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L'ermeneutica della riforma e la libertà di religione
di Martin Rhonheimer
Da "Nova et Vetera", 85, 4, ottobre-dicembre 2010, 341-363

Testo integrale rispetto a quello estratto da Sandro Magister nel suo articolo "Chi tradisce la tradizione. La grande disputa", del 28 aprile 2011 http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347670
così introdotto:

Si infiamma la discussione su come interpretare le novità del Concilio Vaticano II, soprattutto sulla libertà di religione. I tradizionalisti contro Benedetto XVI. Un saggio del filosofo Martin Rhonheimer a sostegno del papa 


[Appendice: Continuità e discontinuità. Che ne è dell'infallibilità del Magistero?]
 

Come è noto, il 22 dicembre 2005, papa Benedetto XVI si è espresso, nel suo discorso in occasione della presentazione degli auguri di Natale alla curia romana, contro un'interpretazione largamente diffusa del Vaticano II, secondo la quale la Chiesa postconciliare sarebbe una Chiesa diversa dalla Chiesa "preconciliare". Benedetto XVI qualifica questa interpretazione erronea del Concilio "ermeneutica della discontinuità e della rottura".

Questa espressione è stata ripresa con zelo dai cattolici fedeli sostenitori del papa. L'idea che il papa abbia opposto nel suo discorso l'ermeneutica della discontinuità e l'ermeneutica della continuità si è largamente diffusa. Sembra che Robert Spaemann abbia condiviso questo parere, quando in merito ai tentativi di armonizzazione in materia di libertà di religione, tema recentemente divenuto di grande attualità, egli apprezza la sottolineatura di una continuità senza rottura tra la dottrina conciliare e la dottrina preconciliare. (cf. "Die Tagespost" del 25.4.2009)

Si deve tuttavia contraddire questa affermazione. Nel discorso citato, papa Benedetto XVI non ha affatto opposto l'ermeneutica erronea della discontinuità a una "ermeneutica della continuità". Ha spiegato piuttosto che all'"ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma". E qual è "la natura della vera riforma"? Essa consiste, spiega il papa, "in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi".

La relazione con lo stato

Il Concilio Vaticano II deve essere compreso quindi alla luce della categoria ermeneutica di "riforma", e non semplicemente di "continuità". In effetti, la "riforma" contiene sia elementi di continuità che certi elementi di discontinuità. Tuttavia, come sottolinea Benedetto XVI, continuità e discontinuità si trovano a dei livelli differenti. Identificare e distinguere tra questi differenti livelli costituisce la vera posta.

A questo fine il Papa precisa innanzitutto: "il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna", e ciò sotto due rapporti: da una parte, in rapporto alle scienze naturali moderne; dall'altra, "era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione".

È chiaro, prosegue Benedetto XVI, che per quanto riguarda l'insegnamento del Concilio "in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità". Ciò malgrado, si poteva affermare che "risultava non abbandonata la continuità nei principi". Ora, "È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma".

Anticipando in forma profetica le discussioni attuali, Benedetto XVI esemplifica "l'ermeneutica della riforma" con la dottrina conciliare sulla libertà religiosa. Benedetto XVI esprime qui esattamente la differenza di livelli che gli insegnamenti preconciliari non avevano avuto la capacità di individuare a motivo di precisi condizionamenti teologici e storici. Così, Gregorio XVI e Pio IX, per non citare che questi due papi, avevano identificato il fondamentale diritto alla libertà di religione, di coscienza e di culto del cittadino moderno con una negazione della vera religione. E questo poiché essi non potevano immaginare che una verità religiosa e una vera Chiesa potessero esistere senza che quest'ultima non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla politica, e rispettata dal diritto civile. In effetti, un gran numero dei loro avversari liberali rivendicavano la libertà di religione presentando l'argomento esattamente contrario: una tale libertà è necessaria perché non c'è affatto una verità religiosa.

La Chiesa del XIX secolo considerava come un disconoscimento della religione cristiana, e come "indifferentismo" e "agnosticismo", la visione "liberale" secondo cui lo stato non avrebbe né la competenza né l'obbligo, da una parte, di farsi garante del valore sociale della vera religione e di rinunciare a riconoscere ad altre religioni il diritto di esistere, e, dall'altra parte, di limitare con pubbliche censure la libertà di espressione e di stampa al fine di proteggere la vera religione.

Nel magistero preconciliare, l'insegnamento della verità unica della religione cristiana andava di pari passo con l'insegnamento della funzione e del dovere dello stato, che aveva l'obbligo di far praticare la vera religione e di proteggere la società dalla diffusione dell'errore religioso. Ciò implicava l'ideale di uno "stato cattolico" nel quale, nel migliore dei casi, la religione cattolica è l'unica religione di stato, il cui ordine giuridico è sempre al servizio della protezione della vera religione.

È precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo che si trova il punto di discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso tempo una continuità più profonda ed essenziale, come spiega Benedetto XVI nel suo discorso: "Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa". Questo principio essenziale dello stato moderno e nello stesso tempo la riscoperta di questo patrimonio profondo della Chiesa costituiscono, secondo Benedetto XVI, il chiaro rigetto di una religione di stato: "I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede".

La "libertà di coscienza" è sempre stata compresa dal mondo moderno come libertà di culto, cioè come diritto dell'individuo e delle diverse comunità religiose ad esprimere liberamente la loro fede, in forma pubblica e comunitaria, nel quadro dell'ordine e della morale pubblica, senza che lo stato abbia il diritto di intervenire per impedirlo. Ora, questo corrisponde esattamente alle rivendicazioni dei primi cristiani nell'epoca delle persecuzioni. Essi non rivendicavano la promozione da parte dello stato della verità religiosa, ma piuttosto la libertà di poter confessare la loro fede senza essere vessati dallo stato. Si deve al Concilio Vaticano II d'aver insegnato questo diritto fondamentale della persona umana a confessare la sua fede senza ostacoli.

È proprio a questo che ha dovuto cedere il passo l'antica rivendicazione della protezione politico-giuridica dei cosiddetti "diritti alla verità" e della repressione ad opera dello stato dell'errore religioso. Checché se ne dica, non si può negare che è precisamente questa dottrina del Vaticano II che è stata condannata da Pio IX nell'enciclica "Quanta cura".

Benedetto XVI conclude la sua esemplificazione dell'"ermeneutica della riforma" tramite la dottrina sulla libertà religiosa con questa constatazione pregnante: "Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche". Queste correzioni non significano una discontinuità al livello della dottrina della fede cattolica e della dottrina morale, che è oggetto del magistero autentico della Chiesa, il quale – anche in quanto magistero ordinario – reclama l'infallibilità. In questo senso, Benedetto XVI parla di una semplice "discontinuità apparente", poiché nel liberarsi dell'antico fardello d'una dottrina dello stato superata, la Chiesa "ha mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi".

In breve, la dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa non implica alcun riorientamento del dogma, ma piuttosto un riorientamento della dottrina sociale della Chiesa e, più precisamente, una correzione del suo insegnamento sulla funzione e i doveri dello stato. Gli stessi principi immutabili sono dunque ripresi in maniera nuova nel nuovo contesto storico. Sullo stato non c'è nessuna dottrina di fede cattolica e dogmatica; e non può essercene, eccezion fatta per gli elementi già presenti nella Tradizione apostolica e nella Sacra Scrittura. Da questi scritti è totalmente assente l'idea di uno "stato cattolico" che sarebbe il braccio secolare della Chiesa. Essi testimoniano piuttosto una separazione tra la sfera religiosa e quella politico-statuale.

La parziale rimozione del vero dualismo cristiano tra potere temporale e spirituale, così come il loro amalgama, apparvero più tardi, come conseguenza di situazioni storiche contingenti, tra le quali, in primo luogo, l'imposizione del cristianesimo come religione di stato nell'impero romano e la lotta contro l'arianesimo (che di nuovo rivendicava una divinizzazione dello stato), in secondo luogo l'integrazione, nel corso del basso Medioevo, della Chiesa nelle strutture del governo imperiale e, in terzo luogo, in reazione a quest'ultima, la dottrina politico-canonica dell'alto Medioevo della "plenitudo potestatis", della pienezza di potere del papa, una dottrina dalla quale si è tratta l'idea moderna di uno stato sovrano confessionale cattolico, al quale Pio IX era ancora molto legato e al quale si è puntualmente opposto un suo corrispettivo protestante.

La dottrina del Vaticano II rappresenta qui una chiara svolta rispetto al passato. Una volta definitivamente liberata dal fardello storico, la dottrina del Concilio sulla libertà religiosa consiste essenzialmente in una dottrina sui doveri e i limiti dello stato, così come sul diritto civile fondamentale – un diritto della persona e non della verità – grazie al quale sono limitate la sovranità e le competenze dello stato in materia di religione. Essa è, inoltre, una dottrina sulla libertà della Chiesa a esercitare liberamente – al pari di ogni altra religione – la sua missione di salvezza anche nello stato secolare, una dottrina stabilita sulla base dei fondamentali diritti dei corpi sociali alla libertà religiosa. Infine, la dottrina conciliare afferma il dovere che ha lo stato di garantire, in maniera neutrale e imparziale e sempre nel rispetto dell'ordine e della morale, le condizioni necessarie affinché ciascun cittadino possa praticare la propria religione.

Tentativi di riconciliazione: un fallimento?

È precisamente questa nuova dottrina politico-giuridica che sostiene che lo stato non è più il braccio secolare della Chiesa guardiana della verità religiosa, ciò che i tradizionalisti oggi rifiutano. È effettivamente ciò che P. Matthias Gaudron, portavoce della Fraternità di San Pio X in Germania, ha evidenziato in una lettera (pubblicata in "Die Tagespost" del 6.6.2009). C’est effectivement ce que le P. Matthias Gaudron, porte-parole de la Fraternité sacerdotale Saint-Pie X en Allemagne, a mis en exergue dans une lettre de lecteur (parue dans "Die Tagespost" du 6.6.2009). Quando le posizioni più temperate, quali quella del Prof. H. Klueting (cf. "Die Tagespost" del 30.05.2009, p. 18), riducono la dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa ad un "immunità da ogni conversione forzata" suggerendo così a torto una continuità senza rottura, p. Gaudron mette l'accento sul punto decisivo: la divergenza non porta sulla questione del rifiuto della "conversione forzata" - su questo punto son tutti d'accordo - ma sulla questione di sapere fin dove si può giungere nella restrizione della pratica pubblica d'una fede erronea e nella sua diffusione. Egli constata così ed a ragione una rottura della continuità o, per dirla con Benedetto XVI, la discontinuità.

Il Memorandum "La bomba a scoppio ritardato del Vaticano II" indirizzata dal superiore provinciale tedesco della Fraternità sacerdotale San Pio X, P. Franz Schmidberger, a tutti i vescovi tedeschi è ancora più esplicita. Secondo lui, la dottrina del Vaticano II significa "la secolarizzazione dello Stato e della società", così come l'"agnosticismo di Stato". Essa rappresenta il  disconoscimento del diritto e del dovere dello Stato "d'impedire ai membri delle religioni erronee di propagare pubblicamente le proprie convinzioni religiose, osteggiando le loro manifestazioni pubbliche e attività missionarie e rifiutando loro il permesso di costruire luoghi di culto". In breve, attraverso la sua dottrina sulla neutralità religiosa dello Stato - di fatto, la sua laicità - il Concilio ha rinnegato la dottrina tradizionale sullo Stato cattolico e sulla Regalità sociale di Gesù Cristo. In realtà, prosegue P. Schmidberger, seguendo in ciò l'arcivescovo Lefebvre, "Gesù Cristo è il solo Dio e la croce la sola sorgente di salvezza". Conseguentemente, "spetta ai responsabili di Stato far valere nella società, in quanto possibile, questa rivendicazione di esclusività".

Qui non c'è punto comune o di continuità con la dottrina del Vaticano II. Io considero come inutili e concretamente erronei tutti questi tentativi di armonizzazione messi in atto da teologi come Basil Valuet, al quale fa riferimento Spaemann, o parte dei credenti tradizioanlisti, in vista della loro riconciliazione con l'ultimo concilio. In realtà questi tentativi seminano piuttosto confusione, perché arringhe del genere mascherano il vero problema e attraverso questo l'originalità della dottrina del Concilio Vaticano II. Gli argomenti utilizzati sono falsi perché i tentativi di armonizzazione non tengono conto del contesto politico-giuridico e della distinzione dei livelli messi in evidenza da Benedetto XVI.

Non si può dunque affermare, come fa Bertrand de Margerie, che sia da parte di Papa Gregorio XVI che dal Concilio Vaticano II la libertà di stampa non è illimitata, di modo che c'è continuazione tra la condanna della libertà di stampa da parte di papa Gregorio XVI e la dottrina del Vaticano II. In realtà, quando papa Gregorio patrocinava una censura della stampa da parte dello Stato sotto controllo ecclesiastico in vista di servire la vera religione, il Vaticano II - come già i liberali del XIX secolo - fa riferimento ai limiti della libertà di stampa e di coscienza presenti nei diritti accordati ai cittadini, diritti definiti dalla legge e con possibilità di ricorsi tenendo conto dell'ordine e della morale pubblici. Questi limiti corrispondono alla logica di neutralità e di laicità propria dello Stato costituzionale, liberale e democratico, di fronte alle rivendicazioni religiose di verità, e non hanno nulla a che vedere con una "protezione della vera religione" ed una protezione del cittadino dalla "peste dell'errore religioso" né con una censura di Stato esercitata al servizio della Chiesa (come la praticava il Sant-Uffizio - oggi Congregazione per la Dottrina della Fede - nello Stato ecclesiastico del XIX secolo retto dal diritto canonico).

Nello stesso modo, la tolleranza com'è ancora insegnata da Pio XII nel suo discorso Ci riesce del 6.12.1953, e che non può essere esercitata in materia di religione che "in certe circostanze" e secondo il giudizio di valutazione dell'"uomo di Stato cattolico", non apre non più la via alla libertà religiosa. E ciò in ragione del diritto civile fondamentale della persona umana, che limita la competenza del potere di Stato nelle questioni religiose. Su questa base, tali giudizi di valutazione dell'"uomo di Stato cattolico" relativi alla tolleranza ormai non sono più possibili, perché sarebbero contrari al diritto. Così non si può avere un sedicente "diritto alla tolleranza", quel che secondo Basil Valuet si ritroverebbe presso Pio XII e sarebbe conforme alla dottrina del Vaticano II.

In alcun caso non si tratta qui - come scrive Robert Spaemann - d'un "conflitto di principi senza conseguenze", ma piuttosto della questione fondamentale concernente la relazione della Chiesa con la modernità, in particolare con la Stato costituzionale libero e democratico e, ben oltre, della questione della comprensione che la Chiesa ha di se stessa così che del suo rapporto al problema della costrizione nel campo religioso.

In realtà, sebbene abbia sempre rifiutato l'idea della conversione forzata, la Chiesa non ha in generale respinto l'idea della costrizione in materia religiosa. L'enciclica "Quanta cura" di Pio IX del 1864 non prendeva di mira gli atei liberali, ma l'influente gruppo dei cattolici liberali riuniti attorno al politico francese Charles de Montalembert. Si trattava in particolare di cattolici osservanti che difendevano l'esistenza dello stato pontificio (Montalembert è all'origine del principio "libera Chiesa in un libero stato" che più tardi sarà ripreso, sia pure in forma differente, da Cavour) e che, al congresso di Malines dell'agosto 1863, avevano rivendicato il riconoscimento dal parte della Chiesa della libertà di associazione, di stampa e di culto.

Ma queste rivendicazioni entravano in collisione con la posizione "tradizionale" della Chiesa, ricevuta in eredità dall'alto Medioevo, secondo la quale la Chiesa possiede il diritto di usare la costrizione – con l'aiuto di misure giuridiche penali – per preservare i cristiani dall'apostasia. "Abbracciare la fede è un atto di libertà", scrive Tommaso d'Aquino, "ma conservarla quando la si è abbracciata è una necessità" (Summa theologiae II-II, 10, 8, ad 3). I teologi che hanno preparato la "Quanta cura" si rifanno a questo principio. Lo si è interpretato in tal modo che si è considerato un obbligo dello stato, concepito come braccio secolare della Chiesa, preservare i fedeli, tramite la censura e il diritto penale, dalle influenze dannose alla fede e dall'apostasia.

È per questa ragione che Pio VI aveva condannato la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" della Rivoluzione francese, nel suo breve "Quod aliquantum" del 1791. Essa rappresenta l'apostasia pubblica di un'intera nazione. Per i cattolici, rivendicare la libertà religiosa può valere in uno stato di infedeli o di ebrei. Ma poiché la Francia è una nazione cristiana e i cittadini francesi sono dei cristiani battezzati, non può esservi una libertà civile generale di confessare una religione diversa dalla vera religione cattolica. Pio VI lo precisa: i non battezzati "non possono essere costretti a obbedire alla fede cattolica; gli altri invece 'sunt cogendi', devono esserlo".

Nel suo discorso del 2005, Benedetto XVI prende le difese della prima fase, quella "liberale" della Rivoluzione francese, che egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e radical-democratica, che portò al Terrore della ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la "Dichiarazione dei diritto dell'uomo e del cittadino" del 1789, sorta dallo spirito del parlamentarismo rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano.

La prospettiva del Concilio

Il Vaticano II ha avuto il merito di superare la tipica equiparazione effettuata dalla dottrina preconciliare tra la libertà religiosa, l'"indifferentismo" e l'"agnosticismo". Si tratta, per quanto riguarda il magistero della Chiesa, di una tappa storica che non può essere compresa che alla luce dell'"ermeneutica della riforma" preconizzata da Benedetto XVI.

Vale la pena di prendere seriamente in considerazione questa esigenza e non stemperarla in falsi schemi di continuità, che finirebbero per alterare la continuità vera e di conseguenza l'essenza stessa della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica.

Che ne è allora della "dottrina cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo", che secondo le dichiarazioni del Concilio sulla libertà religiosa dovrebbe essere "intangibile"? Effettivamente, questa affermazione è spesso citata per suggerire la "continuità senza rottura" nella tradizione della Chiesa, concernente, tra l'altro, la libertà religiosa. Su questo punto il Concilio sembra in effetti essere rimasto ambivalente.

Ma questa affermazione non è così ambivalente come sembra, poiché questi doveri morali – come dice il testo sopra citato – hanno come presupposto "l'immunità da qualsiasi costrizione nella società civile". L'antica dottrina sui doveri dello stato come braccio secolare della Chiesa non sembra più reggere, di fronte ai discorsi sui doveri "dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo".

Quali siano questi doveri, è intanto un'altra interpretazione ugualmente corretta di questa frase contestata a suggerirlo. Si tratta del Catechismo della Chiesa cattolica – un documento del magistero della Chiesa – che al n. 2105 afferma, citando il passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell'individuo che della società "rendere a Dio un culto autentico". Che la Chiesa realizza "evangelizzando senza posa gli uomini", affinché essi possano penetrare di spirito cristiano "la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui vivono". A ogni cristiano si chiede di far conoscere "l'unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica".

Questo è il modo – conclude l'articolo del Catechismo della Chiesa cattolica – col quale la Chiesa manifesta "la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane". La prospettiva del Vaticano II è dunque l'annuncio del Vangelo da parte della Chiesa e dell'apostolato dei fedeli, mirante a penetrare di spirito cristiano le strutture della società. Non una parola, invece, sullo stato che in quanto braccio secolare della Chiesa sarebbe titolato a proteggere il "diritto alla verità" anche con la forza, e tramite questa stabilire la regalità di Cristo sulla comunità degli uomini. La discontinuità è evidente. E più evidente ancora è la continuità, là dove essa è veramente essenziale e dunque necessaria.

APPENDICE. CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ: CHE NE È DELL'INFALLIBILITÀ DEL MAGISTERO?

Le reazioni di alcuni teologi alle riflessioni sopra esposte hanno rilevato che la mia interpretazione metterebbe in dubbio l'infallibilità del magistero della Chiesa, e dunque che essa non è accettabile poiché le mie osservazioni suggerirebbero una reale rottura nella continuità del magistero ordinario universale. [...]

Al fine di mostrare perché io considero tale critica come erronea e i suoi relativi timori come infondati, procederò [...] in cinque tappe.

1. La questione dell'infallibilità

L'infallibilità del magistero – afferma il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica al n. 185 – "si attua quando il romano pontefice, in virtù della sua autorità di supremo pastore della Chiesa, o il collegio dei vescovi, soprattutto riunito in un concilio ecumenico, proclamano con atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale". Allo stesso modo, l'infallibilità del magistero universale del collegio dei vescovi si attua "quando il papa e i vescovi, nel loro ordinario magistero, concordano nel proporre una dottrina come definitiva". Questa infallibilità non riguarda solo il dogma in senso stretto, ma la totalità della dottrina della fede e della morale, ivi compresa l'interpretazione della legge morale naturale e ogni altra proclamazione che abbia un rapporto storico o logico intrinseco con la fede, senza la quale il dogma non potrebbe essere correttamente compreso o conservato.

Il primo caso – definizione "ex cathedra" o concilio ecumenico – manifestamente non si verifica con la questione della libertà di religione. In effetti, il primo e finora unico concilio che si sia espresso su questo soggetto è stato il Concilio Vaticano II. Spetta giustamente a questo concilio di aver riconosciuto la libertà di religione. Allo stesso modo, nemmeno il magistero ordinario universale sembra essere qui in atto, poiché mai in precedenza il papa e i vescovi avevano condannato la libertà religiosa e proclamato questa condanna come una dottrina definitiva della Chiesa. Questo è stato piuttosto il caso di qualche papa isolato, in un lasso di tempo di un centinaio d'anni, e mai di una rivendicazione esplicita di voler presentare una dottrina definitiva in materia di fede o di costumi (anche se è così che questo è stato implicitamente compreso dai papi del XIX secolo).

Di primo acchito, dunque, sembra per lo meno molto improbabile che la discontinuità rilevata sopra nella dottrina della Chiesa sulla libertà di religione possa mettere in qualche modo in questione l'infallibilità del magistero, ivi compreso il magistero ordinario universale. Questa prima constatazione dovrebbe essere confermata da ciò che segue.

2. La sostanza dottrinale della condanna della libertà religiosa da parte di Pio IX

Se la si considera sotto il profilo della sua condanna sia dell'indifferentismo sia del relativismo religioso, dell'opinione secondo cui non c'è una verità religiosa esclusiva così come dell'opinione che tutte le religioni sono per principio uguali e che la Chiesa di Cristo non è l'unica via di salvezza, è innegabile che la condanna della libertà religiosa emessa da Pio IX toccava effettivamente un aspetto centrale del dogma cattolico. Tale è parsa in ogni caso la vera posta, in quell'epoca. Se dico "tale è parsa" è perché – come il Vaticano II ha mostrato – la dottrina della verità esclusiva della religione cristiana e dell'unicità della Chiesa di Gesù Cristo come via di salvezza eterna non è in realtà minimamente intaccata dall'accettazione della libertà di religione e di culto.

Come insegna il Vaticano II, il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in alcun modo che tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle persone e non concerne la questione di sapere in quale misura ciò che le persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che i fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà di culto non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le religioni debbano essere "ugualmente vere".

Che fosse questo ciò che significava la libertà di religione o la libertà di culto, era appunto, come si è mostrato sopra, la convinzione dei papi del XIX secolo e della teologia dominante in quell'epoca. Per essi ciò voleva anche dire che abbandonare il principio secondo il quale lo stato di un paese cattolico ha per compito e per dovere di proteggere e favorire la verità cattolica, di negare il diritto di esistere a ogni confessione religiosa deviante o, al massimo, di tollerarla entro certi limiti e nella misura del ragionevole, finiva con l'ammettere "ipso facto" che non c'è una sola vera religione e Chiesa, ma che tutte le religioni si equivalgono. Ora, va da sé che all'epoca la Chiesa non poteva accettare una tale visione delle cose, e d'altra parte non lo può neppure oggi. Tuttavia, oggi la Chiesa ha modificato la sua concezione della funzione dello stato e dei suoi doveri verso la vera religione, una concezione che in realtà non è affatto di natura puramente teologica né ha a che fare con la natura della Chiesa e la sua fede, ma concerne la natura dello stato e la sua relazione con la Chiesa. Si tratta dunque, al più, di una questione concernente un aspetto della dottrina sociale della Chiesa.

Così, quando Benedetto XVI afferma che il Concilio Vaticano II "con il decreto sulla libertà religiosa ha riconosciuto e fatto suo un principio essenziale dello stato moderno", manifesta chiaramente una concezione della natura e dei doveri dello stato molto diversa e opposta alla concezione dello stato di Pio IX, come pure alla visione tradizionale della sottomissione del potere temporale al potere spirituale. Una tale discontinuità non significa rottura con la Tradizione dottrinale dogmatica della Chiesa, né una deviazione dal "depositum fidei" e da "quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est", da ciò che è creduto dovunque, sempre e da tutti, secondo il canone di Vincenzo di Lérins. Di conseguenza, non può esserci contraddizione, qui, neppure con l'infallibilità del magistero ordinario universale della Chiesa, dal momento che una tale contraddizione non è di per sé possibile.

È vero che la dottrina sul potere temporale elaborata a partire dalla Tradizione apostolica, e specialmente dalla Sacra Scrittura – che comprende le lettere di san Paolo – contiene degli elementi essenzialmente di diritto naturale che per questo sono anche oggetto del magistero infallibile della Chiesa. Si tratta in particolare della dottrina che insegna che ogni potere viene da Dio, che i governanti e le autorità civili fanno parte dell'ordine della creazione, e che in coscienza, e dunque per ragioni morali, ciascuno deve obbedienza all'autorità civile e deve riconoscere ad essa anche il diritto di adottare delle misure penali. Sarebbe tuttavia eccessivo affermare che questi principi contenessero anche delle indicazioni sulla relazione tra la Chiesa e lo stato, sui doveri dello stato verso la vera religione o sul diritto della Chiesa di far valere le sue pretese sul braccio secolare dello stato, come strumento sia di condanne puntuali che di loro conseguenze civili. Non fu che nel corso del tempo e sotto l'influsso di diverse situazioni e bisogni storici che tali posizioni o dottrine si sono costituite, principalmente in relazione alla battaglia della Chiesa per la "libertas ecclesiae", la libertà della Chiesa rispetto al controllo e alla tutela civile e politica. Questo fu un processo estremamente complesso, delle cui diverse tappe ho trattato in altre pubblicazioni.

A questo proposito bisogna anche sottolineare che la discontinuità rilevata da Benedetto XVI a livello dell'applicazione dei principi non implica alcuna rottura nella continuità dell'intelligenza del mistero della Chiesa. Al contrario, Benedetto XVI constata che "la Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi". Si coglie qui, mi sembra, la vera preoccupazione di Benedetto XVI per una "ermeneutica della discontinuità e della rottura" che vede nella Chiesa del Vaticano II un'altra Chiesa, una nuova Chiesa. Secondo il papa, i sostenitori di una "ermeneutica della discontinuità e della rottura" avrebbero considerato il Concilio "come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova". In realtà, spiega Benedetto XVI, i padri conciliari non avevano ricevuto un tale mandato. Parlando di continuità e di discontinuità a differenti livelli – da una parte quello del dogma, dell'intelligenza del mistero della Chiesa, della comprensione sempre più vera e profonda del "depositum fidei" da parte della Chiesa e, dall'altra parte, il livello dei modi sempre concreti e contingenti della sua applicazione – "l'ermeneutica della riforma" difesa da Benedetto XVI non constata alcuna rottura nella comprensione della Chiesa. La Chiesa vi è compresa piuttosto come "un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del popolo di Dio in cammino".

3. Diritto naturale o diritto civile? Il cuore della dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa

Come argomenta un'altra obiezione, [...] il Vaticano II proclama nella sua dichiarazione "Dignitatis humanae", al n. 2, che "il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione". Ora, ciò significa che per il Concilio Vaticano II anche la libertà religiosa è un diritto naturale. Facendo ciò, il magistero infallibile della Chiesa si estende fino all'interpretazione della legge morale naturale e del diritto naturale. Di conseguenza, conclude l'obiezione, non può esserci qui né discontinuità né contraddizione, e sarebbe dunque falso affermare che il Vaticano II ha esplicitamente insegnato ciò che Pio IX ha condannato, cioè il diritto alla libertà di religione e di culto.

In effetti, il Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2106, lo dice chiaramente: "Tale diritto [alla libertà religiosa] si fonda sulla natura stessa della persona umana". È dunque certamente giusto dire che il Concilio Vaticano II considera la libertà religiosa come facente parte del diritto naturale. Ma è ugualmente vero dire che "Dignitatis humanae" al n. 2 rivendica che "questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società". La prospettiva del Vaticano II non è dunque semplicemente e unicamente quella del diritto naturale, ma è sempre anche quella della libertà religiosa "come diritto civile", cioè, in fin dei conti, come diritto alla libertà di culto. Di fatto, tale era anche la prospettiva di Pio IX, poiché la libertà di religione che egli condannava non era altro che il diritto civile alla libertà di culto rivendicata, tra gli altri, dall'ala cattolico-liberale. È dunque corretto dire che la rivendicazione da parte del Vaticano II della libertà religiosa come esigenza propria del diritto naturale, vale a dire il diritto civile alla libertà di culto, non è altro che ciò che era stato condannato nell'enciclica "Quanta cura" di Pio IX e nel suo allegato, il "Syllabus" degli errori.

Il diritto naturale in quanto tale non è dunque toccato affatto dalla discontinuità che è qui in questione. La contraddizione non scatta che al livello della rivendicazione del diritto civile, e non è quindi che di ordine politico. La dottrina del Vaticano II e la "Quanta cura" con il suo "Syllabus errorum" non si contraddicono dunque al livello del diritto naturale, ma al livello della sua applicazione giuridico-politica nelle situazioni e di fronte a dei problemi concreti. D'altra parte, la novità introdotta dal Vaticano II non poggia soltanto sul suo insegnamento della libertà religiosa come diritto naturale, ma anche sulla necessità che essa sia riconosciuta come un diritto civile, come libertà di culto. In altri termini, dalla concezione ben attestata della libertà religiosa come diritto naturale, il Vaticano II ha saputo trarre una nuova conseguenza concernente l'ordine giuridico positivo dello stato. Ebbene, Pio IX non aveva tratto questa stessa conseguenza; egli la considerava al contrario come nociva e falsa poiché – a suo avviso – implicava necessariamente l'indifferentismo religioso e il relativismo, tanto dal punto di vista dottrinale quanto nelle sue conseguenze pratiche. Viceversa, se il Concilio Vaticano II ha potuto farlo, è perché partiva da una concezione differente dello stato e della sua relazione con la Chiesa, il che gli ha permesso di spostare l'accento dal "diritto alla verità" al diritto della persona, del cittadino considerato in quanto individuo e della sua coscienza religiosa.

Così, ancora una volta, non è qui in gioco l'infallibilità del magistero ordinario nella sua interpretazione del diritto naturale, perché dire "applicazione" non è lo stesso che dire "interpretazione". In effetti, quest'ultima punta essenzialmente su ciò che concerne la legge morale naturale e la norma morale corrispondente, ma non si pronuncia sulla maniera in cui la legge naturale o il diritto naturale devono essere applicati, né si preoccupa delle conseguenze che bisogna trarne a partire da una situazione storica data. Che il magistero si esprima talvolta su una tale applicazione è inevitabile e può essere anche utile. Ciò detto, non si può tuttavia affermare che si tratterebbe in questi casi di "interpretazioni" magisteriali del diritto naturale o della legge morale naturale suscettibile di essere oggetto di infallibilità. Si tratta di realizzazioni e applicazioni concrete che, nell'epoca in cui sono fatte, possono essere impegnative per i fedeli cattolici, ed esigere la loro obbedienza. Ma non si tratta in alcun modo di insegnamenti che non potrebbero essere ricusati da decisioni magisteriali posteriori.

4. Discontinuità nella dottrina o unicamente in rapporto all'orientamento pratico-politico, disciplinare?

Per sfuggire al supposto pericolo d'una contraddizione dottrinale, si potrebbe tuttavia rifugiarsi dietro l'argomento che le condanne di Pio IX non sono state delle condanne dottrinali, ma unicamente disciplinari. Nel qual caso non ci sarebbe dunque una discontinuità dottrinale.

Ora, in primo luogo, nel discorso del papa del 2005 non si tratta di una opposizione tra, da una parte, delle affermazioni dottrinali e, dall'altra parte, delle decisioni di carattere pratico e disciplinare. In realtà, Benedetto XVI distingue ben di più tra i "principi" e "la maniera di metterli in pratica". In secondo luogo, considero questa obiezione come errata anche dal punto di vista storico, poiché nel XIX secolo tale questione era chiaramente di natura dottrinale. In effetti, Pio IX comprendeva la sua condanna della libertà religiosa come una necessità di ordine dogmatico e non solamente come una misura disciplinare (come sarà il caso più tardi del "Non expedit", un documento col quale il papa proibiva ai cattolici italiani di impegnarsi politicamente nell'Italia laica). Come abbiamo già detto, la rivendicazione della libertà religiosa o l'affermazione che la Chiesa non ha il diritto di imporre ai fedeli, con l'aiuto del "braccio secolare", delle pene o delle misure coercitive temporali era percepita all'epoca come un'eresia, o almeno come una maniera di arrivarci. Mi sembra dunque tanto storicamente quanto oggettivamente errato interpretare la condanna della libertà religiosa da parte delle autorità dell'epoca come una semplice misura di ordine pratico-disciplinare.

In effetti, per Pio IX era in pericolo la salvaguardia stessa dell'essenza della Chiesa, della sua rivendicazione di essere l'unica verità e causa di salvezza. Così, riconoscere la libertà di religione significava per lui negare queste verità; significava ugualmente indifferentismo e relativismo religioso. È proprio in questo che risiede anche la grandezza di questo papa che, a partire dalle posizioni teologiche del suo tempo – delle quali tuttavia non ha saputo discernere il carattere storico – ha agito certamente in uno spirito di fedeltà eroica alla fede e ha resistito come una roccia nella tempesta di un relativismo scatenato. I tempi non erano evidentemente ancora maturi perché la Chiesa si ponesse in questa battaglia difensiva in modo nuovo e differenziato.

È nel rigetto dell'indifferentismo e del relativismo religioso che si trova il cuore sempre valido tuttora di questa condanna del XIX secolo. Tuttavia, che questa battaglia contro l'indifferentismo e il relativismo religioso sia divenuta una battaglia contro il diritto civile alla libertà di religione e di culto, è stato dovuto alla concezione secondo la quale lo stato è il garante della verità religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello stato come del suo braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorale. Ora, una tale concezione dello stato non riposava minimamente sui principi della dottrina della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni e le pratiche del diritto ecclesiastico di origine medievale così come sulle loro giustificazioni teologiche.

A ciò bisogna aggiungere che la discontinuità magisteriale in quanto tale non è qui in gioco. Per Benedetto XVI non si tratta in primo luogo della continuità del magistero, ma di quella della Chiesa e della comprensione della Chiesa. Egli si oppone all'idea di una rottura tra la Chiesa "preconciliare" e "postconciliare", quale è presentata dai sostenitori di una "ermeneutica della discontinuità e della rottura". Nelle dichiarazioni magisteriali – in particolare in quelle attinenti questioni politiche, economiche e sociali – si trovano molti elementi che dipendono da congiunture storiche. Il magistero della Chiesa nel campo dell'insegnamento sociale contiene anche, accanto a principi immutabili e fondati sulla dottrina della fede, una massa di concretizzazioni che sono spesso, retrospettivamente, piuttosto dubbie. Non si tratta qui di un tipo di "insegnamento" simile all'insegnamento cattolico in materia di fede e di costumi, dove la Chiesa interpreta la legge naturale anche in maniera obbligante, come nei casi delle questioni concernenti la contraccezione, l'aborto, l'eutanasia e altre norme morali nel campo bioetico. In questi ultimi casi, non si tratta di semplici applicazioni della legge naturale e situazioni concrete, ma della determinazione di ciò che appartiene precisamente alla legge naturale e della norma morale corrispondente. In questo campo, il magistero ordinario universale è anche infallibile.

Le concezioni dominanti nel XIX secolo riguardo al ruolo e ai doveri del potere temporale verso la vera religione – concezioni fondate su dei modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma che hanno acquistato la loro forma definitiva soltanto all'interno dello stato confessionale moderno – possono rivendicare solo con estrema difficoltà per esse stesse il privilegio di riposare sulla Tradizione apostolica o di essere un elemento costitutivo del "depositum fidei".

Allo stesso modo, queste concezioni quasi neppure appartengono alle verità che possiedono una relazione storica o logica necessaria con le verità della fede o del dogma, verità che all'occorrenza sarebbe necessario mantenere al fine di conservare e d'interpretare correttamente il "depositum fidei".

Anzi, sembrerebbe che all'origine il cristianesimo abbia persino adottato una posizione alquanto opposta. È nato e si è sviluppato in un ambiente pagano; si è concepito, a partire dal Vangelo e dall'esempio di Gesù Cristo, come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica, e non ha richiesto dall'impero romano che la libertà di potersi sviluppare senza ostacoli. Riconoscendo e facendo suo attraverso il suo decreto sulla libertà religiosa un "principio essenziale dello stato moderno", afferma Benedetto XVI nel suo discorso, il Concilio Vaticano II "ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr. Mt 22, 21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi".

Tuttavia, il richiamo al Vangelo e ai primi cristiani è un tema che non è menzionato unicamente da Benedetto XVI. Esso costituisce prima ancora il cuore dell'argomentazione di "Dignitatis humanae", che dedica due paragrafi, l'11 e il 12, a una riflessione sulle origini. Il Concilio spiega laconicamente: "La Chiesa pertanto, fedele alla verità evangelica, segue la via di Cristo e degli apostoli quando riconosce come rispondente alla dignità dell'uomo e alla rivelazione di Dio il principio della libertà religiosa e la favorisce". È proprio il richiamo al Vangelo, alla Tradizione apostolica e alla testimonianza dei primi cristiani i quali, come sottolinea Benedetto XVI, hanno "respinto chiaramente la religione di stato", ciò che caratterizza veramente la dottrina sulla libertà religiosa del Vaticano II. Così, la concezione dei compiti e dei doveri dello stato verso la vera religione, che faceva autorità per Pio IX, è stata tacitamente archiviata dall'atto di magistero solenne di un concilio ecumenico.

5. Fedeltà alla fede. Tradizione e modernità politica

Il Concilio Vaticano II ha liberato la Chiesa da una zavorra storica secolare, le cui origini non risalgono alla Tradizione apostolica e al "depositum fidei", ma piuttosto a delle decisioni concrete dell'epoca post-costantiniana del cristianesimo. Queste decisioni si sono alla fine cristallizzate in tradizioni canoniche e nelle loro interpretazioni teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha cercato di difendere la sua libertà, la "libertas ecclesiae", dagli attacchi incessanti delle potenze temporali: si pensi in particolare alla dottrina medievale delle due spade che, all'epoca, cercava di giustificare teologicamente e biblicamente la comprensione della "plenitudo potestatis" del papa. Tuttavia, nel corso dei secoli, queste tradizioni canoniche e le loro formulazioni teologiche hanno cambiato la funzione e il tono. In seguito e nella tradizione degli stati sovrani confessionali moderni, esse sono diventate una giustificazione dello stato cattolico ideale, nel quale "il trono e l'altare" esistevano in stretta simbiosi e l'uomo di stato cattolico con zelo sosteneva la causa dei "diritti della Chiesa" invece che dei diritti civili alla libertà religiosa. Questa simbiosi e questa visione unilaterale che portavano al clericalismo e a una società clericale non hanno mancato di oscurare il volto autentico della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II ha osato qui un passo che ha fatto epoca. Tuttavia, ciò non ha cambiato la comprensione che la Chiesa ha di se stessa, né la dottrina della fede e della morale cattolica. Solo è stata ridefinita la maniera in cui la Chiesa concepisce la sua relazione al mondo e in particolare al potere temporale dello stato, una ridefinizione che in realtà si richiama alle origini, per così dire al carisma cristiano fondatore, e in particolare alle parole stesse di Gesù che invita a dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Né l'infallibilità del papa né quella del magistero ordinario universale del collegio episcopale sono stati colpite o sminuite da un tale passo. Al contrario, attraverso la dottrina del Vaticano II sulla libertà di religione si manifesta ancora più chiaramente l'identità della Chiesa di Gesù Cristo e quanto il magistero della Chiesa in materia di fede e di morale possiede una continuità, malgrado tutte le discontinuità storiche: cosa che costituisce d'altra parte il fondamento e l'argomento più convincente della possibilità della sua infallibilità. Per questo mi sembra che ogni interpretazione che cerchi di ripianare, per mezzo di espedienti argomentativi complicati, una qualsiasi discontinuità a questo quadro d'insieme, non è di alcun sostegno alla difesa dell'infallibilità del magistero della Chiesa. Pur essendo motivata da ragioni pastorali in sé comprensibili e valide, ma alla prova dei fatti errata, una tale interpretazione complica inutilmente le cose. Per l'evidenza della sue intenzioni concrete riguardanti la politica ecclesiastica, può persino avere un effetto controproducente e così portare danno alla credibilità del magistero.

Invece, a quelli che, come i tradizionalisti riuniti attorno alla Fraternità Sacerdotale San Pio X dell'arcivescovo Lefebvre, non sanno più vedere nella Chiesa del Vaticano II "la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica" della Tradizione e parlano di rottura disastrosa con il passato, si può controbattere che effettivamente c'è qui una disputa insanabile sulla concezione della Chiesa, così come dello stato e dei suoi doveri. È per questo che questi tradizionalisti, per i quali manifestamente "la tradizione in quanto tale" e "le tradizioni ecclesiali" sono più importanti della Tradizione apostolica, la sola che sia in fondo normativa, difficilmente accetteranno i tentativi di mediazione sopra menzionati, poiché questi passano a lato del cuore del problema, che non è altro che la discontinuità realmente esistente. [...]

Il Concilio Vaticano II ci pone effettivamente davanti a una scelta: la scelta tra, da una parte, una Chiesa che cerca di affermare e di imporre la sua verità e i suoi doveri pastorali per mezzo del potere civile e, dall'altra parte, una Chiesa che riconosce – ciò che sostiene "Dignitatis humanae" al n. 1 – che "la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore". Non si tratta qui di due Chiese distinte nel senso dogmatico o costitutivo, ma di due Chiese che comprendono in maniera diversa le loro relazioni con il mondo e con l'ordine temporale. Il Vaticano II non si pronuncia né per uno stato strettamente laico – nel senso della "laïcité" francese tradizionale – né per la messa al bando della religione nella sfera privata, ma per una Chiesa che non pretende più di voler imporre la regalità di Cristo per mezzo del potere temporale e che per questo fatto stesso riconosce allo stato moderno secolare – non militante – la sua laicità politica.

È precisamente questa la prospettiva del Vaticano II. Essa è stata confermata dalla nota dottrinale a proposito di alcune questioni sull'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica della congregazione per la dottrina della fede del 21 novembre 2002. [...] La missione della predicazione del Vangelo da parte della Chiesa e ad opera dell'apostolato dei fedeli laici che vi si fondano consiste nel penetrare dello spirito di Cristo le strutture della società, e per questa via favorire la manifestazione della regalità di Cristo. Il regno di Cristo non comincia con la confessione pubblica della vera religione, ma con l'annuncio della Chiesa nel cuore degli uomini, fino a farlo penetrare con l'azione apostolica dei comuni fedeli in tutta la società umana, così come in tutte le sue strutture e realtà di vita.

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