Fides Catholica n.1-2009
EDITORIALE
Ritornare a parlare del Concilio? Sì, perché si tratta di un tema spinoso
e sempre carico di sorprese. Nella Chiesa di oggi si può leggere sul viso
dei cattolici un duplice stato d'animo: baldanza e amarezza. Esiste tra il
Popolo di Dio una frattura. Da un lato regna l'entusiasmo per il un nuovo
essere della Chiesa nel mondo, dall'altro, si fa fatica ad effettuare un
giusto discernimento su come la Chiesa deve essere in se stessa. Su com'era
e su come sarà.
Ritorniamo al Concilio perché è un argomento che non si è chiuso
felicemente, né è stato placidamente ricevuto. C'è bisogno di mettere i
puntini su diverse "i". Dopo oltre quarant'anni dalla sua chiusura, s'impone
all'osservatore, anche il più improvvido, un fatto innegabile: si aggira tra
i cristiani una sorta di paura e di reticenza nei confronti della Chiesa.
Abituati a pensare e a parlare del Concilio tanti dimostrano addirittura un
senso d'imbarazzo quando sono sollecitati a pronunciarsi sulla Chiesa che fu
qualche anno prima dell'inizio della grande svolta conciliare.
La Chiesa "di prima" normalmente è bollata con tanto di anatemi,
soprattutto per la sua ritrosia verso il mondo, mentre la Chiesa "di oggi" è
semplicemente sullodata per il suo grande spirito di apertura al mondo, alla
storia, al tempo. Lo spartiacque tra questo "prima" e "dopo" è rappresentato
dal Concilio, nome ormai che si è imposto per designare il Vaticano II, il
Concilio della Chiesa, il superdogma della fede.
Purtroppo, questo senso di imbarazzo, quando non di vergogna per la
Chiesa che fu, esprime qualcosa di più profondo del semplice novello afflato
intramondano. Stiamo vivendo una spersonalizzazione della fede. Con questo
intendiamo uno smarrimento di senso dell'essere cristiani. La forte
concentrazione sul mondo e sulla comunicazione con esso ha causato una
perdita di significato della propria identità cattolica. Non sappiamo più
chi siamo. Siamo "adulti" perché non abbiamo più paura di nessun errore, ci
confrontiamo con tutti e con tutto, ma non sappiamo più cos'è essere
cristiani.
Per tanti il Concilio è proprio questo "spirito nuovo", e son gli stessi
che al sol sentire la parola "Pio V" si ricollegano subito alla Messa
tridentina o "Pio X" e pensano agli eversivi lefebvriani. Si ha vergogna di
quello che questi due santi pontefici sono stati per la Chiesa. Si è
smarrito profondamente il sensus fidei della Tradizione della fede e "fede"
rappresenta ormai un nuovo cominciamento. Si sguazza nelle novità, e si dice
che è vero solo ciò che è nuovo ed è nuovo ciò che ormai riesce a liberarsi
del peso insopportabile di quegli anni bui della Chiesa di prima.
C'è una rincorsa alla novità. Si favorisce chi dice le novità. E i
novatori scialacquano festanti al pubblico in massa le novità. Il pubblico
plaude. Il mondo li segue. Ma non sappiamo più chi siamo. Per la stragrande
maggioranza dei nostri fedeli una religione vale l'altra, una Chiesa vale
l'altra. Cristo diventa l'unico che ha predicato la pace per mettere tutti
d'accordo. Siamo tutti d'accordo: dunque siamo nel solco dei tempi nuovi che
la stagione conciliare avrebbe inaugurato. E così la fede langue, l'identità
del cristiano è sepolta nei secoli che furono. Ecco i motivi per
reinteressarsi del Vaticano II e cercare di cogliere gli elementi nodali sui
quali si innervano le ragioni di questa crisi, di questa spersonalizzazione
della fede. Così si desidera auspicare un ritorno a Cristo e alla Chiesa.
Dopo quello storico discorso di Benedetto XVI alla Curia romana del
dicembre 2005 che chiaramente evidenziava il rischio di contrapporre alla
giusta ermeneutica del Concilio, quella «della riforma nella continuità» una
della «discontinuità e della rottura», lumeggiando il fatto che la Chiesa è
sempre l'unico Soggetto che vive nel tempo e che pertanto la rottura con la
Tradizione e un nuovo inizio sarebbe fatale per la vita stessa della Chiesa,
il Papa è ritornato sulla necessità di interpretare correttamente il
Concilio.
Nell'accorata Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, del 10 marzo
2009, riguardante la remissione della scomunica dei vescovi consacrati da
Lefebvre il Pontefice dice: «Non si può congelare l'autorità magisteriale
della Chiesa all'anno 1962 - ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma
ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve
essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l'intera
storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio,
deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le
radici di cui l'albero vive» (1).
Dopo poco tempo il Papa riaffronta l'argomento del Concilio. L'occasione
è data dal discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il
Clero, il 16 marzo 2009. Sottolineando l'importanza che la missione del
presbitero sia oggi sostenuta da una formazione permanente soprattutto in
ambito dottrinale, il Pontefice richiama alla necessità di rifarsi
«all'ininterrotta Tradizione ecclesiale» e di «favorire nei sacerdoti,
soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del
Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio
dottrinale della Chiesa» (2).
Si vede che è un argomento che sta particolarmente a cuore al Papa; la
sua reiterazione magisteriale evidenzia una problematica e una crisi che ha
proprio lì una delle radici principali. Le due ermeneutiche riflettono in
definitiva due visioni di fondo in contrapposizione tra loro: la Chiesa come
mistero "dato" da accogliere e la Chiesa come mistero "trovato" nel tempo e
nella storia per trasmetterlo agli uomini.
La problematicità interpretativa del Concilio si evidenzia sin
dall'inizio. Già nel IV periodo conciliare nella fase del 1964-65 si
avvertivano i primi disagi tra ciò che era scritto nei documenti e quanto
invece poteva essere compreso privilegiandone lo spirito. Un esempio
emblematico è quanto scrive il Card. Siri in una lettera inviata alla sua
diocesi genovese all'indomani del terzo periodo. Siri ricordava che «il
concilio è negli Atti scritti e confermati, non nel rimanente...Qualunque
altra impressione è soggettiva, può essere interessata, facilmente diviene
ingannevole. Nessuno si comporti come se fosse iniziata un'allegra fiera ai
danni della verità e della disciplina ecclesiastica» (3).
Un breve status quaestionis
L'attuale ricerca teologica si confronta in modo sempre più preponderante
sulle dinamiche del Concilio e sulla sua interpretazione e trasmissione.
Come sono due le ermeneutiche interpretative, così sono divisibili anche in
due gli approcci teologici al Vaticano II: quello della "continuità
evolutiva" in linea con la Tradizione e quello della "discontinuità
pastorale" (di questa formula renderemo ragione nel corso dell'esposizione)
che privilegia il connotato storico degli asserti di fede e richiede una
storicizzazione del Concilio.
Recentemente B. Gherardini ha pubblicato un libro,
Concilio Ecumenico
Vaticano II. Un discorso da fare (4) in cui evidenzia che un'errata
ermeneutica della rottura applicata al Vaticano II ha portato la Chiesa di
oggi a considerarsi ormai come la vera Chiesa e l'unica Chiesa degna di
sopravvivere. È «vero ed incontestabile - scrive - che Magistero teologia ed
operatori pastorali han fatto del Vaticano II un assoluto. Un errore di
fondo, sul quale si è costruito l'edificio postconciliare e contro il quale
occorre finalmente reagire» (5).
Accanto ad un reiterato appello ad organizzare gruppi di studi
specializzati che studino in modo critico e scientifico i documenti del
Concilio mostrandone la loro vera indole e il loro legame dogmatico con la
Tradizione, espungendone quello spirito soggettivo che anima l'analisi,
Gherardini propone fondamentalmente due cose per ricucire lo strappo che si
è verificato tra la Chiesa pre-conciliare e quella post-conciliare (una
distinzione già sintomatica di un notevole disagio dogmatico): definire in
modo teologico ed inequivocabile la natura pastorale del Vaticano II e
rispiegare precisamente il lemma "Tradizione", leggendolo nel solco della
fede della Chiesa come altro dalla Scrittura e non come inglobato in essa
fino a risultare un duplicato di cui sbarazzarsi.
Gherardini parte dall'ermeneutica della continuità come indicato dal
Pontefice a cui aggiunge un attributo interessante, (in verità sin dal suo
insegnamento universitario) e la definisce «ermeneutica evolutiva» (6),
unica capace di rispondere a quella domanda di capitale importanza: «il
Vaticano II s'iscrive o no nella Tradizione ininterrotta della Chiesa, dai
suoi inizi ad oggi?» (7). Proprio in ragione di un'evoluzione della
comprensione della verità e non di una mutazione della verità in sé, il
Vaticano II fa parte dell'unica vita della Chiesa, n'è un momento solenne ed
espressivo di tutta la storia che lo ha preceduto e in questo modo diventa
anche profezia per il tempo che verrà. La Chiesa «non è una successione di
quanti, ma una sua interrotta ed armonica durata, della quale ogni Concilio
Ecumenico è un momento essenziale, organicamente - direi perfino
"biologicamente" - collegato con quelli che l'avevano preceduto, costituendo
con essi il patrimonio "biologico", grazie al quale la Chiesa ha finora
vissuto, vive e vivrà» (8).
Questo approccio ermeneutico però non sarà proficuo senza decidersi a
riconoscere la natura pastorale del Concilio. Dire che il Vaticano II è un
concilio pastorale significa che non lo si può considerare come l'unico
concilio della Chiesa e non si può attribuire valore dogmatico-definitorio
ai suoi testi a meno che non faccia un chiaro ed esplicito riferimento ai
dogmi definiti in precedenti concili e all'insegnamento dogmatico
precedente. «È pertanto lecito riconoscere - scrive Gherardini - al Vaticano
II un'indole dogmatica solamente là dov'esso ripropone come verità di Fede
dogmi definiti in precedenti Concili. Le dottrine, invece, che gli son
proprie non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione
che son prive dell'ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa
"voluntas definiendi"» (9).
Il Magistero del Concilio è dunque un magistero solenne della Chiesa ma
non irreformabile, di natura pastorale, e perciò suscettibile, in diversi
luoghi, di perfettibilità dogmatica, di ancoraggio più esplicito alla Fede
della Chiesa. L'afflato pastorale che anima il Concilio deve essere
necessariamente verificato alla luce della ricezione storica dei suoi
documenti, dei miglioramenti verificatisi, degli approfondimenti, come dei
disguidi, delle perplessità, degli smarrimenti dottrinali e di tanta
superficialità prodottasi. È proprio il criterio pastorale che invoca una
revisione, onde essere all'altezza dei tempi con i quali chiede il
confronto. Bisogna nuovamente bilanciare quel rapporto diadico di dogmatica
e pastorale: questa in funzione di quella e mai viceversa.
Di qui deriva l'altro punto fondamentale da chiarire, intorno al quale si
attesta l'attuale enfasi che vede il Vaticano II come correttivo al
Indentino e al Vaticano I circa il senso della Traditio, vista non
eccessivamente distinta dalla Scrittura. Gherardini su questo è molto
palese: «Sì il Vaticano II portò al riguardo un suo correttivo. Ma non è
detto ch'esso sia stato anche un grande progresso» (10). In che senso?
Gherardini prima di tutto si chiede cosa significhi Traditio presso i Padri
e appura che la regula fidei oltre alla Scrittura è costituita anche dalla
Tradizione orale, intesa come Tradizione apostolica, non riducibile alla
Scrittura, ma di essa più ampia e col medesimo valore normativo. Questa è la
linea comune fino al Vaticano I.
Il valore normativo della Tradizione come regola prossima della fede (a
differenza della Scrittura, regola remota della fede) (11), viene ravvisato
da Gherardinì nel vicendevole integrarsi di Successione e Tradizione,
«perché qui si radica la "regula fidei" e perché il parlarne dovrebbe
partire da qui, non da quel sovrapporsi ed integrarsi di Scrittura e
Tradizione che ne farebbe "una cosa sola"» (12). Invece, il Vaticano II
predilige in Dei Verbum 9 una certa unificazione tra Scrittura e Tradizione
in base ad una eguaglianza di origine e coincidenza di contenuti, riservando
alla Tradizione solo una differenza di espressione rispetto a quella della
Scrittura, correndo però il rischio di rendere superflua o l'una o l'altra
(13).
Dice Gherardini; «Per il Vaticano II e per la sua volgata interpretativa,
la Tradizione trasmette soltanto quanto contiene la Scrittura e ne applica
il contenuto scritto alla esigenze dei tempi. La qual cosa, però, è già
fuori della nozione classica dì Tradizione... come la storia della Chiesa
dimostra e qualche Padre apertamente dichiara» (14).
Non è forse proprio a causa dì questo impasse in cui si trova il lemma
"Tradizione" che si è smarrito il senso della fede e si vive quella
spersonalizzazione di cui parlavamo, arrivando addirittura a giustificare il
sedevacantismo in nome della Tradizione? Come si vede urge un lavoro di
chiarificazione di quello che il Concilio è stato, non con mezzi umani di
fortuna ma con il metro e l'acribia teologica. L'Autore poi continua nel suo
saggio evidenziando i punti di discontinuità che emergono dall'analisi dei
testi conciliari, i quali abbisognano di una chiara precisazione
magisteriale. Il lavoro dì serena maturazione dì queste altre pagine lo
lasciamo al lettore per analizzare ora il versante ermeneutico opposto che
abbiamo definito come "discontinuità pastorale".
Gli autori che si attestano su quest'altro versante che privilegia la
novità del Concilio, ciò che il Concilio è stato per la Chiesa, il suo
evento e dunque il nuovo modo di essere Chiesa nel mondo, preferiscono il
connotato storico come cuore dell'analisi dell'ermeneutica della
discontinuità. Su questa linea troviamo G. Alberigo e la Scuola bolognese,
il cui frutto d'attività accademiche è stato condensato nella Storia del
Concilio Vaticano II, diretta dallo stesso Alberigo ed edita in 5 volumi.
Nella premessa al vol. I Alberigo scrive: «Attardarsi in una visione del
concilio come la somma di centinaia di pagine di conclusioni -
frequentemente prolisse, talora caduche – ha sinora frenato la percezione
del suo significato più fecondo di impulso alla comunità dei credenti a
accettare il confronto inquietante con la Parola di Dio e con il mistero
della storia degli uomini... È sempre più attuale riconoscere la priorità
dell'evento conciliare anche rispetto alle sue decisioni, che non possono
essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e
prolungamento dell'evento stesso. La carica di rinnovamento, l'ansia di
ricerca, la disponibilità al confronto con l'Evangelo, l'attenzione fraterna
verso tutti gli uomini, che hanno caratterizzato il Vaticano II, non sono
aspetti folkloristici o comunque marginali e transeunti. Al contrario,
questo è lo spirito dell'evento conciliare, al quale la sana e corretta
ermeneutica delle sue decisioni non può che fare riferimento» (15).
Lo spirito dell'evento conciliare sarà colto a patto che si passi ad una
storicizzazione del Concilio stesso, ovvero una presa in seria
considerazione non solo di un modello istituzionale ma di un nuovo modo di
essere. Dice Alberigo: «È giunto il momento di operare una storicizzazione
del Vaticano II non per allontanarlo, relegandolo nel passato, ma per
agevolare il superamento della fase controversistica della sua recezione da
parte delle Chiese» (16). La fase controversistica deriva dall'appigliarsi
all'istituzione, alla lettera dei documenti, mentre bisogna fornirne anche
«lo spirito e la dialettica che hanno caratterizzato l'assemblea» (17).
Dunque, il lavoro ermeneutico per Alberigo richiede di seguire anche
«l'evoluzione della consapevolezza dell'assemblea e delle sue varie
componenti» (18).
Quando G. Angelini recentemente si è pronunciato circa l'ermeneutica
applicata al Concilio (19) vedendo nell'opera di Alberigo una distinzione
tra un'ermeneutica della "lettera" e una dello "spirito", G. Ruggeri è
insorto in difesa di Alberigo e della Storia del Concilio Vaticano II,
rimproverando ad Angelini un assunto lontano dalle posizioni bolognesi. Per
Angelini, al dire di Ruggieri, «i testi delle decisioni finali sarebbero
semplicemente la lettera, che andrebbe tuttavia interpretata alla luce dello
spirito di cui il vettore sarebbe invece l'evento del concilio stesso nella
sua celebrazione durata parecchi anni, dal primo annuncio fino alla
conclusione. Duole il dirlo ma, nella Storia diretta da Alberigo, una
banalità del genere è semplicemente assente...» (20). Dal contesto su
accennato si evince però che Angelini ha colto nel segno quanto trapela
dalla Scuola bolognese e dalla loro Storia del Concilio.
Anche per B. Forte il Vaticano II è il «Concilio della storia», nel senso
che «il Vaticano II ha avviato una "storia del Concilio", un itinerario di
ricezione attraverso il quale la promessa risuonata nell'evento conciliare
potesse prender corpo nella vita degli uomini» (21) e così il Concilio
assume la «storia nell'autocoscienza della fede» (22) e la mette in rapporto
alla verità. Per Forte il primo luogo in cui si evince il fatto che il
Vaticano II si presenta come Concilio della storia è la costituzione sulla
Divina Rivelazione, Dei Verbum, in cui il Concilio offre «il più incisivo
contributo che la riflessione magisteriale abbia dato al problema della
mediazione storica della rivelazione. Il superamento della dottrina delle
due fonti, Scrittura e Tradizione, in quella dell'unica traditio Verbi ex
fide in fidem, che ha il suo momento normativo nella parola registrata nel
testo sacro, ma che vive in permanente novità di racconto e di
interpretazione sotto l'azione dello Spirito Santo nel tempo...» (23) .
Ancora, secondo Forte un altro elemento in cui si veda la storicità del
Concilio è il fatto che col titolo Gaudium et spes assunto in sostituzione
dell'altro De Ecclesia et mundo huius temporis si risolve quel dualismo
Chiesa-mondo, che questo ultimo titolo richiamava piuttosto che mettere in
risalto il dialogo e la presenza feconda della Chiesa nel mondo (24).
La Scuola bolognese è intervenuta nuovamente di recente nel dibattito sul
Concilio con un libro curato da A. Melloni e G. Ruggieri, Chi ha paura del
Vaticano II? (25). Qui il livello delle forme storiche contingenti ha un
predominio sui principi fondamentali della fede e questi devono essere letti
alla luce di quelli. G. Ruggeri nel suo intervento su Ricezione e
interpretazione del Vaticano I. La ragioni di un dibattito (26), enuclea
precisamente la sua tesi quando sostiene che «il teologo seguendo l'esempio
di Benedetto XVI, distinguerà tra il livello delle forme contingenti, in
apparente discontinuità, e quello dei principi fondamentali. Ma sono
distinzioni che lo storico non può fare all'interno del suo orizzonte.
Anche perché egli sa che, storicamente, questa distinzione subisce
varianti: ci sono affermazioni che in una determinata epoca vengono
considerate essenziali e necessario alla fede e che, in un mutato contesto,
si "scoprono" come secondarie. Il caso della condanna del poligenismo nella
Humani generis ne è un caso chiaro. L'enciclica si poggiava sulla dottrina
scolastica che considerava come "teologicamente certa" l'incompatibilità tra
la dottrina dogmatica del peccato originale e l'ipotesi poligenista delle
origini della razza umana. Oppure si può ricordare la condanna del
Christotokos di Nestorio, oggi praticamente superata, o il più recente
accordo tra chiesa cattolica e chiesa luterana sulla giustificazione» (27).
In tal modo Ruggieri liquida tutte quelle verità di fede incompatibili con
lo sviluppo storico. La «fede approfondisce e non contraddice la
considerazione dello storico» .
Ruggieri è anch'egli convinto della necessità di riconoscere la natura
pastorale del Vaticano II, ma - al contrario di quanto si diceva su - solo
perché sia l'inizio di un nuovo modo di concepire il Concilio nella Chiesa e
per la Chiesa. Infatti, per Ruggieri la ricezione del Concilio consiste
essenzialmente nella ricezione di un nuovo modo di essere della Chiesa. Il
Vaticano II è la ricezione di ciò che la Chiesa è stata. Scrive: «La
ricezione dell'evento conciliare implica allora soprattutto che la chiesa
oggi non possa essere diversa non già e in primo luogo da quello che ha
detto in concilio (giacché invece deve superare molte delle cose dette in
concilio), ma da ciò che è stata in concilio» (29).
L'asse teologale per ricevere il Concilio, ovvero il suo spirito, il suo
modo di essere più che le cose che ha insegnato, è dato anche a parere di
Ruggieri (che fa sua anche se con qualche lieve critica la tesi di Theobald
che legge il Concilio fondamentalmente come l'intersecarsi di un asse
verticale e uno orizzontale) dalla Dei Verbum, sintetizzata nel suo prologo.
Essa «concepisce la rivelazione come esperienza ed evento di incontro e di
comunicazione tra Dio mistero assoluto e la risposta libera della coscienza
umana» (30) Alla rivelazione di Dio che è libertà comunicativa fa seguito la
libertà religiosa dell'uomo. Così sì saldano la Dei Verbum e la Dignitatis
humanae. «Si comprende a partire da qui che una siffatta teologia della
rivelazione e della fede esige necessariamente la definizione della libertà
religiosa per tutti» (31). Il Concilio è un crocevia della libertà di Dio e
della libertà dell'uomo.
C. Theobald nel suo saqgio Nodi ermeneutici dei dibattiti sulla storia
del Vaticano II , invoca un ritorno al principio di "pastoralità" come
contrappunto al problema ecclesiologico letto come elemento primario del
Concilio. Secondo Theobald la Chiesa come argomento principale del Concilio
fu opera dell'apporto di Paolo VI, alquanto estraneo all'intenzione
originaria di Giovanni XXIII. Il Concilio deve riappropriarsi del suo
connotato specifico perché, a dire di Theobald, «non c'è annuncio del
Vangelo di Dio senza farsi carico del destinatario; e per precisare il ruolo
di quest'ultimo, si deve aggiungere che "ciò" di cui si tratta nell'annuncio
è già operativo in lui, dal momento che può aderirvi in piena libertà».
Ancora una volta la libertà è il vero paradigma conciliare che rende
efficace in definitiva anche l'annuncio del Vangelo, la sua proclamazione
oggi, il nuovo modo di essere della Chiesa oggi: libertà. La vera novità del
Concilio è per Theobald questa: «La chiesa conciliare prende
progressivamente coscienza che la rivelazione non esiste al di fuori della
sua ricezione storica e culturale: la "tradizione" effettivamente vissuta,
il corpo della fede - quello che essa è, che riceve e che si dona - è la
sola traccia della sua origine divina...» (34).
Tutto questo però non lascia né lo storico né il teologo senza
conseguenze rilevanti nel suo cammino di fede e nella sua indagine: il
Concilio è destinato a diventare tanti concili finché perdura la ricerca
della forma storica della ricezione e prevale su quella della fede. Si va
avanti celebrando sempre nuovi concili. Theobald né è convinto - supponiamo
che lo siano tutti i membri dell'"Officina" bolognese - e scrive: «La
normatività del corpus conciliare non consiste nella sua letteralità
teologica o giuridica, né in uno spirito che non avrebbe più niente da
ricevere da esso; essa si manifesta piuttosto concretamente in una messa in
opera pastorale e missionaria, che - istruita dallo Spirito - vada fino al
punto in cui le riformulazioni di questo o quel testo si dimostrino
necessarie, suscitando allora l'attesa di un nuovo concilio» (35). Si dovrà
credere, in definitiva alla Chiesa o al concilio? Chi sarà la norma della
fede?
Riflessioni critiche ed auspici
Volendo offrire ora degli spunti critici su questo breve status quaestionis (parziale ed introduttivo certo rispetto alla problematica in
esame) non possiamo che rilevare immediatamente l'incapacità
dell'ermeneutica della discontinuità di dialogare con l'intero
Soggetto-Chiesa. Solo se si parte da una visione unitaria della Rivelazione
e se ne specifica le due fonti unite nell'unica Parola di Dio rivolta agli
uomini ma distinte, si può far chiarezza dell'elevata posta in gioco:
l'intera vita della Chiesa, da Cristo a noi, senza interruzioni o cesure. È
in gioco, come si vede, il giusto concetto di Rivelazione e conseguentemente
quello di Tradizione. Bisogna nuovamente chiedersi: la Rivelazione è un atto
libero e gratuito di Dio, dunque contingente, oppure Dio non sarebbe Dio
senza la Rivelazione? Se è vera la prima domanda e falsa la seconda non c'è
motivo per rincorrere la storia. La libertà dell'autocomunicazione di Dio
fonda l'alterità tra fede e storia e la precedenza della fede sulla storia.
Lo vedremo meglio tra breve confrontandoci con Rahner.
In nome del "principio di pastoralità" si postula, nella sponda
ermeneutica della discontinuità, una sorta di rottura con l'istituzione, con
ciò che è fisso, normativo, per fare spazio ad un nuovo modo di "sentirsi"
chiesa nel mondo. Qui il nodo è costituito dalla storia. Si interpreta la
fede con la storia e non la storia con la fede. Favorendo la storia e
preponendola alla fede non si esce da un labirinto: il mondo. La norma del
Concilio non sarà più la Tradizione ma la vita della Chiesa pastoralmente
intesa che trasmette storicamente la fede.
La fede sarà soggetta sempre al tempo e il Vaticano II al futuro che deve
ancora venire ma in vista del quale si coglie ora quel che si voleva dire,
lo spirito nascosto del Concilio, le sue ansie, i suoi desideri. Si cade in
un'idolatria del tempo e la fede e i suoi dogmi non avranno più cittadinanza
perché saranno oggetto di un'evoluzione dello spirito che di volta in volta
matura nuove comprensioni e nuove vie per credere. La Chiesa subisce una
frattura nel suo intimo, perde la sua rilevanza come Soggetto di fede per
essere soggetta ai momenti e alle mode.
Mentre si riconosce la pastoralità del Vaticano II, consapevoli della
volontà di Giovanni XXIII di far fronte ai bisogni dell'uomo d'oggi,
presentandogli la dottrina di sempre con un linguaggio a lui comprensibile,
praticamente però nell'ermeneutica teologica applicata al Vaticano II si
insiste sulla specificità dogmatica nuova: la necessità di subordinare il
metodo dogmatico a quello pastorale, di dogmatizzare la pastorale.
Si sussume nel momento teologico-dogmatico dell'interpretazione quello
storico-pastorale che privilegia non più la Tradizione ma le forme storiche
contingenti come nuove espressioni dello spirito impresso nelle lettere. Le
nuove forme diventano la regola della fede mentre la fede crederà le nuove
forme di espressione della verità. In tanti fedeli questo è già vero. La
verità così obbedisce alle forme storiche e necessariamente, come
conseguenza logica, la fede insegnata dal Concilio non dovrebbe più essere
la fede della Chiesa. Una tale concezione che sostituisce il momento
pastorale a quello dogmatico è semplicemente uno scambio improprio che
finisce per ritorcersi contro di sé: quale sarà la giusta regola di
interpretazione del Concilio? Sola la volontà pastorale di Giovanni XXIII?
O non piuttosto le diverse forme storiche che si alternano nel tempo?
Come si vede il Concilio stesso è destinato in tal modo a lasciare di volta
in volta il tempo che trova e ogni stagione sarà una stagione conciliare,
ogni idea sarà frutto dell'intenzione del Concilio; si attribuirà ogni
progresso, ogni modernismo al Concilio e si finirà coll’obbedire a ciò che è
più comodo. Proprio come avviene oggi. Tante dottrine, tante verità
giustificate in nome del pluralismo. L'ermeneutica della rottura, dunque, è
in se stessa vacillante e contraddittoria. Di più, il Concilio inaugurerebbe
un nuovo modo di fare esperienza di Dio nella storia degli uomini, ormai
slegato da ogni riferimento oggettivo al dogma creduto e pregato.
Qui il vero problema soggiacente è l'impero del metodo trascendentale,
della teologia trascendentale, che pone un'assoluta contiguità tra la storia
universale del mondo e della Bibbia, diventando una storia della rivelazione
in quanto autocomunicazione trascendentale di Dio che fonda l'apertura
esistenziale-soprannaturale dell'uomo in virtù della sua
libertà-trascendentalità ad ascoltare la rivelazione, a conoscere l'essere
(l'esistenza) e il mondo. Così si salda in modo permanente Dio-l'uomo-il
mondo, la fede e la storia.
In questo senso la Dei Verbum non può che richiamare o oggettivare la
Dignitatis humanae interpellandosi e interscambiandosi. Per Rahner c'è una
mediazione storica nella trascendenza e nella trascendentalità del soggetto.
La storia è l'evento della trascendenza e l'esperienza della soggettualità
(36), «la stessa trascendenza ha una storia e... la storia a sua volta è
sempre l'evento di tale trascendenza» (37) .
Da qui Rahner fa conseguire che «la storia della salvezza e la storia
della rivelazione, in quanto autocomunicazione propriamente soprannaturale,
sono coesistenti e coestensive alla storia religiosa del mondo, alla storia
dello spirito e quindi anche alla storia religiosa in genere. Dal momento
che, attraverso l'autocomunicazione entitativa ontologica di Dio esiste
un'autotrascendenza dell'uomo di carattere rivelatorio, assistiamo a una
storia della rivelazione ovunque tale esperienza trascendentale ha una
storia: assistiamo quindi a una storia della rivelazione nella storia
dell'uomo in generale».
Sembra che proprio su questo principio ormai sia radicato il dialogo che
il Concilio avrebbe inaugurato con ogni uomo, con ogni religione, con ogni
comunità ecclesiale. Non c'è più alcuna diversità, ma solo un'unità
nell'essere uomini e dunque nell'essere portatori di questa rivelazione nel
mondo. Ha più senso, in questo modo una salvezza trascendente e non
trascendentale? Il trascendentale diventa una minaccia per il trascendente
La teologia trascendentale di Rahner, infatti, lega a doppio spago Dio e
il mondo, «...questa libera grazia - scrive Rahner, - come determinazione
trascendentale dell'uomo ha la propria storia in ciò che chiamiamo storia
della salvezza e della Rivelazione, che non può affatto essere e venir colta
come tale senza questa possibilità a priori dell'uomo, chiamata grazia
(della fede)» (39). E così si giunge al compito fondamentale dell'intero
impianto trascendentale della teologia. Al primo posto Rahner pone il
«rapporto Dio-mondo»: «Infatti, solo quando vi sia una conoscenza di Dio in
un metodo trascendentale Dio non diviene un frammento (del mondo)
nell'ambito dell'intero del mondo o un demiurgo, che interviene nel mondo
puramente 'dall'esterno'» (40).
Come si vede, un altro elemento cruciale da cui non si può prescindere in
questo doveroso sforzo di ricucire le fila della fede con l'intero
mistero-Chiesa è la necessità di abbandonare il metodo trascendentale,
denunciandone la sua incompatibilità con la teologia, oltretutto la sua
chiusura a Dio e in definitiva anche al mondo. Il metodo trascendentale pone
in modo assolutamente contigui Dio e il mondo, la natura e la grazia, fino
ad assorbire il soprannaturale nel naturale. Il soprannaturale rimarrà
atematico per sempre. Dio rimarrà l'anonimo, ovvero lo sconosciuto e l'uomo
farà tutto da sé.
Nello sforzo rahneriano prolungato dai sostenitori di un dialogo a tutto
campo col mondo e con la storia emerge piuttosto un dato preoccupante: il
mondo per quanto lo si valuti come contingente e quindi relativo a Dio
rimane sempre il momento essenziale della rivelazione, la sua delimitazione,
il suo insabbiamento. Dio ha detto tutto nel mondo, o piuttosto ha detto il
mondo e noi incontrando il mondo incontriamo Dio. Invero, incontrando il
mondo incontriamo piuttosto - come avviene oggi - l'assuefazione a Dio, la
sua negazione. Dio non è il mondo e il mondo non è Dio. Dio non lo si trova
soprannaturalmente nel mondo ma nella sua Parola di Rivelazione donata al
mondo, nei suoi Sacramenti. Dio lo si incontra nella Chiesa, nella
Tradizione ininterrotta da Cristo fino agli ultimi Vescovi successori degli
Apostoli. Anche il Concilio lo incontro non nel mondo ma nella Chiesa. Solo
se incontro la Chiesa incontro il Concilio e finalmente il mondo, perché
incontro Dio.
La Chiesa è più grande del Concilio. Questi è una manifestazione della
Chiesa, la più solenne, la più mediatica diremmo oggi, ma una delle
manifestazione della Chiesa. La Chiesa trascende il Concilio e ogni sua
manifestazione per radicarsi nel mistero del Dio Unitrino del quale è
riflesso nel tempo e dalla cui comunione è radunata. Chi postula un nuovo
cominciamento è destinato a seguire il Concilio più che la Chiesa. Questo è
il rischio di oggi, questa è la ragione della spersonalizzazione della fede.
Seguire il Concilio significherà seguire tutti i concili che dovranno
venire, perché in ognuno di essi si dovrà trovare il motivo del
cominciamento nel tempo e nella storia.
I concili dovranno rispondere alle esigenze fluttuanti della storia,
dovranno essere tutti esclusivamente pastorali e necessariamente tanti
quanti saranno i momenti nuovi e nodali della storia. Inseguiremo i concili,
celebreremo i concili e non più il mistero di Cristo nella Chiesa. Urge un
"uscire dal Concilio", da questa mentalità storicista applicata al Concilio,
per ritrovare Cristo e la Chiesa. Allora si capirà anche il Concilio e il
mondo.
Note
1) Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione
della scomunica dei 4 Vescovi consacrati dall'Arcivescovo Lefebvre, del 10
marzo 2009, in L'Osservatore Romano del 13 marzo 2009, p, 8.
2) Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il
Clero, 16 marzo 2009, in L'Osservatore Romano del 16-17 marzo 2009, p.8
3) Cit. in G. TURBANTI, Verso il quarto periodo, in G. Alberigo (diretta
da) Storia del Concilio Vaticano II, vol. V, Concilio di transizione, II
quarto periodo conciliare (1965), II Mulino, Bologna 2001, p. 23, nota 1
4) Casa Mariana Edìtrice, Frigento 2009. L'autore era già intervenuto
sulla questione, Il Vaticano II sotto giudizio, in Divinitas 3 (2008)
320-328. Sulla medesima linea possiamo sicuramente collocare anche R.
AMERIO, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX, Fede e Cultura, Verona 2009, pubblicato anche da Lindau, Torino 2009,
con la postazione del prof. Enrico M. Radaelli, una propedeutica importante
al pensiero di Amerio onde lumeggiare che la sua critica appartiene
all'alveo della dovuta riflessione teologica ed è nella piena obbedienza
alla Chiesa. Si veda pure il libro postumo di Amerio Stat veritas, Lindau,
Torino 2009. R, Amerio sembra avere oggi una certa riabilitazione teologica.
Prima ci fu su La Civiltà Cattolica del 17 marzo 2007, pp. 622-623, una
recensione di Giuseppe Esposito al libro su Amerio di E. M. RADAELLI, Romano Amerio. Della verità e dell'amore, Marco Editore, Lungro 2005. Poi
L'Osservatore Romano del 10 novembre 2007 recensiva il Convegno di Ancona
del 9 novembre 2007 sulla figura e l'opera di Romano Amerio, organizzato dal
Centro Studi Oriente Occidente a dieci anni dalla morte del pensatore
svizzero. Continuerà questo interessamento?
5) B. GHERARDINI, Concilio Ecumenico Vaticano II, cit., p. 24.
6) Ibid., p. 87
7) Ibid., p. 84
8) Ibid., p. 85
9) Ibid., p. 51
10) Ibid., p. 117
11) Cf Ibid., p. 128
12) Ibid.
13) Cf Ibid., pp. 126-127
14) Ibid., pp. 125-126
15) A trent’anni dal Vaticano II, in Ibid., volI, Il cattolicesimo verso
una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione Il Mulino, p. 10. per una
recensione critica dell’opera di Alberigo si veda A. MARCHETTO, Il Concilio
Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, LEV, Città del
Vaticano 2005. Si veda anche la presentazione che di questo libro fece il
cardinale C. Ruini, il 17 giugno 2005 in cui diceva: «L’interpretazione del
Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. E’
un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della
Chiesa». Il pensiero di Ruini su questo punto emblematico è espresso nel suo
libro, Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti,
Mondatori, Milano 2005.
16) G. ALBERIGO, A trent’anni dal Vaticano II, cit.
17) Ibid.
18) Ibid.
19) Dibattito -Vaticano II: la recezione del Concilio. Sul conflitto
delle interpretazioni, in Il Regno 10 (2008) 297-303
20) testo pubblicato on line nel contesto del Convegno di Firenze del 16
maggio 2009, dal titolo Il vangelo che abbiamo ricevuto. La relazione
suddetta di Ruggeri ha per titolo Il concilio? Così è, se vi pare…
Leggerezze e banalità nella discussione sul Vaticano II, in
www.statusecclesiae.net
21) Le prospettive della ricerca teologica, in R Fisichella ( a cura di),
Il Concilio Vaticano II: recezione e attualità alla luce del Giubileo,
Cinisello Balsamo, San paolo 2000, p. 423
22) Ibid.
23) Ibid., p. 420
24) Ibid., p. 421
25) A. MELLONI – G. RUGGERI, Chi ha paura del Vaticano II?, Carocci, Roma
2009.
26) In ibid. pp. 17-44
27) Ibid., pp.24-25
28) Ibid., p. 26
29) Ibid., p. 30
30) Ibid., p. 36
31) Ibid.
32) In ibid., pp. 45-68
33) Ibid., p. 56
34) Ibid., p. 63
35) Ibid., p. 65
36) Cf Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977, pp. 191.
37) Ibid., p. 192
38) Ibid., p. 207
39) Teologia trascendentale, in Sacramentum mundi, vol 8, Morcelliana,
Brescia 1977, col. 350. Quest’a priori dell’uomo è «l’esistenziale
soprannaturale permanente della grazia come autocomunicazione di Dio
offerta, quindi una struttura costituzionale ‘trascendentale’ dell’uomo»,
Ibid.
40) Ibid.