«Il veleno contro la spada»
Anfreas Hofer, 13 marzo 2012

Ci sono sempre Termopili presso cui morire
(Nicolás Gómez Dávila)

Cos’è che ultimamente rende emblematico lo scontro – raccontato nelle sue linee essenziali in questo bellissimo editoriale di Roberto Marchesini – tra l’antagonista No-Tav e il carabiniere in tenuta antisommossa? Cos’è che rende vile l’insultante atteggiamento dell’uno e valorosa la composta reazione dell’altro?

Valoroso, dice Romano Guardini, è colui che vede il pericolo, vede il male ergersi ostile contro di sé. Ma resta saldo e affronta le insidie della vita senza farsene intimidire. Uomo di valore non è il fanatico divorato da uno slancio cieco, consumato dall’urgenza bruciante di imprimere con violenza il proprio marchio alla realtà perché incapace di riconoscere limiti al proprio agire.

Portatore di coraggio è, invece, l’uomo consapevole della propria caducità, chi conosce e accetta il fatto che la condizione umana sia segnata dal limite e dalla vulnerabilità, esposta al costante rischio della ferita. La nostra vita terrena va verso la morte e nulla può modificare questo stato di cose. Il valoroso non è un utopista irrealistico, accecato dall’impossibile. Tutt’altro. Al fondo del coraggio – ed è questo a marcarne irrevocabilmente la distanza dal fanatismo cieco – si trova la profonda convinzione che «nell’intimo dell’uomo c’è qualcosa che non può essere distrutto, che anzi da ogni cosa ricava alimento, che in ogni cosa si fa più forte, più ricco, più profondo se la vive e la si attraversa come si deve: questo perché ogni cosa viene dalla potenza creatrice di Dio» (R. Guardini, Virtù, Morcelliana, Brescia 2008 (5a ed.), p. 117).

Il No-Tav lo sa: l’alimento che nutre la dignità del suo opponente è interiore. E proprio per questo, non potendo piegare il corpo del suo nemico, cerca di corromperne l’anima. La divisa del carabiniere simboleggia la sottomissione dell’individuo che l’indossa a una forma superiore, dice la sua adesione a valori perenni cui è disposto a sacrificare la propria esistenza materiale. Questa tensione ideale, con tutto quel che comporta in termini di abnegazione e magnanimità, è ciò che deve essere abbattuto.

Sia chiaro: non si tratta di scadere in una facile retorica bellicistica, nel mito eroicizzante. Quel confronto ripreso da una telecamera in Val di Susa più che alla glorificazione di un singolo individuo deve rimandare alla contrapposizione tra due irriducibili ordini di valori: l’universo della forza e l’orizzonte della violenza. Dire forza equivale a evocare un cosmo, un ordine dell’essere. Nella forza, che non a caso si accompagna al diritto, di cui è presidio, v’è la presenza di un elemento ideale. Per questo esiste una profonda connessione tra forza e misura, coi suoi corollari di disciplina e autocontrollo. La violenza, invece, è smisurata: suole manifestarsi sotto le forme tumultuose ed emozionali del caos. Nemmeno è un caso che della violenza si dica che “scoppia” e “esplode”. Solo la forza, che ben conosce e sa rispettare il proprio limite, è implosiva.

Consapevole di essere, in quel momento, numericamente inferiore sul piano della pura costrizione fisica, l’attivista No-Tav cerca di degradare moralmente l’avversario con l’ausilio della suggestione velenosa. In questo sta la sua viltà. Ancora una volta il lupo, vedendosi troppo debole per assalire apertamente il gregge, assume una maschera di finzione e si fascia con la pelle della pecora… È quella che Gustave Thibon ha chiamato «la violenza indolore ma corruttrice, che si ribella alla violenza che fa male. È il veleno che protesta contro la spada» (G. Thibon, La violenza al servizio della libertà, in AA.VV., Forza e violenza, Volpe, Roma 1973, p. 146).

Il giovane carabiniere è sottoposto alla sottile tentazione che vediamo aggirarsi sibilante tra le pagine del Signore degli Anelli. Perché sacrificare l’efficienza al valore? Perché non fare uso dell’anello forgiato dall’Oscuro Signore di Mordor? Perché non servirsi di mezzi malvagi pur di assicurare un rapido trionfo alla propria causa?

La tentazione è intrigante, prepotente come la hybris del No-Tav. Ma il venticinquenne carabiniere ne conosce certamente il prezzo: la perdita della dignità, l’annullamento di ogni distinzione tra bene e male, tra forza e violenza, tra onore e codardia. La sua risposta mostra il vero volto della fortezza: regge lo sguardo ostile e rimane lucido, sopporta l’avversità, non cede alla provocante irrisione e aspetta pazientemente, tace.

Questo atteggiamento indica non il passivismo inerte di chi subisce, magari con animo torbido e gonfio di risentimento. Fortezza fa rima con resistenza, è virtù attiva, implica un’attività spirituale con cui ci si attiene al bene aggrappandovisi con vigore ed energia. La silenziosa, paziente fermezza con cui l’uomo dell’Arma sopporta l’irritante violenza verbale che lo aggredisce rappresenta il marchio dell’autentica virtus: «La fortezza – scrive infatti Josef Pieper – presuppone la vulnerabilità: senza vulnerabilità non vi è assolutamente la possibilità di fortezza. Un angelo non può essere forte, poiché non è vulnerabile. Esser forte significa cioè: saper accettare una ferita. L’uomo può essere forte perché è essenzialmente vulnerabile » (J. Pieper, La fortezza, Morcelliana, Brescia 2001, p. 33).

La ferita estrema è la morte. In questa disposizione a morire per il bene, in questo atteggiamento sacrificale si trova il fondamento della fortezza. È questa differente disposizione a scavare l’abisso incolmabile che divide i due antagonisti. È tanto valorosamente forte il carabiniere sardo quanto è miseramente vile il manifestante No-Tav. Sa, quest’ultimo, di non rischiare nulla, ché il militare è vincolato al suo onore, al senso del dovere, all’ordine ricevuto; sa di essere filmato, protetto anche dalla telecamera. Si sente invulnerabile, sottratto alla possibilità d’essere ferito. La viltà, quaggiù sulla terra, è il contrassegno dell’invulnerabilità. Forse è segretamente attratto da quel silenzio spartano, dalla limpidezza di quella forza trattenuta e controllata, di cui non può non percepire, nei meandri dell’animo, l’intima superiorità morale. Ma non potendo sovrastare questa Termopili dello spirito l’istinto nichilista tenta allora di demolirla interiormente. Occorre denigrarla per precipitarla con sé nel nulla. Invano: vale per la virtù autentica quel che cantano i versi di Saffo del dolce pomo, posto troppo in alto per poter essere colto.

C’è sull’alto del ramo, alta sul ramo
più alto, una mela
rossa:
dai coglitori fu dimenticata.
Dimenticata? No! non fu raggiunta.
(Il dolce pomo, in Lirici greci, a cura di Simone Beta, Einaudi, Torino 2008, p. 105)


Andreas Hofer è anche autore del blog filia ecclesiae

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