
che fare nascere dei bambini per curare il fratellino a Pavia significa
avere ammazzato gli altri, quelli che magari al microscopio erano sani o
malati ma non compatibili. Dico soltanto che io sono qui, che noi siamo
qui, non un'entità astratta ma una vita che non vale meno della vostra:
la vostra di certo è perfetta, bellissima, ma a noi invece è andata così,
e ci piace abbastanza".
Lui è un tipo curioso di tutto, che parla con tutti, e come presidente
dell'associazione parla con un sacco di luminari.
Gliel'avevano detto che sarebbe successo, che il processo era tremendo ma
irreversibile.
Che
dalla talassemia si parte, poi si arriva a storcere il naso di fronte alla
cellula del colesterolo alto, "e gli occhi azzurri non saranno più
fantascienza, e la clonazione verrà giustificata dalla proteina che cura
la miopia".
Che se un limite non esiste più, il limite saranno soltanto loro, gli
imperfetti che pretendono di essere vivi.
Lui
intanto deve tornare a casa dalla moglie, che è a letto con l'influenza e
reclama aspirine. "Saranno trent'anni che a me l'influenza non viene,
e con le trasfusioni in day hospital non posso neanche inventarmi scuse:
al lavoro ogni giorno". Ride col sorriso da ragazzo. "Però
scusa, adesso devo scappare, lei ha bisogno di me".
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