Dialogo Chiesa - Islam. Ripartire dal Papa di Regensburg
Samir Khalil Samir Sj, AsiaNews 16 gennaio 2007

Il tanto criticato discorso di Benedetto XVI a Regensburg ha lanciato in realtà un modello efficace per il dialogo islamo-cristiano: rifiuto della violenza, amore alla verità, interpretazione, missione. L’unica via per superare l’apparenza tollerante e banale del dialogo predicato da molti musulmani e da buona parte della Chiesa cattolica.

 
La lezione magistrale di Benedetto XVI a Regensburg è stata vista da cristiani e musulmani come un passo falso del papa, un suo banale errore, qualcosa da dimenticare e lasciarsi alle spalle, se non vogliamo fomentare una guerra fra religioni. In realtà questo papa dal pensiero equilibrato e coraggioso, per nulla banale, a Regensburg ha tracciato le basi di un vero dialogo fra cristiani e musulmani, diventando voce di molti musulmani riformisti e suggerendo all’Islam e ai cristiani i passi da fare.

Ancora oggi in occidente e nel mondo islamico vi sono forti reazioni a quel discorso. Ma molti studiosi musulmani cominciano a domandarsi: “Passata la burrasca dei fraintendimenti, in fondo, cosa ci ha detto Benedetto XVI? Ha detto che noi musulmani corriamo il grande rischio di eliminare la ragione dalla nostra fede. In tal modo la fede islamica diviene solo un atto di sottomissione a Dio che al limite può cadere nella violenza, magari ‘in nome di Dio’, o ‘per difendere Dio’”.

Violenza, ragione e crisi dell’Islam

Proprio la citazione di Manuele II Paleologo, tanto bistrattata e odiata, era importante perché sottolineava che “Dio non ama il sangue e la violenza”, e che la violenza è contraria alla natura di Dio e dell’uomo. Purtroppo, siccome questa frase è stata pronunciata il 12 settembre, un giorno dopo l’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, la gente l’ha letta in chiave politica (aiutati dalla manipolazione di al Jazeera e dei liberal occidentali ).

Adesso la stessa gente musulmana si chiede: “Tutto sommato, il papa ha detto che nell’Islam c’è il rischio di violenza. E questo non è vero? Non è la nostra storia e il nostro problema quotidiano? Non c’è il rischio di svuotare la fede separandola dalla ragione e dal pensiero critico?”. Anche se non in pubblico, diversi studiosi islamici affermano: “Questa separazione fra la fede e la ragione è più che mai il pericolo attuale dell’Islam!”.

Nel IX-XI secolo l’Islam ha integrato nella sua visione la dimensione ellenistica della filosofia greca e, attraverso questa, la dimensione critica, logica, ragionevole. Questo è stato fatto grazie ai cristiani che vivevano nel mondo musulmano. Ma da quasi mille anni l’Islam ha evacuato la ragione e ripropone di continuo un’applicazione letterale di quanto si è detto nel passato. La crisi attuale del mondo musulmano ha come base proprio il divario fra la fede e la ragione e in varie forme, sono tanti i musulmani che lo dicono.

Circa un mese fa, il ministro egiziano della Cultura, Farouk Hosni, in parlamento, ha criticato la diffusione del velo islamico in Egitto dicendo che “questo [uso del velo – ndr] non si è mai visto prima nel nostro paese. Su questa strada siamo tornati indietro di almeno 30 anni”. Un altro parlamentare è intervenuto a dargli man forte: “Non solo siamo tornati indietro di 30 anni, ma all’epoca di Mehemet Alì [cioè agli inizi del XIX secolo]”.

Purtroppo il ministro è stato accusato di andare contro la Costituzione egiziana, che prevede il Corano e la sharia come fonti della legislazione. Così, Farouk Hosni, ministro da 20 anni e noto artista, ha rischiato di essere dimesso da parte dagli integralisti. In più, avendo egli 62 anni e non essendo sposato, è stato anche attaccato e accusato di essere omosessuale.

La crisi dell’Islam è sotto gli occhi di tutti ed è sottolineata da tutti gli intellettuali. Essa è un tentativo di rifugio nel passato per paura dell’autocritica, della ragione e della modernità.

Quando il papa sottolinea di integrare la ragione nella fede – e ai laici di integrare la dimensione spirituale nel concetto di ragione – in realtà suggerisce all’Islam la strada per fare dei grandi passi avanti.

Il coraggio di parlare

Un altro elemento importante emerso a Regensburg è il coraggio di parlare: è ora di finirla di avere sempre peli sulla lingua quando si parla dell’Islam. Anche un papa ha pieno diritto di dire le cose in modo semplice e diretto ai nostri fratelli musulmani, così come agli ebrei, ai laici, e ai propri cattolici (1). Questo papa ha rivendicato la libertà di parola.

La seconda cosa: lui ha detto cose ragionevoli e spiacevoli, ma è convinto che tali cose vanno dette perché questo è il contenuto di un vero dialogo. Lo scopo del discorso di Regensburg – è detto nella conclusione – è proprio il dialogo umanistico, che non rigetta nulla di positivo nell’Islam e nell’illuminismo, ma critica ciò che di estremista e di anti-spirituale vi è nell’uno e nell’altro. In tal modo Benedetto XVI ha messo le basi di un dialogo universale facendo una proposta alle due opposte tendenze di oggi: da una parte l’Islam con un fideismo che esclude la ragione (e vale la pena precisare che ciò non significa che tutto l’Islam ha sempre rigettato la ragione, come qualcuno ha voluto fargli dire); dall’altra, ha fatto una proposta all’illuminismo laicista, razionalista che elimina come insignificante la religione.

Da Regensburg in poi egli ha pure “mostrato” questo dialogo, facendo gesti concreti. Vale la pena ricordare la preghiera del papa nella Moschea blu ad Istanbul, nel suo viaggio in Turchia. Il papa ha sottolineato nei fatti che noi cristiani riconosciamo e rispettiamo la dimensione spirituale presente nell’Islam: si è tolto le scarpe entrando nel luogo sacro (una tradizione che è biblica e che si ritrova per esempio presso i Copti e gli Etiopi); invitato a pregare, si è girato verso il mihrab, la nicchia che indica la Mecca. Egli ha pregato perchè non riduce l’Islam a politica; ha pregato senza creare ambiguità o confusione. Questi gesti hanno dato il vero significato del discorso di Regensburg per i musulmani.

Il papa, maestro di interpretazione del Corano

Ancora oggi vi sono musulmani che mi scrivono ringraziando il papa per quello che ha detto in Germania. Già subito dopo il discorso, il tunisino Abdelwahhab Meddeb ha detto grazie a Benedetto XVI, perché “finalmente qualcuno osa parlare e punta il dito sulla violenza nell’Islam”. Per Meddeb “il seme della violenza nell’Islam si trova nel Corano”, come ha intitolato un suo articolo.

Questa affermazione - di un musulmano - mette in luce il vero, grande problema del dialogo attuale: la mancanza di verità, il non accettare di confrontarci sui punti critici.

Sulla questione della violenza, tutti i musulmani sanno che i semi sono nel Libro sacro, ma tutti anche cercheranno di nasconderlo dicendo che “No, non è vero, l’Islam significa pace, salām, rispetto, non violenza”, negando i fatti (2).

Il discorso di Benedetto XVI non ha negato i fatti, ma ha proposto di comprenderli all’interno di un contesto umano. Ha cioè suggerito all’Islam di iniziare a fare l’interpretazione dei testi.

Quando il papa ha citato il versetto del Corano, “non c’è violenza in materia di fede” (Sura della vacca, 2,256) ha aggiunto una frase che ha scandalizzato molti: “ma questo è probabilmente una delle sure del periodo iniziale… in cui Maometto stesso era senza potere e minacciato”.

Questi commenti mi sembrano fondamentali: egli spinge a fare un lavoro di esegesi verso i testi sacri. Nel caso specifico, egli ha fatto un esempio di ermeneutica del Corano, proponendo la lettura di quel verso dentro l’esperienza umana di Maometto Molti, sia musulmani che studiosi cattolici, lo hanno criticato: “E’ un ignorante - hanno detto - quel versetto non è del periodo iniziale (Mecca), ma del periodo di Medina”.

In effetti, secondo l’edizione ufficiale del Corano si tratta del periodo di Medina. Ma leggendo i commenti nelle edizioni bilingue arabo-inglese e arabo-francese del Corano, edite dall’Arabia saudita, si dice: “Questa è la prima sura rivelata a Medina”. In termini sociologici, ciò significa che è stata rivelata subito dopo l’Egira - la sua fuga dalla Mecca – quando Maometto ha lasciato la sua tribù per unirsi alle tribù avverse di Aws e Khazraj. In quel momento e per i successivi due anni (fino al 624) egli era senza alcun potere e sempre minacciato. Ha cercato infatti d’appoggiarsi agli ebrei, i più ricchi e più forti di Medina. Non essendovi riuscito, si è messo a fare delle razzie, com’era solito fare chi non riusciva a sopravvivere Se questa sura – come dicono i commentatori musulmani – è la prima di Medina, significa che essa è prima del periodo delle razzie. E’ vero dunque che è “del secondo periodo”, ma è anche vero – come dice il papa – che essa emerge in un momento in cui Maometto stesso era “senza potere e minacciato”.

Con il suo piccolo commento, Benedetto XVI sembra suggerire ai musulmani: dobbiamo leggere il testo nel contesto; e questo è fondamentale per cominciare un dialogo islamo-cristiano. Occorre rileggere i libri sacri per vedere “le circostanze della rivelazione” (asbāb al-tanzīl, come dice la tradizione musulmana). In questo il papa riprende la sana tradizione dell’interpretazione che era viva nel IX secolo. Purtroppo nell’Islam contemporaneo questa cosa non si fa più.

Invece, se si incontrano nel Corano dei versetti violenti – e ci sono – devo cercare di intenderli nel contesto in cui sono apparsi. È chiaro che Maometto ha fatto delle guerre; è anche chiaro che egli ha combattuto non per amore della violenza: seguendo la tradizione antico-testamentaria, egli ha fatto la guerra “per Dio”, “nello zelo di Dio”. Tutto questo, mettendolo nella tradizione culturale e religiosa del Medio Oriente, è naturale e non sorprende.

Ma occorre anche dire: oggi la mentalità è cambiata: Dio ha davvero bisogno di essere difeso dagli uomini? Da qui segue la necessità che il Corano venga riletto e interpretato per l’oggi. Da un secolo a questa parte tutti i riformisti musulmani ripetono che la soluzione per modernizzare l’Islam sta nell’interpretazione del Corano. Da almeno 30-40 anni ci troviamo in una fase in cui non c’è più innovazione nell’interpretazione, ma ripetizione fino alla nausea delle stesse cose e clichè. Si ripetono sempre le stesse cose imparate a memoria.

Un giovane dottore musulmano iraniano, laureato in islamistica, mi ha detto proprio in questi giorni: “Non possiamo più pensare al Corano come direttamente dettato da Dio a Maometto tramite l’angelo Gabriele. Occorre interpretarlo. Purtroppo nell’Islam attuale non c’è molta liberta: un nostro intellettuale, Abdolkarim Soroush (3) alcuni decenni fa, è stato allontanato dall’insegnamento universitario proprio per aver insegnato queste cose. Alla fine, per poter vivere ed esprimersi, ha dovuto emigrare in Europa”. Nell’Islam attuale le idee si trovano, soprattutto fra riformisti e giovani intellettuali, ma essi tacciono perché nel mondo islamico la libertà è assai limitata.

Il papa ha avuto il coraggio di identificare i punti chiave: la ragione, la violenza, l’ermeneutica…E ha messo il dito nella piaga sulla questione dell’interpretazione del Corano, senza di cui non si riesce a dialogare.

Questa spinta all’Islam verso l’interpretazione è fatta per amore stesso dell’Islam. Alcuni teologi cristiani e musulmani hanno criticato il papa per essere stato troppo duro a Regensburg e lo hanno invece applaudito in Turchia. In realtà è lo stesso papa che, per amore dell’Islam, a Regensburg non ha mancato di criticarlo, e a Istanbul non ha mancato di fraternità spirituale.

La missione cristiana tentata dal relativismo

A Regensburg Benedetto XVI ha osato parlare di violenza, mancanza di ragione, necessità dell’interpretazione nell’Islam e per questo molti intellettuali musulmani lo hanno elogiato e hanno sperato che “il papa non chieda scusa”. In occidente, le richieste di “scuse” erano innumerevoli, anche fra i cristiani. In realtà è successo che l’atteggiamento del papa a Regensburg ha sconquassato la concezione troppo irenica della missione della Chiesa e il perbenismo tollerante laico. Benedetto XVI ha fatto comprendere che dire la verità, dire delle cose che fanno male, non è un insulto, ma una strada di guarigione. Ogni tanto bisogna offrire anche una medicina amara.

Spesso fra cristiani che dialogano con l’Islam si tende a “nascondere” e a non parlare delle differenze. Questo si può ammetterlo all’inizio: se devo cominciare un rapporto con te, di certo non mi metto anzitutto a definire quanto mi divide da te. Ma il rapporto deve approfondirsi.

Uno dei frutti di questa “chiarezza” suggerita dal papa, è l’atteggiamento del vescovo di Cordoba. Il prelato, per l’ennesima volta, ha ricevuto la richiesta da parte di un gruppo di musulmani (spagnoli convertiti), di poter utilizzare la cattedrale per pregare insieme e dare una immagine “del vero ecumenismo”. Il vescovo ha risposto che lui vede in questa possibilità un’ambiguità e non lo ha permesso. Diversi giornali laici europei hanno criticato il vescovo perché “ha rigettato la proposta aperta e fraterna”, ecc…

Senza alcuna violenza sta crescendo nei cristiani un senso della propria cultura e della propria identità e della libertà reale di religione. In tal modo si comincia a superare quell’atteggiamento irenico e falsamente multietnico di una “ammucchiata” delle religioni.

Questo è urgente soprattutto in Francia, dove la paura di offendere l’Islam non permette nemmeno di stilare ogni anno delle statistiche sui convertiti dall’Islam: i vescovi e i responsabili del dialogo con i musulmani, si rifiutano di comunicare il numero di musulmani che chiedono il battesimo.

Per me, io non sono contrario al fatto che vi siano cristiani che diventano musulmani, purché sia fatto per motivi di fede e non politici o economici. Ma voglio anche che si comunichi e ci sia la libertà di sapere quanti musulmani diventano cristiani. In questa apertura schietta si crea una vera e propria emulazione spirituale.

Musulmani e cristiani hanno l’obbligo della missione. I musulmani la chiamano “da’wa” ed è un obbligo; i cristiani la chiamano evangelizzazione, e anch’essa è un obbligo. Purtroppo fra i cristiani si trovano sempre più persone che si rifiutano di annunciare e di parlare della propria fede per “rispetto” o per non cadere nel proselitismo.

I musulmani in ogni paese hanno degli uffici della da’wa. Essi sono legati ad ogni Stato islamico e nei diversi paesi costruiscono moschee, diffondono il Corano, predicatori e altro, una specie di Propaganda Fide per ogni stato islamico. La differenza è che fra i musulmani è lo Stato a sostenere la missione islamica. Nel caso dei cristiani, sono le comunità, la Chiesa a sostenere la missione.

Se una Chiesa o un vescovo non ci tengono alla missione, significa che sono addormentati o ripiegati su se stessi. Finora, nei confronti dei musulmani, ho visto chiese molto organizzate dal punto di vista caritativo: aiuto agli immigrati, ospitalità, scuola, ecc. È una generosità senza annuncio. Si dice che questo avviene per salvare il dialogo. Ma l’annuncio è necessario proprio perché il dialogo sia un dialogo nella verità.

Occorre che la Chiesa riprenda coscienza che la sua esistenza – non solo numerica – è legata all’annuncio del Vangelo anche verso i musulmani. Se non c’è questa spinta, allora significa che essa ha perso il senso della bellezza della fede incontrata in Cristo. È lo scivolamento nel vuoto del relativismo.

NOTE

(1) Come ha fatto – già da cardinale - al Colosseo nel Venerdi’ Santo 2004, parlando della “sporcizia nella Chiesa”.

(2) Va detto che nel Corano si trovano anche semi di non-violenza. E poiché si trovano l’uno e l’altro - come nella Bibbia ebraica - occorre un’ermeneutica, un’interpretazione dei testi sacri per discernerne il significato autentico per noi oggi. Ed è questa una delle idee importanti del Papa, come ho avuto occasione di sentire da lui all’incontro di Castel Gandolfo nei primi di settembre 2005.

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