La “riforma della riforma” è già cominciata
Sandro Magister, su l'espresso del 28 aprile 2005

Il suo primo atto è stata la messa d’inizio del pontificato. Benedetto XVI papa della grande tradizione liturgica, con al centro l’eucaristia. Fatta di testi, di riti, di arte, di musica. E di luoghi simbolici


La mattina di domenica 24 aprile Benedetto XVI ha inaugurato il suo “ministero petrino di vescovo di Roma” nella luce solare di una piazza San Pietro straripante di folla.

Ma la sua volontà iniziale era un’altra. La sua prima messa solenne da papa avrebbe voluto celebrarla non nella piazza ma dentro la basilica di San Pietro. “Perché lì l’architettura indirizza meglio lo sguardo non al papa ma a Cristo”, disse ai maestri di cerimonia mercoledì 20 aprile, suo primo giorno pieno da eletto. Solo l’immenso numero di fedeli in arrivo l’ha indotto poi a optare per la liturgia a cielo aperto.

In quello stesso giorno, parlando ai cardinali nella Cappella Sistina, mise subito in chiaro che al primo posto del suo programma di successore di Pietro, al di sopra di tutto, ci sarà l’eucaristia. La definì “il centro permanente e la fonte del servizio petrino che mi è stato affidato”.

Le due cose, la forma e il contenuto delle celebrazioni, sono per lui legatissime. E hanno il loro rovescio in un passaggio di quelle meditazioni choc per la Via Crucis dello scorso Venerdì Santo che Joseph Ratzinger scrisse da cardinale: “Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di Lui!”. Dove Lui sta per Gesù Cristo crocifisso e risorto, il grande assente di tante nuove liturgie divenute “danze vuote attorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”.

Per Benedetto XVI, nel solco della grande tradizione cristiana, la messa, o eucaristia, è il sacramento che crea la Chiesa, la modella, e ne dà l’immagine al mondo.

L’ha ridetto ai cardinali nel suo primo discorso programmatico: l’Eucaristia è “cuore della vita cristiana e sorgente della missione evangelizzatrice della Chiesa”.

Per questo ha curato con attenzione massima la celebrazione d’inizio del suo pontificato: una prima assoluta nella storia dei papi moderni per ricchezza ed eloquenza di simboli.

Il luogo, anzitutto. Lì v’era il circo in cui l’imperatore Nerone martirizzò l’apostolo Pietro. Gianlorenzo Bernini lo ridisegnò nel Seicento in forma d’anfiteatro davanti al nuovo palco imperiale, il frontone della basilica, dalla cui sommità il Cristo risorto avanza col vessillo del suo trionfo, la croce trasformata in trofeo. Benedetto XVI, ultimo successore di Pietro, proprio da lì ha voluto iniziare la celebrazione: dalla tomba dell’apostolo sotto l’altare maggiore della basilica. E da lì ha raccolto le insegne: il pallio patriarcale in lana d’agnello e l’anello del “pescatore di uomini”.

Atto secondo: la processione. Ciò che i fedeli dalla piazza non potevano vedere, l’hanno visto sui maxischermi tv, così come gli spettatori dei paesi più lontani. Il nuovo papa, con i cardinali in fila davanti a lui, avanzava dal centro della basilica verso la piazza, al seguito della croce e del Vangelo. Il baldacchino con le colonne tortili, altra geniale invenzione di Bernini, prospetticamente li inquadrava e sembrava muoversi con essi. Ma il vero motore visuale di tutto era lo Spirito Santo al centro della raggiera di luce dell’abside, che infiammava la cattedra dell’apostolo Pietro, torceva le colonne del baldacchino e, fuori, gonfiava il colonnato della piazza, facendola sacro teatro della Chiesa in cammino fra terra e cielo.

Accompagnava la processione il canto delle “Laudes Regiae”, gregoriano purissimo dell’epoca di Carlo Magno. Anche su questo Benedetto XVI è stato molto esigente. Il coro della Cappella Sistina ha eseguito canti esclusivamente in gregoriano e in polifonia classica, tutti in lingua latina.

Persino a rito terminato, mentre il papa girava per la piazza a salutare i fedeli su una campagnola scoperta, lo sfondo sonoro è stato scelto con cura: toccata e fuga in re minore per organo di Johann Sebastian Bach.

Il cuore dell’intera liturgia è stato naturalmente la messa sul sagrato della basilica. Col papa a presiedere. Ma attorno a lui e all’altare c’era la corona dei cento e più cardinali concelebranti. E soprattutto, più visibile che mai, ad attrarre lo sguardo era l’arazzo fatto scendere a coprire la porta centrale della basilica, col vero protagonista del sacramento: il Cristo risorto che sulle rive del lago spezza il pane con gli apostoli e dà a Pietro il mandato di pascere la Chiesa, ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni cantato in latino ed in greco.

Nell’omelia, nessun programma di pontificato. Ma i fatti parlavano. La messa stessa era attuazione del primo punto del programma già annunciato quattro giorni prima.

Benedetto XVI ha spiegato simboli e letture. Il pallio come giogo di Cristo, come pecorella perduta e salvata dai deserti esteriori e interiori, come Dio fatto agnello, per un mondo “salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori”. E poi l’anello del pescatore, la rete del Vangelo che tira fuori gli uomini “dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, la luce di Dio”, e il “non abbiate paura” finale, perché “ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio, ciascuno di noi è voluto, amato, necessario”, non il prodotto “casuale e senza senso dell’evoluzione”.

Con la sua straordinaria passione per la liturgia, Benedetto XVI è indiscutibilmente papa della grande tradizione: fatta di testi, di riti, di arte, di musica. Anche il Concilio Vaticano II è partito da lì: l’impronta più memorabile che ha lasciato è quella della riforma liturgica.

Ma fin da subito Ratzinger ne vide e ne denunciò gli stravolgimenti. Arrivò a scrivere: “Sono morti che seppelliscono altri morti, e definiscono ciò riforma”.

Il suo ultimo libro organico, non una raccolta di saggi, pubblicato nel 2001, ha per titolo “Introduzione allo spirito della liturgia” e delinea una “riforma della riforma”. Sotto i cui colpi tremano anche molte innovazioni spettacolo introdotte nei riti di massa cari a Giovanni Paolo II.

Il primo viaggio di Benedetto XVI in Italia sarà a Bari a fine maggio, al congresso eucaristico nazionale. Ha annunciato che ridarà “particolare rilievo” alla festa del Corpus Domini, in giugno. Alla giornata mondiale della gioventù, in agosto, metterà “l’eucaristia al centro”. In ottobre presiederà un sinodo dei vescovi interamente dedicato all’”Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa”, con primo relatore il suo discepolo Angelo Scola, patriarca di Venezia.

Ma più di tutto saranno le liturgie papali a far da prototipo in tutto il mondo della “riforma della riforma”.

Quella inaugurale di domenica 24 aprile ne è stata il primo formidabile atto.

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Promemoria sulla “Dominus Jesus”

Di Joseph Ratzinger, prima che fosse eletto papa, una era la cosa più nota e più avversata: la dichiarazione “Dominus Jesus” del 6 ottobre 2000 “sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa”.

Nella sua prima settimana da papa, Benedetto XVI non l’ha citata esplicitamente. Ma nella messa d’inizio del suo pontificato, domenica 24 aprile, ha di fatto ribadito con la massima forza la dottrina centrale della “Dominus Jesus”. Che è poi il nucleo della fede del Nuovo Testamento.

Nell’omelia, ha detto che il suo programma non è di “perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui”.

Detto e fatto. Nella messa è stata proclamata come prima lettura una pagina degli Atti degli Apostoli, capitolo 4, nella quale l’apostolo Pietro dice così di Gesù:

In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiate essere salvati”.

Lo stesso giorno di domenica 24 aprile in tutte le chiese del mondo si leggeva il capitolo 14 del Vangelo di Giovanni in cui Gesù dice di sé:

“Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. 
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[Fonte: l'espresso.it del 28 aprile 2005
 

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